In Memoria di mio padre Vincenzo e di mia madre Alessandrina Pizi
Nel tradurre, cioè nel trasferire dal codice greco ellenistico ( in cui è codificato il pater matteano, in epoca flavia, in data imprecisata dopo un lungo periodo di oralità aramaica e greca) a quello italiano i significanti, ordinati secondo fonologia e grammatica e sintassi, in una visione sincrona parallela delle due strutture linguistiche, si è costretti a tenere presente l’esigenza di traslatare – il termine è usato prima di tradurre fino al Quattrocento!- cioè di fare una traslazione locutoria -metaphrasis– con tutta l’area semantica e referenziale sottesa.
E’, quindi, un’operazione complessa e difficile, che personalmente ho fatto nel 1992, convinto che non è possibile una lettura di soli segni, di cui non è sicura la traditio testuale.
Il testo matteano del Pater sembra essere più una copia alessandrina di epoca antonina, che quella originaria greca di epoca flavia.
Abbiamo un testo unico con due concezioni christiane, una antiochena e una alessandrina .
La complessità e la difficoltà di lettura sono nell’uso del termine strutturale – come grafema, sintagma, struttura, enunciato, polisemico, perciò polivalente a seconda di come e di quando è detto, scritto, copiato – del sistema contenitore evangelico, dei fruitori committenti, degli utenti riceventi, in relazione alle ubicazioni, nell’ambito dell’ Impero romano, del telos prefissato dallo scrittore, dalla causalità e dalla coerenza linguistica-di norma equivoca, per natura, a meno che non ci sia una convenzionalità scientifica-.
L’equivoco del PATER è nell’uso rituale del testo nelle diverse sedi di recitazione: la preghiera in Asia nel I secolo ha un suo significato; in Egitto nel II secolo ne ha un altro.!
Per uno che opera distinguendo due fasi storiche (quella del Malkut ha shemaim ( Basileia toon ouranoon) e quella della Basileia tou Theou, la lettura del Padre nostro diventa un’impresa impossibile, ingarbugliata, pazzesca, specie perché il testo greco in nostro possesso è quello origeniano, cioè del didaskaleion alessandrino, di una scuola che ha dovuto rifondare il cristianesimo, dopo il lungo oscuramento di Paolo e dopo la fine della Chiesa di Gerusalemme aramaica, dando contenuti nuovi…
La traduzione greca del Testo Pater hmoon kata Matthaion, come preghiera dettata dal Christos e registrata da un tachigrafo, bilingue (aramaico e greco) in ambiente giudaico in epoca messianica tra il (32 e 36 d.c.) nel corso dell’impresa militare di Lucio Vitellio, che ripristina il kosmos, l’ordinato sistema statale romano in Siria, turbato da Artabano III, re dei re di Parthia, è tutta da studiare e da verificare sulla base dell’autentico testo aramaico tramandato…
Esiste un testo aramaico di Matteo?
Esisteva forse, se è vera la tradizione di Eusebio che parla di Panteno,(L’ape sicula), di un suo esilio-missione da Alessandria, di un suo soggiorno in India e del ritrovamento di un Vangelo matteano, portato da Bartolomeo apostolo!…
Dovendosi ricostruire il testo aramaico, la traduzione cristiana greca è fedele trascrizione di ogni lemma in modo da lasciare integro il significato?
E’ fedele, nonostante le oscillazioni di valore semantico a seconda delle situazioni di lettura e degli ambienti stessi in cui si legge?.
Diversa è la lettura , litteralis di Antiochia da quella,allegorica, di Alessandria e da quella originale di Gerusalemme ( divenuta ora Elia Capitolina), specie nel quadro di indagini antonine sul nomen christianum (indagato in quanto ha una radice ebraica) nel corso di una persecuzione giudaica, tesa all’estirpazione del cancro ebraico sotto Adriano…
La traduzione non può non essere equivoca, impropria, unilaterale: è il caso d Panteno e di Clemente, uomini del Didaskaleion di Alessandria , che vivono accanto a quello ebraico e che si confrontano con la lecsis dei Terapeuti giudaici del Lago Maryut, avendo un proprio politeuma, un sistema gerarchico già ben collaudato e un popolo di credenti in Christos …
Più tardi Girolamo, traduttore sanguigno, frettoloso e interpretante non può non essere equivoco! : in tre giorni arrabatta una lezione del Cantico dei Cantici / Shir Shirim, dell’Ecclesiastico e e dei Proverbi; ed ancora peggio, in un solo giorno con l’aiuto di un ebreo, esperto e perfetto conoscitore di lingua ebraica ed aramaica e di un tachigrafo, legge Tobia!
A mio parere non c’è possibilità di resa di un significato senza uno specifico processo referenziale, secondo un accertato lavoro di posizionamento.
Un lavoro è di norma approssimativo e probabilistico, tanto più sicuro per quanto alto è il grado di scientificità e di competenza specialistica personale, provata con paradigmi operativi.
Comunque, se la traduzione dal greco della koinh al latino e all’Italiano è equivoca, tanto più equivoca è quella derivata dall’aramaico parlato a quello scritto e da questo al greco ellenistico- specie alessandrino-, diverso a seconda delle regioni orientali.
In ogni ambiente asiatico ci sono influenze linguistiche locali che portano ad una mistione semantica e a sincresi concettuali, pur nella fissata convenzionalità del significante lessicale e morfosintattico.
Il contributo della musar, cultura aramaico-ebraica, espressa in dabar, alla paideia espressa in logos tipico della lingua comune, è settoriale ed irrilevante sul piano del segno linguistico e della valenza stessa significativa.
La traduzione dei Settanta, seppure arricchita da Alessandro Poliistore, da Aristobulo e specificamente dal pensiero platonico di Filone alessandrino e dalla tecnica prammatica storica di Giuseppe Flavio e poi dagli Evangelisti e dalla fioritura della letteratura cristiana, risulta esemplare in quanto connessa con l’apostolicità ecclesiale e con l’ispirazione dell’ Agion Pneuma, ma non per questo ha valore di autenticità.
