Traduzione e messaggio del “Padre nostro” di Matteo

In Memoria di mio padre Vincenzo e di mia madre Alessandrina Pizi

Nel tradurre, cioè nel trasferire dal codice greco ellenistico ( in cui è codificato il pater matteano,  in epoca flavia, in data imprecisata   dopo un lungo periodo di oralità aramaica e greca) a quello italiano  i significanti, ordinati  secondo fonologia e grammatica  e sintassi, in una visione sincrona  parallela delle due strutture  linguistiche, si è costretti  a tenere presente  l’esigenza di traslatare – il termine è usato prima di tradurre  fino al Quattrocento!-  cioè di fare una traslazione locutoria  -metaphrasis– con tutta l’area semantica e referenziale sottesa.

E’, quindi,  un’operazione complessa e difficile, che personalmente ho fatto nel 1992, convinto che non è possibile una lettura di soli segni, di cui non è sicura la traditio testuale.

Il testo matteano  del Pater sembra essere  più  una copia alessandrina di epoca antonina, che  quella originaria greca di epoca flavia.

Abbiamo un testo unico con due concezioni  christiane, una antiochena e una alessandrina .

La complessità  e la difficoltà  di lettura  sono  nell’uso del termine  strutturale – come grafema, sintagma, struttura,  enunciato, polisemico, perciò polivalente  a seconda di come  e di quando è detto, scritto, copiato – del  sistema contenitore evangelico, dei fruitori committenti, degli utenti riceventi,  in relazione alle ubicazioni, nell’ambito dell’ Impero romano, del telos  prefissato dallo scrittore, dalla causalità e  dalla coerenza linguistica-di norma equivoca,  per natura, a meno che non ci sia una convenzionalità  scientifica-.

L’equivoco del PATER è  nell’uso rituale del testo  nelle diverse sedi di recitazione: la preghiera in Asia nel I secolo  ha un suo significato; in Egitto nel II secolo ne ha un altro.!

Per uno che opera distinguendo due fasi storiche (quella del  Malkut ha shemaim ( Basileia toon ouranoon)  e quella della Basileia tou Theou, la lettura del Padre nostro  diventa un’impresa impossibile, ingarbugliata, pazzesca, specie perché il testo greco in nostro possesso  è quello origeniano, cioè del didaskaleion alessandrino, di una scuola che ha dovuto rifondare il cristianesimo, dopo il lungo oscuramento  di Paolo e dopo la fine della Chiesa di Gerusalemme aramaica, dando contenuti nuovi…

La traduzione greca del Testo  Pater hmoon kata Matthaion, come preghiera dettata dal Christos e registrata da un tachigrafo, bilingue (aramaico e greco) in ambiente giudaico in epoca messianica  tra il  (32 e 36 d.c.) nel corso  dell’impresa militare di Lucio Vitellio, che ripristina il kosmos,  l’ordinato sistema statale romano  in Siria, turbato da Artabano III, re dei re di Parthia, è tutta da  studiare  e da verificare  sulla base dell’autentico testo aramaico tramandato…

Esiste un testo aramaico di Matteo?

Esisteva forse, se è vera la tradizione di Eusebio che parla di Panteno,(L’ape sicula), di un suo esilio-missione da Alessandria, di un suo soggiorno in India e del ritrovamento di un Vangelo matteano, portato da Bartolomeo apostolo!…

Dovendosi ricostruire il testo aramaico, la traduzione  cristiana   greca è  fedele trascrizione di ogni lemma  in modo da lasciare integro il significato?

E’ fedele, nonostante le oscillazioni di valore semantico a seconda delle situazioni  di lettura e degli ambienti stessi in cui si legge?.

Diversa è la lettura , litteralis di Antiochia da quella,allegorica, di Alessandria e da quella originale di Gerusalemme ( divenuta ora Elia Capitolina), specie nel quadro di indagini antonine sul nomen christianum (indagato in quanto ha una radice ebraica) nel corso di una persecuzione giudaica, tesa all’estirpazione del cancro ebraico sotto Adriano…

La traduzione  non può non essere  equivoca, impropria, unilaterale:  è il caso d Panteno e di Clemente, uomini del Didaskaleion di Alessandria ,  che vivono accanto a quello ebraico  e che si confrontano con la lecsis  dei Terapeuti  giudaici del Lago Maryut, avendo un proprio politeuma, un sistema gerarchico già ben collaudato e un popolo di credenti in Christos

Più tardi Girolamo, traduttore sanguigno, frettoloso e interpretante non può non essere equivoco! : in tre giorni arrabatta  una lezione del Cantico dei Cantici / Shir Shirim, dell’Ecclesiastico e  e dei Proverbi; ed ancora peggio, in un solo  giorno  con l’aiuto di un ebreo, esperto e perfetto conoscitore  di  lingua ebraica ed aramaica e di un tachigrafo, legge Tobia!

A mio parere non c’è possibilità di resa di un significato  senza  uno specifico processo referenziale, secondo un accertato lavoro di posizionamento.