Apostolocità non significa autenticità: noi fedeli cristiani così abbiamo voluto credere!
Ne consegue che la confluenza della cultura aramaica, volgare, è ancora meno significativa di quella ebraica e perciò nella codificazione scritta la prevalenza è data al significante comune e meno a quello fonemico – se ben ricordato- aramaico, data la diversa risonanza linguistica e l’impari rapporto tra le due lingue nel seno dell’impero romano, in quanto la significatività comune ha prepotere sulla originaria forma e valenza significativa, per esigenze di comunicazione generale, in un quadro di koinoonia.
Inoltre gli evangelisti, uomini non certamente letterati,- anche se pubblicano di professione come Matthaios e medico come Luca-, non possono né sanno far prevalere la significatività aramaica, che è condizionata dalla significatività ebraica del proprio sondergut, specifico della propria cultura e necessariamente dànno una genericità di senso, procedendo probabilmente come Girolamo che traduce senso da senso, più che parola da parola, arbitrariamente, anche per impaccio linguistico, data la scarsa conoscenza strutturale della koinh – è il caso specifico del levita Marco! -.
Ora la traduzione- lettura proposta, è giustificata da motivi cotestuali e da ragioni tecnico-comparative proprie di Matthaios, erede della tradizione giudaica, connessa con la lingua aramaica.
L’ aver posto il Pater tra i paragrafi 6.5-8 e 6. 14-5 è segno di un disegno già evidenziato, di presentare la preghiera cristiana nella sua tipicità, riferita a quella ebraica e confrontata con quella pagana.
Infatti l’evangelista oppone il 6.5 -la preghiera dei farisei e scribi, ipocriti- fatta in piedi nelle sinagoghe o negli incroci, nelle piazze in modo da essere visibili- a quella del cristiano ( 6.6) che, invece, entra nella sua camera, chiude la porta e prega in segreto.
Di quale cristiano si parla?! e dove e come vive un tale christianos?
Poi da una parte oppone al 6.6 della preghiera cristiana il 6.7 della preghiera battologica – da battologeoo /ciarlo di cose inutili, in quanto faccio tiritela – propria dei pagani, che con la polilogia credono di essere esauditi e dall’altra mostra come il Theos conosca ciò di cui l’uomo ha bisogno, prima ancora di chiederlo e perciò invita a non fare come gli idolatri.
L’ oun conclusivo è spia della volontà di Matthaios, che riproduce il discorso orale di Christos, di chiudere l’insieme discorsivo sulla preghiera, confrontata con quella negativa di ebrei e di pagani, al fine di darne una nuova.
Ma di quale Matthaios si parla?
Non di quello antiocheno, flavio, ma di un Matthaios alessandrino, antonino! Esisteva un vangelo di Matteo con un pater in Alessandria?!…
Il Pater, quindi, viene situato e posizionato come novità, dopo avere evidenziato gli errori dei sistemi di preghiera vigenti.
A conclusione del Pater, Matthaios fa un’aggiunta prosthhkh con 6.14-15 sul perdono che serve di spiegazione al 6.12.
Con un periodo ipotetico di secondo tipo,( basato sulla protasi ean gar aphhte tois anthroopois ta paraptoomata autoon/ se avrete rimesso agli uomini le loro cadute/colpe-in cui ha grande rilievo ta paraptoomata (da parapiptooo cado, violo, erro, devio dalla strada maestra )- aggiunto da Matthaios come alternativa a ta opheilhmata –e sull’apodosi al futuro aphhsei kai umin o pathr umoon o ouranios/anche a voi il padre vostro celeste rimetterà), Matteo prima si pone dall’angolazione positiva del perdono umano e del perdono di Dio e poi da quella negativa (ean de mh aphhte tois anthroopois, oude o pathr umon aphhsei ta paraptoomata umoon/ se non avrete rimesso agli uomini le colpe neanche il padre vostro rimetterà le vostre) scende sul piano colloquiale del voi, dopo la genericità di oi Anthroopoi. Matteo obbedisce ad un già stabilito ordine di lettura, secondo la disposizione in successione delle parti per l’ufficialità dell’oratio propria delle scuole ebraiche, inficiate da retorica, segue uno schema tipico della tradizione giudaica, ma procede raggruppando in nuclei la preghiera, pur divisa in due partes.
Le ragione di ordine tecnico-compositivo, unito alla artificialità del discorso motiva una lettura in senso orizzontale e in senso verticale per la specifica costruzione parallela propria della poesia ebraica.
Già Origene in I commentari della Sacra scrittura rileva che bisogna operare e in senso verticale (come lettura di eventi terreni visti e intesi come vicende celesti) e in senso orizzontale (come lettura delle realtà veterotestamentarie, quali simboli e figure neotestamentarie, a loro volta espressione figurale del Vangelo Eterno dell’Apocalisse) e in senso morale (Il testo adombra le vicende dell’anima contesa fra il bene e il male nel faticoso cammino verso la perfezione teleioosis e quelle della Chiesa Sposa di Christos ! cfr. Commento A Matteo, XIII, XIV, XV e specificamente De Principiis, IV,2,4.)
Panteno (130?-200), Clemente(150-215) ed Origene (185-264) sono didaskaloi christianoi, conoscitori della Bibbia e retori, creatori di un sistema esegetico, scaltriti da esercizi tecnici ed abili a propagare l’evangelion, philosophoi antignostici, ben connessi col neoplatonismo … Nessuno oggi conosce il potere del reale magistero, assoluto, del patriarcato di Alessandria nel II e III secolo sui Christianoi, sparsi nell’ecumene romano – meno di un quinto della popolazione pagana- , di gran lunga superiore a quello delle sedi ecclesiali di Antiochia, di Roma, di Gerusalemme
D’altra parte i libri sapienziali( specie Salmi e Proverbi) mostrano continuamente, in quanto poetici, la tecnica del parallelismo dei membri o delle frasi, che risulta elemento tipico della musar, quasi il ritmo cadenzato del pensiero ebraico!.
Le forme più comuni di parallelismo ricorrenti sono tre: sinonimico, antitetico e sintetico.
Il primo ha uno specifico valore di termine usato in prima istanza come lavoro o iperonimizzato o iponimizzato (rosa-fiore; fiore -rosa; Israele- casa di Giacobbe; Egitto-Barbari),in quanto l’uso dell‘iperonimo viene precisato o specificato con iponimo, mentre quello dell‘iponimo viene generalizzato con l’iperonimo.
Il secondo si basa sul contrasto in senso di antitesi o di ossimori a seconda se l’antinomia si fonda sull’opposizione di intere proposizioni o di termini.
Il terzo è un procedimento artificialis, non solo basato sulla ripetizione o sull’opposizione del secondo membro rispetto al primo, ma anche su un rapporto analogico, che in un certo senso conclude e completa il significato secondo una connessione causale o intuitiva, paragonabile al gioco analogico della nostra poesia decadente ed ermetica
-E’ il mio cuore/ il paese più straziato– risultanza di queste case /non è rimasto / che qualche ( brandello di muro/ Di tanti / che mi corrispondevano non è rimasto / neppure tanto/ma nel mio cuore / nessuna croce manca (Cfr. S., Martino in A Filipponi, Leggiamo insieme Ungaretti,2006 )-.
Ora il pater, pur non essendo poesia, secondo la struttura classica, basata sulla quantità della sillaba, lo è nel senso più vero della poesia contemporanea per il ritmo accentuativo e per l’allusività della parola, oltre che per l’artificialità di tutto il sistema matteano e della corrispondenza tra i cinque versetti dell’invocazione e i cinque della richiesta e alla triplice ricorrenza (anafora) di sou.
Inoltre la costruzione poetica, del pater matteano, essendo un sistema sintattico e semantico perfetto, obbedisce ad una semantizzazione relata ad una referenza non solo terminologica ma anche concettuale perché l’emittente evangelista traduce termini e costrutti da uno che parla e che pronuncia parole alludendo poeticamente e fantasticamente, mentre connette le parti in relazione al proprio uditorio con un vasto repertorio di segni corporei di accompagnamento.
La traduzione sulla base di una primitiva registrazione, emotiva originaria in altri contesti, viene ornata poeticamente in un tentativo successivo (alessandrino!?) di ricostruzione di quanto detto e pensato, connesso con il fatto, accaduto prima o dopo di quella pronuncia fonematica, al fine di una diffusione dei logia del Signore.
Ora, per di più, Matteo greco semantizza secondo schemi mentali propri della nuova fede, non ancora stabilizzatasi in canoni, in modo differente rispetto alla versione precedente aramaica della tradizione orale, seguita prima da Giacomo e poi dai suoi seguaci integralisti dell’ekklesia gerosolomitana, scomparsa nel 135 d.C.
Eppure ha procedure stereotipate, già radicate nel bacino del Mediterraneo, proprie di fedeli praticanti ellenizzati e romanizzati, che ricordano la lezione di un telonhs ed amartoolos, anche se giudeo-cristiani di formazione alessandrina: il pater di Matteo mostra la mano sottesa del didaskaleion, un già collaudato magistero!
I didaskaloi alessandrini rispettano la cultura originaria dell’evangelista, evidenziano perfino il procedere simmetrico e la sua forma poetica in senso lirico: il ritmo è costituito da una successione più o meno regolare di accenti che coincidono con l’accento tonico senza però una regola determinata seppure ogni verso (o gruppi di versi ) abbia un suo accento in una successione irrazionale, significativa solo per una scuola, dove predomina la retorica con la lettura allegorica.
Comunque, Matteo- o chi per lui – ha suddiviso il pater in invocazione e preghiera-richiesta, avendo strutturato la prima parte in tre rogationes, ritmate, in modo da stabilire la centralità di elthetoo H Basileia sou, facendo corrispondere ad ogni rogatio una parte pratica paradigmatica nelle tre richieste al Pater, che presentano tre diverse strutture, con altrettante forme specifiche.
Il pater matthaico è così strutturato:
1 invocazione; 2.3.4. Theoria a. del nome santificato, b. del regno, c. della volontà divina; 5 in cielo e terra
1′ richiesta –praxis in relazione a 2.3.4. come sapienza, come perdono, come vittoria.
Pater hmoon o en tois ouranois 1.
2. Agiasthhtoo to onoma sou,
3. Elthhtoo h basileia sou
4. Genhthhtoo to thelema sou
oos en ouranooikai epi ghs. 5.
Ton arton hmoon ton epiousion dos hmin shmeron 2′.
kai aphes hmin ta opheilhmata hmoon/ oos kai hmeis aphhkamen tois opheiletais hmoon 3′
kai mh eisenegkhs hmas eis peirasmon/ alla rusai hmas apo tou ponerou 4′.
Di conseguenza il Pater, letto secondo tale struttura e secondo un’impostazione che considera unitariamente theoria e pracsis ha un’organizzazione sistemica tale che ad ogni membro fa corrispondere un altro e ad ogni rogatio una precisa e concreta richiesta.
Il suo significato dipende dalla lettura unitaria delle due parti come theoria e pratica congiunta.
La cultura ebraica, infatti, si basa sulla tipologia del sapiente, di colui che sa confermare la sua parola col suo agire, la conoscenza della Scrittura con la vita quotidiana.