Un lavoro è  di norma approssimativo e  probabilistico, tanto più sicuro per quanto alto è il grado di scientificità  e di competenza specialistica personale, provata  con paradigmi operativi.

Comunque, se la traduzione dal greco  della koinh al latino e all’Italiano è equivoca,  tanto più  equivoca è quella  derivata dall’aramaico  parlato a quello scritto e da questo al  greco ellenistico- specie alessandrino-, diverso a seconda delle regioni orientali.

In ogni ambiente asiatico ci sono influenze linguistiche locali che portano ad una mistione semantica  e a sincresi concettuali, pur nella fissata convenzionalità  del significante  lessicale e morfosintattico.

Il contributo della musar, cultura aramaico-ebraica, espressa in dabar,   alla paideia  espressa in logos  tipico della lingua comune, è settoriale ed irrilevante  sul piano del segno linguistico  e della valenza  stessa significativa.

La traduzione dei Settanta, seppure arricchita da Alessandro Poliistore, da Aristobulo e specificamente dal pensiero  platonico di Filone alessandrino e dalla tecnica prammatica storica di Giuseppe Flavio e poi dagli Evangelisti e dalla fioritura della letteratura cristiana, risulta esemplare  in quanto connessa con  l’apostolicità ecclesiale  e con l’ispirazione dell’ Agion Pneuma, ma non per questo ha  valore di autenticità.

Apostolocità non significa autenticità: noi fedeli cristiani così abbiamo voluto credere!

Ne consegue che la confluenza della cultura  aramaica, volgare,  è ancora meno significativa di quella ebraica e perciò nella codificazione scritta  la prevalenza è data al significante comune e meno a quello fonemico – se ben ricordato- aramaico, data la diversa risonanza linguistica  e l’impari rapporto tra le due lingue nel seno dell’impero romano,  in quanto la significatività comune  ha prepotere sulla originaria  forma e valenza significativa, per esigenze di  comunicazione generale, in un quadro di  koinoonia.

Inoltre gli evangelisti, uomini non certamente letterati,- anche se pubblicano  di professione come Matthaios  e medico come Luca-, non possono né sanno far prevalere la significatività aramaica, che è condizionata dalla  significatività ebraica del proprio sondergut, specifico della  propria cultura  e necessariamente dànno una genericità di senso, procedendo probabilmente come Girolamo che traduce senso da senso, più che parola da parola, arbitrariamente, anche per impaccio linguistico, data la scarsa conoscenza strutturale della koinh – è il caso specifico del levita Marco! -.

Ora la traduzione- lettura  proposta, è giustificata da motivi cotestuali  e da ragioni  tecnico-comparative proprie di Matthaios, erede della tradizione giudaica, connessa con la lingua aramaica.

L’ aver posto il Pater tra i paragrafi 6.5-8 e 6. 14-5 è segno di un disegno già evidenziato, di presentare  la preghiera cristiana nella sua  tipicità, riferita a quella ebraica e confrontata con quella pagana.

Infatti l’evangelista oppone il 6.5 -la preghiera dei farisei e  scribi, ipocriti- fatta in piedi nelle sinagoghe  o negli incroci, nelle piazze  in modo da essere visibili- a quella del cristiano ( 6.6) che, invece, entra nella sua camera,  chiude la porta e prega in segreto.

Di quale cristiano si parla?! e dove  e come vive un tale christianos?

Poi da una parte oppone al 6.6 della preghiera cristiana  il 6.7 della preghiera battologica – da battologeoo /ciarlo di cose inutili, in quanto faccio  tiritela – propria  dei pagani, che con la polilogia credono di essere esauditi  e dall’altra  mostra come il Theos  conosca  ciò di cui l’uomo ha bisogno, prima ancora di chiederlo e  perciò invita a non fare come gli idolatri.

L’ oun conclusivo è spia della volontà di Matthaios, che riproduce il discorso orale di Christos,  di  chiudere l’insieme  discorsivo sulla preghiera, confrontata con quella negativa  di ebrei e di pagani,  al fine di darne una nuova.

Ma di quale Matthaios si parla?

Non di quello antiocheno, flavio, ma di un Matthaios alessandrino, antonino! Esisteva un vangelo di Matteo con un pater in Alessandria?!…

Il Pater,  quindi, viene situato   e posizionato come novità, dopo avere evidenziato gli errori  dei sistemi di preghiera vigenti.

A conclusione del Pater,  Matthaios fa un’aggiunta prosthhkh con 6.14-15 sul perdono che serve di spiegazione al 6.12.