Il sapiente Giobbe è paradigma della vita e cultura giudaica in quanto conoscitore ed osservatore di fatti umani, filantropo, segnato dal dolore, ma ricercatore di felicità, pur tra infiniti dubbi ed anche se ossessionato da paura, sempre fiducioso e timoroso di Dio. il sapiente, esaltato nei meshalim/proverbi, celebrato nei tehellim canti o mizmor canto salmico- accompagnato da una specie di arpa- è figura di uomo ipotizzata da Matteo nel noi preganti la nuova preghiera /Tefillot.
La pratica di vita ebraica è impostata sul timore del nome di Dio e sul timore di Dio, espresso nella benedizione del nome santo come osservanza della legge e come lode degli attributi di Dio (potenza, bontà, misericordia), simboleggiata nella sua sapienza che si manifesta quotidianamente con interventi continui nella storia e in natura nel suo corso (creazione, governo delle cose terrene ed umane, giustizia).
Questo messaggio è inviato in modo unitario, secondo una coppia di rogazione e di concreta richiesta, dopo l’invocazione al padre nostro celeste, il cui potere è nel cielo e sulla terra.
La prima coppia è quella di agiasthhtoo to onoma sou / ton arton hmon ton epiousion dos hmin semeron.
Nell’esame della rogatio il termine agiasthetoo significa sia fatto santo,- cosa impossibile per una creatura specie nella valenza latina di Santificetur –quando invece vale sia benedetto in quanto santo (da agiazoo santifico, consacro,rendo agios).
La lezione è quella di Isaia (6.3 Santo santo santo è il dio degli eserciti : piena è la terra della sua gloria), che è guida per altri (Ap. 4.8 santo santo santo è il signore Dio l’onnipotente che era,che è, che viene) in quanto vuole lodare e glorificare il Nome/to onoma come il Salmista (Salmi 29.2 offrite ad JHWH la gloria del suo nome; ibidem 66.2 inneggiate alla gloria del suo nome, ed ancora in 75.2 noi ti lodiamo ed invocando il tuo nome narriamo le tue meraviglie; e 103.1 benedici, o anima mia, il suo santo nome; e135.1 lodate il nome di JHWH) e come Daniele (Dan.2.20 Benedetto sia il nome di Dio di eternità in eternità) ed altri.
Infine in agiazoo è la radice di Azomai (temo, venero), per cui si può ricavare l’idea inclusa di temere e venerare il nome di Dio perché glorificato dalla maestà stessa divina (Sl.115.1 non a noi, non a noi o JHWH, rendi gloria, ma al tuo nome)
In tale senso Giovanni (12,18) si esprime (padre glorifica il tuo nome) perché ritiene unica ed eterna la realtà alla fine dei tempi(Zac.14,18 in quel giorno ci sarà solo JHWH e solo il suo Nome).
Aggiungo che in agiasthhtoo to onoma sou è inclusa anche l’idea di partecipazione universale alla santificazione del nome, come trionfo del bene e del ritorno del Christos in quanto noi tutti siamo parte del Regno dei Cieli.
Ed allora, siccome il nome è il segno tangibile della potenza e della presenza di Dio in mezzo all’uomo, sulla terra, nel cielo e nei cieli, noi esseri umani, come figli che lodano, nell’armonia del concerto delle creature, dobbiamo esaltare la gloria di Dio.
Perciò, la benedizione del nome santo di Dio sottende anche la pratica di una ricerca di Dio, di una speculazione teologica come adesione totale della mente, del cuore e delle opere, che si traduce in adorazione ed amore di Dio e quindi del prossimo, in modo da entrare nella santità, condizione per ricevere la grazia della sua sapienza.
L’essere conformati ed integrati nel sistema della santità è giustizia, virtù che presiede al rapporto profondo tra opere , cuore e pensiero umano e legge divina, come avvio alla sapienza intesa come lode come timore di Dio ( Eccl. 1.16 principio della sapienza è temere Dio; 1.17 il timore del signore è religiosità del sapiente; 1.25 radice sella sapienza è temere il signore; 2.1 figliolo, se ti accingi a servire il signore sii saldo nella giustizia e nel timore; 19.20 ogni sapienza è timore del signore e in ogni sapienza c’è l’osservanza della legge).
Per conseguire la sapienza è necessario l’aiuto costante di Dio che assiste chi lo prega, assicurando il pane celeste quotidiano.
Artos deriva dalla radice ar, che dà origine a varie aree semantiche e, ai fini del nostro lavoro, a due: a quella di arariskoo /unisco , saldamente, mi accosto e preparo; a quella di araomai prego supplico, e vuol dire Cibo inteso come pane, focaccia o cosa preparata e cotta al fuoco che, con l’aggiunta di ton epiousion, assume un proprio valore, in relazione alla valenza significativa cotestuale di dos hmim seemeron/ dà a noi ogni giorno la focaccia che dura per il giorno seguente.
Infatti ton epiousion rimanda ad un altro significato , cioè alla manna cibo caduto dal cielo.
Matteo, greco, tiene presente la cultura giudaica e considera il cristianesimo naturale prosecuzione del giudaismo e perciò unisce le due tradizioni tanto da dare la possibilità ai cristiani alessandrini del II secolo di velare sotto il pane il significato del rito eucaristico e dare valenze simboliche al pane quale corpo di Cristo, che diventa cibo quotidiano per il fedele che fa parte della Chiesa /sposa di Cristo.
Matteo, quindi, fondendo la tradizione ebraica con la novità della preghiera in una sintesi di tefillot giudaica e proseuchh cristiana, evidenzia l’eredità sapienziale del suo popolo.
La soluzione successiva di Girolamo come dà significato latino di supersubstantialis a ton epiousion non è perciò suggestiva, ma è in sintonia con quanto aggiungono semanticamente i maestri alessandrini, i quali rilevano la necessità di nutrirsi del Christos quotidianamente per combattere contro il nemico e creare uno scudo per il cristiano nell’arco della vita di un giorno!.
Elthhtoo h basileia sou è un formula indicante certezza, attesa augurio con speranza da parte dell’orante, sempre fiducioso e sicuro che Dio realizzerà la sua vittoria sul Male e che attuerà definitivamente il Regno dei cieli: Matteo greco puntualizza la realizzazione in fase attuativa del regno messianico- quando già è stato abbandonato il pensiero del concreto Malkuth ha shemaim aramaico, a seguito della fine del sogno di Shimon bar Kokba, della morte di Rabbi Aqiva e della estirpazione giudaica dal Kosmos romano- mostrando Christos come divisione /diamerismon e i suoi fedeli sofferenti nel suo nome.
Elthhtoo /venga, aoristo imperativo 3 persona, vale come realizzazione storica già puntualmente avvenuta, che comporta comunque, uno stato continuato di stabilizzazione con una sottesa futura perfetta attuazione escatologica, dall’angolazione presenziale onnisciente divina: la parousia del Regno risulta una realizzazione presenziale in cui alla fase della divisione iniziale subentra quella del perdono cristiano, dell’impegno del fedele che, nuovo Christos, cerca di convertire il prossimo e di salvarlo con una evangelizzazione nuova rispetto a quella della musar aramaica antiromana.
Dalla lettura unitaria di 2 e 2′ sembra venire questo messaggio cristiano alessandrino, diffuso in tutto il Mediterraneo come un’altra visione della funzione del Christos e del Christianos che ha elaborato un’altra theoria della venuta del Signore!.
Connessa con l’implorazione è, infatti, la richiesta, quella del rimetti a noi i nostri debiti /come noi li rimettiamo ai nostri debitori, come una fase attuativa della rogatio formulativa.
Infatti Matteo, greco, usa il termine aphihmi con tre differenti valenze significative. a seconda della presenza di un diverso oggetto e del rilievo dato al complemento :1. aphes ta opheilhmata condona i debiti, connesso con aphhkamen tois opheiletais condoniamo i debiti, azione tipica del banchiere trapeziths alessandrino– si rilevi il doppio poliptoto!- ; 2. aphiemi ta paraptoomata perdono le cadute che sottende il problema dei lapsi nell’ecclesia; 3. aphihmi tas amartias rimetto i peccati, conforme alla evangelizzazione corrente nel II secolo.
Matteo nel complesso rinvia ad un medesimo valore quello del perdono che connota l’azione tipica del nuovo patto, basato sulla paternità di Dio che realizza il suo regno.
Sembra, dunque, che l’evangelista distingua il perdono da parte di Dio della colpa amartia umana come remissione dei peccati, dal perdono di Dio come condono dai debiti / opheilhmata (rare volte o opheilhths vale colpevole!) e dal perdono di Dio per le cadute paraptoomata e nello stesso tempo separa la sfera del perdono di Dio da quello degli uomini agli uomini.
D’altra parte Matteo greco nella Nascita di Gesù 1.21 dice : Gesù salverà il suo popolo dai suoi peccati/apo toon amartioon autoon e Giovanni sarà lo strumento dell’avvento dell’era messianica (h basileia toonouranoon) mediante l’invito alla metanoia (3.2) e alla confessione dei peccati (ecsomologeisthai tas amartias autoon,5.6). Insomma tutta la iniziale predicazione, che è sentita come una pressante esortazione alla conversione, non è pensabile come scritta da Matthaios aramaico, ma da un greco di epoca posteriore!.
Questo Matteo mostra continuamente ( non solo col Pater!) la parousia del Regno, evidenziata con miracoli, considerati unitariamente legati alla remissione dei peccati come affermazione dell’exousia divina 9.2,3,4,5,6.
Nel riportare la guarigione di un indemoniato sordo-muto e nel riferire il giudizio dei farisei che accusano il Christos di operare in nome di Belzebul, Matteo trascrive il pensiero di Gesù su un regno diviso in se stesso e contrappone la venuta del Regno dei Cieli, testimoniata dalla cacciata dei demoni in virtù dello Spirito santo (?!), sancita dalla necessità della scelta di una delle due fazioni, dalla novità del perdonare e dall’essere perdonati (uso di aphihmi al passivo,12.31-33).
Il Matteo greco-alessandrino sa precisare il perdono da parte di Dio nei confronti dell’uomo secondo i canoni dell’epoca giudaica tiberiana e il perdono reciproco tra gli uomini debitori nei confronti di un Basileus, confuso con un Maran.
Infatti ribadisce il perdono delle offese in 18.21-22 quando Pietro chiede quante volte debba perdonare (si noti aphhsoo!) il fratello che pecca contro di lui , ma evidenzia la sua lontananza dai tempi storici nella parabola del servo spietato (18.23).
Il regno dei cieli viene considerato simile ad un Basileus che vuole fare i conti (sunarai logon) coi suoi servi.
Secondo l’evangelista, il signore convoca, fatto il computo, un debitore eis opheilhths di 10.000 talenti- una cifra enorme cfr. Antipatro padre di Erode ed Erode basileus –
Il debitore, un privato, non ha il denaro da restituire (apodounai) e il Basileus comanda che sia venduto lui, la moglie e i figli ed ogni suo avere per essere ripagato (apodothhnai ). Il signore, sentite le preghiere del servo- cosa inverosimile!- gli condona il debito (to daneion aphhken autooi).
Per comprendere l’insensatezza -in epoca repubblicana romana poi augustea – di tale condono si pensi che uno Stato insolvente doveva subire la vendita del patrimonio regale, del capitale dei protoi con aggiunta di parte del tesoro sacerdotale templare e della khora! Secondo il Vangelo il debitore, appena uscito, trova un suo conservo che gli doveva ( oopheilen) cento denarii circa un milione di vecchie lire-500 euro, poco o niente rispetto ai 300.000.000 euro circa condonati-e senza accettare suppliche, lo fa gettare in prigione, finché non gli restituisce il debito (oos apodoo to opheilomenon).