Con un periodo ipotetico di secondo tipo,( basato sulla protasi ean  gar aphhte tois anthroopois  ta paraptoomata  autoon/  se avrete rimesso agli uomini le loro cadute/colpe-in cui ha grande rilievo ta paraptoomata  (da parapiptooo cado, violo, erro,  devio dalla strada maestra )- aggiunto da Matthaios come alternativa a ta opheilhmata –e sull’apodosi al futuro aphhsei kai umin o pathr umoon o ouranios/anche a voi il padre vostro celeste  rimetterà), Matteo prima  si pone dall’angolazione  positiva del perdono umano  e  del perdono di Dio  e poi da quella negativa (ean de mh aphhte  tois anthroopois, oude  o pathr  umon aphhsei  ta paraptoomata  umoon/ se non avrete rimesso agli uomini le colpe neanche il padre vostro rimetterà le vostre) scende sul piano colloquiale  del voi, dopo la genericità di oi Anthroopoi. Matteo obbedisce  ad un già stabilito ordine di lettura, secondo la disposizione in successione delle parti per l’ufficialità dell’oratio    propria  delle scuole ebraiche,  inficiate da retorica, segue uno schema tipico della tradizione giudaica, ma procede raggruppando in nuclei  la preghiera, pur divisa in due partes.

Le ragione di ordine tecnico-compositivo, unito alla artificialità del discorso motiva una lettura in senso orizzontale  e  in senso verticale per la specifica costruzione parallela propria della poesia ebraica.

Già Origene in I commentari della Sacra scrittura rileva che bisogna operare e in senso verticale  (come  lettura di eventi terreni visti e   intesi  come vicende celesti) e in senso orizzontale (come lettura delle realtà veterotestamentarie, quali simboli e figure neotestamentarie,  a loro volta espressione figurale  del Vangelo Eterno dell’Apocalisse) e in senso morale (Il testo adombra le vicende  dell’anima  contesa  fra il bene e il male  nel faticoso cammino verso la perfezione teleioosis e quelle della Chiesa Sposa di Christos ! cfr. Commento A Matteo, XIII, XIV, XV e  specificamente De   Principiis, IV,2,4.)

Panteno (130?-200), Clemente(150-215) ed Origene (185-264) sono  didaskaloi  christianoi, conoscitori della Bibbia e retori, creatori di un sistema esegetico, scaltriti da esercizi  tecnici ed abili a propagare l’evangelion, philosophoi antignostici, ben connessi col neoplatonismoNessuno oggi conosce il potere del  reale magistero, assoluto, del patriarcato di Alessandria nel II e III secolo sui Christianoi, sparsi nell’ecumene romano – meno di un quinto della popolazione pagana- , di gran lunga superiore a quello  delle sedi ecclesiali  di  Antiochia,  di Roma, di Gerusalemme 

D’altra parte i libri sapienziali( specie  Salmi e Proverbi) mostrano  continuamente, in quanto poetici,   la tecnica del parallelismo dei membri o delle frasi, che risulta elemento tipico della musar, quasi il ritmo cadenzato del pensiero ebraico!.

Le forme più comuni di parallelismo ricorrenti sono tre: sinonimico, antitetico e sintetico. 

Il primo ha uno specifico valore  di termine usato in prima istanza come  lavoro  o iperonimizzato o iponimizzato (rosa-fiore; fiore -rosa; Israele- casa di Giacobbe; Egitto-Barbari),in quanto l’uso dell‘iperonimo viene precisato o specificato con iponimo, mentre quello dell‘iponimo  viene generalizzato con l’iperonimo.

Il secondo si basa sul contrasto in senso di antitesi o di ossimori a seconda se l’antinomia si fonda sull’opposizione  di intere proposizioni o di termini.

Il terzo è un procedimento artificialis, non  solo basato sulla ripetizione o  sull’opposizione del secondo membro  rispetto al  primo, ma  anche su un rapporto analogico, che in un certo senso conclude  e completa il significato secondo una connessione causale o intuitiva,  paragonabile al gioco analogico della nostra poesia  decadente ed ermetica

-E’ il mio cuore/ il paese più straziato– risultanza  di queste case /non è rimasto / che qualche ( brandello di muro/ Di tanti / che mi corrispondevano non è rimasto / neppure tanto/ma nel mio cuore / nessuna croce manca  (Cfr. S., Martino in  A Filipponi, Leggiamo insieme Ungaretti,2006 )-.

Ora il pater, pur non essendo poesia, secondo la struttura classica, basata sulla quantità della sillaba, lo è nel senso più vero  della poesia contemporanea per il ritmo accentuativo e per l’allusività della parola,  oltre che  per l’artificialità  di tutto il sistema matteano e della corrispondenza tra i cinque versetti dell’invocazione  e i cinque della richiesta e alla triplice ricorrenza (anafora) di sou.

Inoltre  la costruzione  poetica, del pater matteano, essendo un sistema sintattico e  semantico perfetto, obbedisce ad una semantizzazione  relata ad una referenza  non solo terminologica ma anche concettuale  perché l’emittente evangelista  traduce termini e costrutti da uno che parla  e che pronuncia parole alludendo poeticamente e fantasticamente,  mentre connette le parti  in relazione al proprio uditorio  con un vasto repertorio  di segni  corporei di accompagnamento.