Il basileus, sentito l’accaduto, chiama il servo, lo definisce malvagio (poneros), gli ricorda di aver condonato il debito totalmente (pasan thn opheilhn ekeinhn aphhka), lo rimprovera per non aver avuto pietà del suo simile e lo consegna agli aguzzini finché non restituisca quanto dovuto.
Questa sarebbe la conclusione di Gesù: outoos kai o pathr mou o ouranios poihsei umin ean mh aphhte ekastos tooi adelphooi autou apo toon kardioon umoon / anche il padre mio celeste farà a voi così, se non perdonerete (condonerete) ciascuno al proprio fratello nei vostri cuori!.
Non sembra possibile un tale condono nel Matteo aramaico che certamente non avrebbe mai scritto nel corso della cena pasquale, dopo il convito della nuova alleanza di sangue versato per molti / To aima to peri polloon ekkhunnomenon in remissione dei peccati eis aphesin amartioon!.
Eppure anche nel Pater Matteo greco usa l’espressione aphes ta opheilhmata col significato specifico di condonare i debiti ad opera di un creditore (o danisths),che però, essendo anche un Basileus maran e giudice kriths che, nel condonare il debito, rimette anche tas amartias, avendone potere, e perdona ta paraptoomata le cadute nel male, proprie dell’umanità, che, però, è redenta dal sangue divino e perciò, può essere continuamente purificata, grazie all’arton, concesso quotidianamente! Mah!
Siamo in un’altra epoca, in altra situazione, in un’altra condizione storica!?
Inoltre Matteo, greco, sottende ad aphes ta opheilhmata tutta l’impostazione positiva, nuova del messaggio di amore cristiano, che è la base per il perdono secondo le norme della Basileia tou Theou che risulta tratto distintivo del nuovo patto tra pater e figli -come se conoscesse la parabola lucana del figliol prodigo!- che devono secondo l’esempio del Padre – che ha dato il proprio figlio per la redenzione umana-sentirsi fratelli uniti da un reciproco patto di rispetto e di solidarietà.
La proposizione modale comparativa dichiarativa come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori rimanda alla conclusione della parabola del servo spietato, che diventa positiva formulazione in quanto il padre, condonando ciascuno i propri debitori, perdonerà i nostri debiti-peccati facendosi partecipi del Regno, avendo noi favorito l’attuazione della Basileia sulla terra.
Matteo già in 5.14 aveva mostrato la peculiarità dell’amore cristiano e la novità, rispetto alla legge mosaica, della venuta del Christos come compimento e non abolizione della legge ebraica: l’amore per i nemici e la preghiera per i persecutori sono i cardini del nuovo regno oltre all’invito ad essere perfetti, come è perfetto il padre nostro celeste.
In conclusione, la lettura di Elthetoo h basileia sou … aphes hmin ta opheilhmata hmoon / oos kai hmeis aphhkamen toi opheiletais hmoon come un’unica unità semantica è ricca di possibilità interpretative oltre che di giochi retorici e letterari, ed autorizza rapporti profondi testuali sulla base dell’avvento della basileia e del perdono, in una sottensione dell‘amore come pratica di vita, tipica del christianos.
L’ultima invocazione sia fatta la tua volontà/genethetoo to thelhma sou con le determinazioni di luogo (oos en ouranooikai epi ghs) è connessa con l’ultima richiesta pratica ed è costituita da un periodo composto, formato da due proposizioni principali, una negativa ed una positiva, disposte in modo contrastivo (non indurci in tentazione, ma liberaci dal male/ mh eisenegkhs hmas eis peirasmosn, allà rusai hmas apo tou ponerou).
E’ un messaggio unitario che rimanda ad una visione ancora più grande ed ampia, quella dell’intero pater, oltre che ad una cultura cristiana evangelica ormai diffusa, quella dell’opposizione alessandrina Dio Padre /Satana malvagio e regno dei cieli /regno dell’Ade, i due estremi della preghiera, Pater e Poneros (allitterazione).
Prima di leggere l’ultima unità semantica del Padre nostro matteano sembra necessario evidenziare la cosmogonia ebraica al fine di referenziare il senso del l’insieme, complicato dalla presenza dell’epiteto attributivo all’inizio del pater indicante la dimora di Dio nei cieli ( o en tois ouranois) e dell’ espansione complementare locale ( e in cielo e in terra oos en ouranooi kai epi ghs, situata alla fine dell’invocazione ) e dall’aoristo passivo indicante il farsi la volontà di Dio come chiusura dell’intera petizione in una visione unitaria cosmogonica.
Matteo aramaico e tutti gli uditori del Christos parlante, nel momento dell’ascolto del termine i cieli associano al significante Shamaim dando un preciso significato proprio della Musar aramaica, sulla base della referenza biblica e di certe conoscenze fisiche, a cui oppongono lo Sheol.
Infatti l’ebreo sa che Dio è nei cieli (Sl. 33,12-14 dai cieli scruta JHWH e vede tutti i figli dell’uomo, dalla sede della sua dimora osserva tutti gli abitanti del mondo; Sl. 104,2.3 tu distendi i cieli come un drappo, ed innalzi sulle acque la tua stanza; Amos.9.2-6 quando anche si aprissero un varco nello Sheol / di là le mie mani li strapperebbero / quand’anche salissero di là li farei discendere!…egli ha costruito nei cieli i gradini, ha fondato sulla terra la sua volta ) dove ha la su dimora posta sopra la volta del Cielo -rakija- la quale poggia sulla terra sulle sue alte montagne (Giobbe, 21,24).
Matteo greco traduce i cieli come il luogo della dimora di Dio secondo la tradizione aramaica, oltre la rakija/ firmamento, sopra la distesa del mare celeste costituito da acque dolci (Gen.1,7) da cui derivano le nuvole, i fulmini, la grandine su cui si innalza la cupola del Cielo dei cieli.
Col termine cielo/o ouranos intende il firmamento cioè la cupola distesa stabilmente come una volta frapposta tra le acque da cui deriva il termine greco stereooma/base.
Ogni ebreo nel sentire cielo dà il significato di lastra trasparente – in cui sono fissate le stelle viventi e su cui poggiano le acque superiori dolci da cui dipende il colore azzurro- , sotto la quale sono comprese che acque che scorrono sulla terra -mari, laghi, fiumi, ruscelli-.
Matteo aramaico, perciò, oppone al cielo firmamento la terra che è considerata piatta, posta in mezzo alle acque inferiori salate e sostenuta da colonne (Sl. 75,4 io ne ho saldato le colonne!).
Ai cieli invece oppone lo Sheol dimora dei morti, posto sotto la terra, visto normalmente come dimora dei cattivi (Sl 63,10, ma quelli che desiderano la rovina dell’anima mia sprofondino nelle voragini della terra; Giobbe 24,19 come l’aridità e il calore assorbono acqua di neve , così lo Sheol i peccatori ) e quindi polo negativo, come dimora di Satana rispetto a quello positivo di Dio.
Dunque la cosmogonia ebraica illumina la comprensione e della prima parte del Pater in cui Matteo mostra Dio padre e signore dei cieli e il farsi della sua volontà in cielo e in terra, e della seconda parte in cui l’evangelista evidenzia l’opposizione eterna tra Dio, principio di bene, signore dei cieli e Satana, principio del Male e signore dell’Ade Sheol, tentatore dell’uomo, creatura in bilico tra le due grandi forze primigenie.
Matteo predicando il regno dei cieli con le due sequenze unite, manda un messaggio di fiducia nella volontà di Dio, attuatasi già con la buona novella, non ancora diffusa nell’ecumene e contemporaneamente esprime la paura del Malvagio, nonostante la coscienza che le porte dell’Ade (pulai Adou) non prevarranno (ibidem, 16,18) e che sicura sarà la vittoria di Dio.
L’evangelista, greco, infatti, nel Discorso Escatologico (24.1 e sgg.) dove mostra i segni indicati da Christos per riconoscere la fine -molti verranno col mio nome 24.4; sarete odiati a motivo del mio nome 24.9;la buona novella del Regno sarà annunciata a tutto il mondo 24.14- La presenza del Messia attestata qua e là e il suo ritorno trionfale (24.30) sembra risentire dell’editto di Traiano e perfino di quello di Adriano.
Matteo esalta la vittoria del Christos, il cui inizio è la basileia attuatasi con il farsi della volontà del Padre.
Infatti per lui fare la volontà del padre è andare a lavorare nella vigna (Isaia,5.1 ) in cui il padrone ha comandato di andare: la vigna, però, essendo inizialmente affidata agli ebrei,che hanno ucciso il figlio, è passata ad altri agricoltori (Mt. 21-31 e sgg.)- Cfr. Origene, Commento a Matteo, cit.
Matteo aramaico mai avrebbe trascritto ciò!
Il passaggio da una basileia aramaico-ebraica ad una ecumenica alessandrina avviene in relazione all’uccisione del figlio che, col suo sangue, redime l’uomo e rende partecipe del regno tutti, indistintamente: un altro segno del messaggio greco matteano!
Infatti il lavorare nella vigna è considerato come un avviare alla giustizia intesa come osservanza della volontà del Padre che rende l’uomo giusto: è il caso del figlio che, comandato di andare a lavorare nella vigna, risponde di non aver voglia, ma poi, pentitosi, fa la volontà del padre (21,28-29).
La stessa divisione degli uomini in buoni e cattivi, eletti e non eletti, in relazione al fare la volontà divina (13,47-50, Parabola della rete) è tipica di Clemente alessandrino come anche quella di figli del Regno ( oi uoi ths basileias 12,36) e figli del Malvagio ( oi uoi tou ponerou 12.36).
Infine l’evangelista esprime la definitiva vittoria di Dio con l’attuazione del Regno nel giudizio universale, nella separazione dei buoni e dei cattivi, nella collocazione degli uni nella Gloria e degli altri nel fuoco della Geenna.
Perciò la preghiera del pater risulta ringraziamento del figlio che benedice il sacro nome, che osserva la volontà, cosciente del regno divino e della legge, nonostante la paura del Malvagio, che in tentazione, può avere possibilità di vittoria., se all’uomo manca l’assistenza del Padre.
Si può dire, quindi, che Matteo aramaico e quello greco dicano la stessa cosa circa la richiesta unitaria, posta negativamente come mh eisenegkhs (da eispheroo porto in mezzo, introduco, faccio soccombere), ma corretta da allà rusai, cioè non di farci entrare nel vivo della tentazione, data la debolezza umana e piuttosto di liberarci, stando al nostro fianco, dalla circuizione del Maligno.
Nel primo è chiara la sorte di Giobbe, provato da Dio che lo ha portato all’estrema abiezione, prima di intervenire e ripristinare il primitivo stato di eudaimonia; nel secondo – che è su un piano di metafora spirituale, pneumatico, tipico della perfezione/teleioosis – il sistema retorico contrastivo evidenzia come il fedele, pur nella prova, avendo l’assistenza divina non soccombe, ma è liberato dalle fauci del Maligno: gli alessandrini nel loro sistema etico fanno atto di umiltà perché marcano la fragilità umana, chiedendo l’aiuto di Dio, che è scudo e segno di Vittoria.
In definitiva la richiesta di non farci cadere nelle mani del Diavolo risulta invito a Dio ad attuare il Suo Regno, a realizzare la sua volontà così da rendere parente l’uomo, quale fratello del Christos, figlio ( Mt. 12.50).
L’insieme significativo, negli intenti della propaganda cristiana alessandrina, pur nella forma iniziale negativa, cela un messaggio positivo in quanto sottende la necessarietà del peirasmos per l’acquisizione del merito individuale, come prova saggiata dell’elezione divina del christianos pneumaticos,- rispetto ad ilici e psichici destinati alla dannazione- e come presenza di Dio, padre e poihths facitore della Storia.