La traduzione sulla base di una primitiva registrazione, emotiva  originaria in altri contesti,  viene ornata poeticamente  in un tentativo successivo (alessandrino!?) di ricostruzione di quanto detto  e pensato, connesso con il fatto, accaduto prima o dopo  di quella pronuncia fonematica, al fine di una diffusione dei logia del Signore.

Ora, per di più, Matteo  greco  semantizza  secondo schemi  mentali propri  della nuova fede, non ancora stabilizzatasi in canoni, in modo differente rispetto alla versione precedente aramaica della tradizione orale, seguita prima da  Giacomo e  poi dai suoi seguaci  integralisti dell’ekklesia gerosolomitana, scomparsa nel 135 d.C.

Eppure ha procedure stereotipate,  già radicate nel bacino del Mediterraneo,  proprie di fedeli  praticanti ellenizzati e romanizzati,  che ricordano la lezione di un telonhs ed amartoolos, anche se  giudeo-cristiani di formazione alessandrina: il pater di Matteo mostra la mano sottesa del didaskaleion, un già collaudato magistero!

I didaskaloi alessandrini  rispettano la cultura originaria dell’evangelista, evidenziano perfino il procedere simmetrico e la sua forma poetica  in senso lirico: il ritmo è costituito da una successione  più o meno regolare di accenti che coincidono con l’accento tonico senza però una regola determinata  seppure ogni verso (o gruppi di versi ) abbia un suo accento in una successione irrazionale, significativa solo per una scuola, dove predomina la retorica con la lettura allegorica.  

Comunque,  Matteo-  o chi per lui – ha suddiviso il pater in invocazione e preghiera-richiesta, avendo strutturato la prima parte in tre rogationes, ritmate, in modo da stabilire la centralità di elthetoo H Basileia sou, facendo corrispondere ad ogni rogatio una parte pratica paradigmatica nelle tre richieste al Pater,  che presentano tre diverse  strutture, con altrettante forme specifiche.

Il pater matthaico è  così strutturato

1 invocazione; 2.3.4.  Theoria a. del nome santificato, b. del regno, c. della volontà divina; 5 in cielo e terra

1′ richiesta –praxis  in relazione a 2.3.4. come sapienza, come perdono, come vittoria.

Pater hmoon o en tois ouranois   1.

2. Agiasthhtoo to onoma sou,

3. Elthhtoo h basileia sou

4. Genhthhtoo to thelema sou

 oos en ouranooikai epi ghs. 5.

Ton arton hmoon ton epiousion dos hmin shmeron 2′.

kai aphes hmin ta opheilhmata hmoon/ oos kai hmeis  aphhkamen tois opheiletais  hmoon 3′

 kai mh eisenegkhs hmas eis peirasmon/ alla rusai hmas  apo tou ponerou 4′.

Di conseguenza  il Pater, letto secondo tale struttura e secondo un’impostazione  che considera unitariamente theoria e pracsis  ha un’organizzazione  sistemica  tale che ad ogni membro  fa corrispondere un altro e  ad ogni rogatio una precisa  e concreta richiesta.

Il suo significato  dipende dalla lettura unitaria  delle due  parti come theoria e pratica  congiunta.

La cultura ebraica,  infatti, si basa  sulla tipologia del sapiente, di  colui che sa confermare la sua parola col suo agire,  la conoscenza della Scrittura con la vita quotidiana.

Il sapiente Giobbe è paradigma della vita  e cultura giudaica  in quanto conoscitore ed osservatore di fatti  umani, filantropo, segnato dal dolore, ma ricercatore di felicità, pur tra infiniti dubbi ed anche se ossessionato da paura, sempre fiducioso e timoroso di Dio.  il sapiente, esaltato nei meshalim/proverbi,  celebrato nei tehellim canti o mizmor canto salmico- accompagnato da una specie di arpa-     è figura di uomo ipotizzata da Matteo nel noi preganti la nuova preghiera /Tefillot.

La pratica di vita ebraica è impostata sul timore del nome  di Dio e sul  timore di Dio, espresso nella benedizione del nome santo come osservanza della legge e come  lode degli attributi di Dio (potenza, bontà, misericordia),  simboleggiata nella sua sapienza  che si manifesta quotidianamente  con interventi continui nella storia  e in natura  nel suo corso (creazione, governo delle cose terrene ed umane, giustizia).

Questo messaggio  è  inviato in modo unitario, secondo una coppia  di  rogazione  e di concreta richiesta, dopo l’invocazione al padre nostro celeste, il cui potere è nel cielo e sulla terra.

La prima coppia è quella di agiasthhtoo to onoma sou / ton arton hmon ton epiousion  dos hmin semeron.

Nell’esame della rogatio  il termine agiasthetoo  significa  sia fatto santo,- cosa impossibile per una creatura specie nella valenza latina di Santificetur –quando invece vale sia benedetto in quanto santo (da agiazoo santifico, consacro,rendo agios).