Il Matteo greco vede l’instaurazione della Basileia tou Theou come attuazione della volontà del padre, come ultimo atto di un percorso iniziato col superamento dell’etica ebraica, accettata nella sua essenza: Mt 7.12 Quanto, dunque, desiderate che gli uomini facciano, fatelo anche voi stessi. Questa è infatti la legge e i profeti/ panta oun osa ean thelhte ina poiioosin hmin oi anthroopoi , outos umeis poieite autois: outos estin o nomos kai oi prophetai.
Strano è, comunque, quel kai oi prophetai anche se è sottinteso il soggetto outoi ! E’ solo un rispetto alla tradizione ebraica, da parte della gerarchia clericale alessandrina, già potente, rispetto ai vilipesi giudei!
Dunque, Matteo greco compendia in Regola d’oro quanto insegnato dal Vecchio testamento considerato, comunque, inferiore alla legge esposta da Christos (cfr. Gio.15,12 s), come prova ulteriore della lettura matthaica del Didaskaleion!
In pratica per Matthaios Il Christos, che chiede al Padre la liberazione dal maligno evidenzia l’umano timore di essere dominato dalla potenza del Peirazoon, la cui manifestazione come Satana (Belzebul, Mammona) antagonista di Dio, continua nei vangeli, è considerata oppositiva alla evangelizzazione.
D’altra parte la stessa intenzione di opporre Regno dei Cieli e Regno dell’Ade ( da a-id = non visibile quindi sotto terra, come termine equivalente a Sheol,) tende a manifestare il contrasto tra il padre celeste e il poneros ed è segno di una mentalità diale radicata nell’animo ebraico, come dimostrazione della sottesa cultura babilonese ed iranica.
Di questa cultura è quel vangelo aramaico di Matteo, portato in India da Bartolomeo, di cui viene trovata una copia da Panteno ( Eusebio, Hist, Eccl. V 12.3), che lo porta ad Alessandria : non si sa poi (Eusebio, Hist. eccl. III, 24.5-6 Epifanio, Panarion, 29.9,4 Girolamo De viris illust., 3) come scompaia.
L’uso greco di o en tois ouranois è già in Neemia (1,5;2,4 ed altrove) dove c’è la concezione di Dio clemente e misericordioso ed anche in Tobia (13,4) che parla di padre nostro in aramaico e che tratta della benedizione del nome santo di Dio (12,14; 8,5; 3,11) e specificamente in Giobbe, dove è palese l’impostazione contrastiva tra le forze del bene e quelle del male , di Dio e del suo avversario (Haura Mazda ed Ariman).
Anche la presenza contemporanea di Peirasmon (da peirazoo tento, sperimento da peira prova da cui experior e periculum) e di ponhros (da poneoomi mi affatico da ponon lavoro collegato a penomai mi stanco per il lavoro) se permette, da una parte, un parallelismo sinonimico di grande rilievo significativo ai fini della comprensione generale della sequenza, da un’altra, però , è segno della persistenza culturale aramaica.
Infatti o ponhros indica una figura di uomo deformato dalla fatica in senso fisico, condizionato da penia in senso morale, perciò, abbrutita, malvagia, incline al male perciò cristianamente, che diventa diavolo (da diaballoo, calunnio) perché antagonista di Dio, che è entità luminosa in quanto della stessa radice da una parte di kuros-sole e da un’altra di diu da cui Zeus-lucente .
La preghiera, quindi, vale come richiesta da parte del figlio al Padre di non darlo nelle mani del Peirazoon come prigioniero e di liberarlo: l’implorazione, connessa con la petizione, acquista una valenza definitiva di trionfo del bene sul male, di vittoria dell’oikonomia divina sulla terra, come espressione finale del ritorno del Christos.
Matteo con l’ultima richiesta sottende il problema della teodicea (h tou Theou dikh) della presenza del male nella storia e in natura, del dolore umano di creatura, della retribuzione divina, del superamento stesso del male in termini giobbiani da una parte secondo un’ ottica semplicistica popolare, e da un’altra della visione escatologica della fine della lotta e dell’instaurarsi della volontà del Padre universale col ritorno del Christos.
Infatti l’attuazione della basileia con il farsi della volontà divina implica che la giustizia di Dio debba seguire il dikaios, preservato come figlio dalla furia della tentazione e del tentatore, assistito nel combattimento con i mezzi necessari per la vittoria.
La fede in Dio, per il Matteo greco, è giobbiana fiducia, pur nella coscienza della pericolosa presenza del male e della conflittualità esistente nell’essenza stessa maligna della vita umana e terrena, ma è anche speranza del cristiano che crede nella potenza e sapienza divina, che riconosce i limiti della condizione umana e teme Dio e, perciò, sa cercare un senso ai pur misteriosi disegni divini.
Questa visione sottende l’ imminente parousia del Signore!
Comunque, il cristiano ha certezza che chi confida in Dio anche nella prova vince, perché sa che Dio è potente e paterno e che il suo aiuto è proporzionato al pericolo, conforme alla preghiera e al rapporto di figliolanza.
In conclusione il Padre matteano, greco, è messaggio di sapienza, tipica di Kohelet e del Siracide, di perdono e di vittoria in un’unica esaltazione del Padre, il cui nome è benedetto, il cui regno è presente, la cui volontà è manifesta in cielo e in terra.
La preghiera del figlio è celebrazione del Padre perché acceleri i tempi della vittoria sul nemico ed instauri il suo regno.
La celebrazione del Nome, la venuta del Regno, il dominio della Volontà sono indizio della fine della lotta tra il principio del bene e quello del male e sono segno del ritorno del Christos, del suo trionfo, del compimento del tempo terreno e dell’inizio dell’Eternità.