La lezione è quella di Isaia (6.3 Santo santo santo è il dio degli eserciti : piena è la terra della sua gloria), che è guida per altri  (Ap. 4.8  santo santo santo è il signore Dio  l’onnipotente che era,che è, che viene) in quanto vuole lodare e glorificare il Nome/to onoma  come il Salmista (Salmi  29.2 offrite ad JHWH la gloria del suo nome; ibidem 66.2 inneggiate alla gloria del suo nome, ed ancora in 75.2 noi ti lodiamo ed invocando il tuo nome  narriamo le tue meraviglie; e 103.1 benedici, o anima mia, il suo santo nome; e135.1 lodate il nome di JHWH) e come Daniele (Dan.2.20 Benedetto sia il nome di Dio di eternità in eternità) ed altri.

Infine in agiazoo è la radice di Azomai  (temo, venero), per cui si può ricavare l’idea inclusa di temere e venerare il nome di Dio  perché glorificato dalla maestà stessa divina (Sl.115.1 non a noi, non a noi o JHWH, rendi gloria, ma al tuo nome)

In tale senso  Giovanni (12,18) si esprime (padre glorifica il tuo nome) perché ritiene unica ed eterna la realtà alla fine dei tempi(Zac.14,18 in quel giorno ci sarà solo JHWH  e solo il suo Nome).

Aggiungo che in agiasthhtoo to onoma sou  è inclusa anche l’idea di  partecipazione universale  alla santificazione del nome, come trionfo del bene e del ritorno del Christos in quanto noi tutti  siamo parte del Regno dei Cieli.

Ed allora, siccome il nome è il segno tangibile della potenza  e della presenza di Dio in mezzo all’uomo, sulla terra,  nel cielo e nei cieli, noi esseri umani, come figli che lodano, nell’armonia del concerto delle creature,  dobbiamo esaltare  la gloria di Dio.

Perciò, la benedizione del nome santo di Dio  sottende anche la pratica di una ricerca di Dio, di una speculazione teologica  come adesione  totale della mente, del cuore e delle opere,  che si traduce in adorazione  ed amore di Dio e quindi del prossimo, in modo da entrare  nella santità, condizione per ricevere  la grazia  della sua sapienza.

L’essere conformati  ed integrati nel sistema  della santità  è giustizia, virtù che presiede al rapporto profondo  tra opere , cuore  e pensiero umano  e legge divina, come avvio alla sapienza intesa come lode  come timore di Dio ( Eccl. 1.16 principio della sapienza è temere Dio; 1.17  il timore  del signore è religiosità del sapiente; 1.25 radice  sella sapienza è  temere il signore; 2.1 figliolo, se ti accingi a servire il signore  sii saldo nella giustizia e nel timore;  19.20 ogni sapienza è timore del signore e in ogni sapienza c’è l’osservanza della legge).

Per conseguire la sapienza è necessario l’aiuto costante di Dio che assiste chi lo prega,  assicurando il pane celeste quotidiano.

Artos deriva dalla radice ar, che dà origine a varie aree semantiche  e, ai fini del nostro lavoro, a due: a quella di arariskoo /unisco , saldamente, mi accosto  e preparo; a quella di araomai  prego supplico, e vuol dire  Cibo inteso come pane, focaccia  o cosa preparata e cotta al fuoco  che, con l’aggiunta di ton epiousion, assume un proprio valore, in relazione  alla valenza significativa cotestuale di dos hmim seemeron/ dà a noi ogni giorno la focaccia  che dura per il giorno seguente.

Infatti  ton epiousion rimanda  ad un altro significato , cioè alla manna cibo caduto dal cielo

Matteo, greco, tiene presente la cultura giudaica  e considera il cristianesimo naturale  prosecuzione del giudaismo e perciò unisce le due tradizioni tanto da dare la possibilità ai cristiani alessandrini del II secolo  di velare sotto il pane il significato del rito eucaristico e dare valenze simboliche al pane quale corpo di Cristo, che diventa cibo quotidiano per il fedele che fa parte della Chiesa /sposa di Cristo.

Matteo, quindi, fondendo la tradizione ebraica con la novità della preghiera  in una sintesi  di tefillot giudaica  e proseuchh cristiana, evidenzia l’eredità sapienziale  del suo popolo.

La soluzione successiva di Girolamo come dà significato latino di supersubstantialis  a ton epiousion   non è perciò suggestiva, ma è  in sintonia con quanto aggiungono semanticamente  i maestri alessandrini, i quali rilevano la necessità  di nutrirsi del Christos quotidianamente per combattere contro il nemico e creare uno scudo per il cristiano nell’arco della vita di  un giorno!.

Elthhtoo h basileia sou  è un formula indicante certezza, attesa  augurio con speranza da parte dell’orante, sempre fiducioso e sicuro  che Dio realizzerà  la sua vittoria sul Male  e che attuerà definitivamente il Regno dei cieli: Matteo greco puntualizza  la realizzazione in fase attuativa del regno messianico- quando già è stato abbandonato il pensiero del concreto Malkuth ha  shemaim aramaico, a seguito della fine del sogno di Shimon bar Kokba, della morte di Rabbi Aqiva e  della  estirpazione giudaica dal Kosmos romano-  mostrando Christos come divisione /diamerismon  e  i suoi fedeli sofferenti nel suo nome.

Elthhtoo /venga, aoristo imperativo 3 persona, vale come realizzazione storica già  puntualmente avvenuta,  che comporta comunque,  uno stato continuato di  stabilizzazione con una sottesa  futura perfetta  attuazione escatologica, dall’angolazione presenziale onnisciente divina:  la parousia  del Regno  risulta una  realizzazione presenziale  in cui alla fase della divisione iniziale  subentra quella  del perdono cristiano, dell’impegno del fedele che, nuovo Christos,  cerca di convertire il prossimo e  di salvarlo con una evangelizzazione nuova rispetto a quella della musar aramaica  antiromana.

Dalla lettura unitaria di 2 e 2′ sembra  venire  questo messaggio cristiano alessandrino, diffuso in tutto il Mediterraneo come un’altra visione della funzione del Christos e del Christianos  che ha elaborato un’altra theoria della venuta del Signore!.

Connessa con l’implorazione è, infatti, la richiesta,  quella del rimetti a noi i nostri debiti /come noi li rimettiamo ai nostri debitori, come una fase attuativa della rogatio formulativa.

Infatti Matteo, greco, usa il termine aphihmi con tre differenti valenze significative. a seconda della presenza di un diverso oggetto  e del rilievo dato al complemento :1. aphes ta opheilhmata condona i debiti, connesso con  aphhkamen  tois opheiletais   condoniamo i debiti, azione tipica del banchiere  trapeziths alessandrino– si rilevi il doppio poliptoto!- ;  2. aphiemi ta paraptoomata  perdono  le cadute  che sottende il problema  dei lapsi  nell’ecclesia; 3. aphihmi tas amartias  rimetto  i peccati,  conforme alla evangelizzazione corrente nel II secolo.

Matteo nel complesso rinvia ad un medesimo valore  quello del perdono  che connota l’azione tipica del nuovo patto, basato sulla paternità  di Dio che realizza il suo regno.

Sembra, dunque, che l’evangelista distingua il perdono da parte di Dio della colpa  amartia umana come remissione dei peccati, dal perdono di Dio come condono dai debiti / opheilhmata (rare volte o opheilhths vale colpevole!)  e dal perdono di Dio per le cadute paraptoomata  e nello stesso tempo separa la sfera del perdono di Dio da quello degli uomini agli uomini.

D’altra parte Matteo greco  nella Nascita di Gesù  1.21 dice :  Gesù salverà il suo popolo dai suoi peccati/apo toon amartioon autoon  e Giovanni sarà lo strumento  dell’avvento dell’era messianica  (h basileia toonouranoon) mediante l’invito alla metanoia (3.2) e  alla confessione dei peccati (ecsomologeisthai tas amartias autoon,5.6).  Insomma tutta la iniziale predicazione, che è sentita  come una pressante  esortazione alla conversione, non è pensabile come scritta da Matthaios aramaico, ma da un greco di epoca posteriore!.

Questo Matteo  mostra continuamente ( non solo col Pater!) la parousia del Regno, evidenziata con miracoli, considerati unitariamente  legati alla remissione dei peccati come affermazione dell’exousia divina  9.2,3,4,5,6.

Nel riportare la guarigione di un indemoniato sordo-muto e nel riferire il giudizio dei farisei  che accusano il Christos  di operare in nome di Belzebul, Matteo trascrive il pensiero di Gesù su un regno diviso in se stesso e contrappone la venuta del Regno dei Cieli, testimoniata dalla cacciata  dei demoni  in virtù dello  Spirito santo (?!), sancita dalla necessità  della scelta di una delle due fazioni, dalla novità del perdonare  e dall’essere perdonati (uso di aphihmi al passivo,12.31-33).

Il Matteo greco-alessandrino  sa precisare il perdono  da parte di Dio nei confronti dell’uomo secondo i canoni dell’epoca giudaica tiberiana  e il perdono reciproco tra gli uomini debitori nei confronti di un Basileus, confuso con un Maran.

Infatti ribadisce il perdono delle offese  in 18.21-22 quando Pietro  chiede quante volte debba  perdonare (si noti  aphhsoo!) il fratello che pecca contro di lui , ma evidenzia  la sua lontananza dai tempi storici nella parabola del servo spietato (18.23).

Il regno dei cieli viene considerato simile ad un Basileus che vuole fare i conti (sunarai logon) coi suoi servi.

Secondo l’evangelista, il signore convoca, fatto il computo,   un debitore eis opheilhths di 10.000 talenti-  una cifra enorme cfr. Antipatro padre di Erode  ed Erode basileus

Il debitore, un privato, non ha  il denaro da restituire (apodounai) e il Basileus  comanda che sia venduto lui, la moglie e i figli  ed ogni suo avere per essere ripagato (apodothhnai ). Il signore, sentite  le preghiere del servo- cosa inverosimile!- gli condona il debito (to daneion aphhken  autooi).

Per comprendere l’insensatezza -in epoca repubblicana romana  poi augustea – di tale condono si pensi che uno Stato insolvente doveva subire la  vendita del patrimonio regale, del capitale dei protoi  con aggiunta di parte del tesoro  sacerdotale templare e  della khora! Secondo il Vangelo il debitore, appena uscito, trova un suo conservo che gli doveva ( oopheilen)  cento denarii circa un milione di vecchie lire-500 euro, poco o  niente rispetto ai 300.000.000 euro circa  condonati-e senza accettare suppliche,  lo fa gettare in prigione, finché non gli restituisce  il debito (oos apodoo to opheilomenon).

Il basileus, sentito l’accaduto, chiama il servo, lo definisce malvagio (poneros), gli ricorda di aver condonato il debito  totalmente (pasan thn opheilhn ekeinhn aphhka), lo rimprovera per non aver avuto pietà  del suo simile  e lo consegna agli aguzzini finché non restituisca  quanto dovuto.

Questa sarebbe la conclusione di Gesù: outoos kai o pathr mou o ouranios poihsei umin  ean mh aphhte  ekastos  tooi  adelphooi autou  apo toon kardioon umoon / anche il padre mio  celeste farà a voi così, se non perdonerete (condonerete) ciascuno al  proprio fratello nei vostri cuori!. 

Non sembra possibile un tale condono  nel Matteo aramaico che certamente non avrebbe mai scritto nel corso della cena pasquale,  dopo  il convito  della nuova alleanza di sangue versato per molti / To aima to peri polloon ekkhunnomenon in remissione  dei peccati eis aphesin  amartioon!.

Eppure anche nel Pater  Matteo greco  usa l’espressione  aphes ta opheilhmata  col significato specifico di condonare  i debiti ad opera  di un creditore (o danisths),che però,  essendo anche un Basileus maran  e giudice kriths  che, nel condonare il debito,  rimette  anche tas amartias, avendone potere,  e perdona ta paraptoomata  le cadute nel male, proprie dell’umanità,  che, però, è redenta  dal sangue divino  e perciò, può essere continuamente purificata, grazie all’arton, concesso quotidianamente! Mah!

Siamo in un’altra epoca, in altra situazione,  in un’altra condizione storica!?

Inoltre Matteo,  greco, sottende  ad aphes ta opheilhmata tutta l’impostazione positiva, nuova  del messaggio di amore  cristiano, che è la base  per il perdono secondo le norme della Basileia tou Theou  che risulta tratto distintivo del nuovo patto  tra pater e figli -come se conoscesse la parabola lucana del figliol prodigo!-  che devono secondo l’esempio  del Padre – che ha dato il proprio figlio per la redenzione  umana-sentirsi fratelli uniti da un reciproco patto di rispetto e di solidarietà.

La proposizione modale comparativa dichiarativa come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori  rimanda alla conclusione della parabola del  servo spietato, che diventa positiva formulazione  in quanto il padre, condonando ciascuno  i propri debitori, perdonerà i nostri debiti-peccati  facendosi partecipi del Regno, avendo noi favorito l’attuazione della Basileia  sulla terra.

Matteo già in 5.14 aveva mostrato la peculiarità  dell’amore cristiano e la novità,  rispetto alla legge  mosaica, della venuta del Christos  come compimento e non abolizione della legge ebraica: l’amore per i nemici e la preghiera per i persecutori sono i cardini del nuovo regno oltre all’invito ad essere perfetti,  come è perfetto il padre nostro celeste.

In conclusione, la lettura  di Elthetoo h basileia sou … aphes hmin ta opheilhmata hmoon / oos kai hmeis  aphhkamen toi opheiletais  hmoon come un’unica unità semantica  è ricca di possibilità interpretative oltre che di giochi retorici e letterari, ed autorizza  rapporti profondi testuali  sulla base dell’avvento della basileia e del perdono, in una sottensione dell‘amore come pratica  di vita, tipica del christianos.

L’ultima invocazione sia fatta la tua volontà/genethetoo to  thelhma sou con le determinazioni di luogo (oos en ouranooikai epi ghs) è connessa con l’ultima richiesta  pratica ed è costituita  da un periodo composto, formato da due proposizioni principali, una negativa ed una positiva, disposte in modo contrastivo (non indurci in tentazione, ma liberaci dal male/ mh eisenegkhs hmas eis peirasmosn, allà rusai hmas apo tou ponerou).

E’ un messaggio unitario che rimanda ad una visione ancora più grande  ed ampia, quella dell’intero pater, oltre che ad una cultura  cristiana evangelica ormai diffusa, quella dell’opposizione alessandrina  Dio Padre /Satana malvagio e  regno dei cieli /regno dell’Ade, i due estremi della preghiera, Pater e Poneros (allitterazione).

Prima di leggere l’ultima unità semantica del Padre nostro  matteano  sembra necessario evidenziare  la cosmogonia ebraica al fine di referenziare il senso del l’insieme, complicato dalla presenza dell’epiteto  attributivo all’inizio del pater indicante la dimora  di Dio  nei cieli ( o en tois ouranois) e dell’ espansione  complementare locale ( e in cielo e in terra  oos en ouranooi kai epi ghs, situata alla fine dell’invocazione )  e dall’aoristo passivo  indicante il farsi la volontà di Dio  come chiusura dell’intera petizione in una visione unitaria cosmogonica.

Matteo aramaico e tutti gli uditori del Christos  parlante, nel momento  dell’ascolto del termine i cieli associano  al significante Shamaim  dando un preciso significato proprio della Musar aramaica, sulla base della referenza biblica e di certe conoscenze fisiche, a cui oppongono lo Sheol.

Infatti  l’ebreo sa che Dio è nei cieli  (Sl. 33,12-14 dai cieli scruta JHWH e vede tutti i figli dell’uomo, dalla sede della sua dimora osserva tutti gli abitanti del mondo; Sl. 104,2.3  tu distendi i cieli come un drappo, ed innalzi sulle acque la tua stanza; Amos.9.2-6 quando anche si aprissero un varco nello Sheol / di là le mie mani li strapperebbero / quand’anche salissero  di là li farei discendere!…egli ha costruito nei cieli i gradini, ha fondato sulla terra la sua volta ) dove ha la su dimora  posta sopra la volta del Cielo -rakija- la quale poggia sulla terra sulle sue alte montagne (Giobbe, 21,24).

Matteo greco traduce i cieli  come il luogo della dimora di Dio secondo la tradizione aramaica, oltre la rakija/ firmamento, sopra la distesa del mare celeste  costituito da acque  dolci (Gen.1,7) da cui derivano le nuvole,  i fulmini, la grandine  su cui si innalza la cupola del Cielo dei cieli. 

Col termine cielo/o ouranos intende il firmamento  cioè la cupola distesa stabilmente  come una volta frapposta  tra le acque  da cui deriva il termine greco stereooma/base.

Ogni ebreo nel sentire cielo dà il significato  di lastra trasparente – in cui sono fissate  le stelle viventi e su cui poggiano le acque superiori dolci da cui  dipende il colore azzurro- , sotto la quale sono comprese  che acque che scorrono sulla terra -mari, laghi, fiumi, ruscelli-.

Matteo aramaico, perciò, oppone al cielo firmamento  la terra  che è considerata piatta, posta in mezzo alle acque inferiori  salate e sostenuta  da colonne (Sl. 75,4 io ne ho saldato le colonne!).

Ai cieli invece oppone lo Sheol  dimora dei morti, posto sotto la terra,  visto normalmente come dimora dei cattivi (Sl 63,10, ma quelli che desiderano la rovina dell’anima mia  sprofondino  nelle voragini della terra; Giobbe  24,19 come l’aridità e il calore assorbono  acqua di neve , così lo Sheol  i peccatori ) e quindi polo negativo, come dimora di Satana rispetto a quello positivo di Dio.

Dunque la cosmogonia ebraica  illumina  la comprensione  e della prima parte del Pater in cui Matteo mostra Dio padre e  signore dei cieli e il farsi  della sua volontà  in cielo e in terra,  e della seconda parte  in cui  l’evangelista evidenzia  l’opposizione eterna  tra Dio,   principio di bene, signore dei cieli e Satana, principio del Male e signore dell’Ade Sheol, tentatore dell’uomo,  creatura in bilico  tra le due grandi  forze primigenie.

Matteo predicando il regno dei cieli con le due sequenze unite,  manda un messaggio di fiducia  nella volontà di Dio, attuatasi già  con la buona novella, non ancora diffusa nell’ecumene   e contemporaneamente esprime la paura del Malvagio, nonostante la coscienza  che le  porte dell’Ade  (pulai Adou) non prevarranno (ibidem, 16,18) e che sicura sarà la vittoria di Dio.

L’evangelista, greco,  infatti, nel Discorso Escatologico  (24.1 e sgg.) dove mostra i segni indicati da Christos per riconoscere la fine -molti verranno col mio nome 24.4;  sarete odiati a  motivo del mio nome 24.9;la buona novella del Regno sarà annunciata a tutto il mondo  24.14- La presenza del Messia attestata qua e là e il suo ritorno trionfale (24.30) sembra risentire dell’editto di Traiano e perfino di quello di Adriano.

Matteo esalta la vittoria del Christos,  il cui inizio  è la basileia  attuatasi con il farsi della volontà del Padre.

Infatti per lui fare la volontà del padre  è andare a lavorare nella vigna (Isaia,5.1 ) in cui il padrone  ha comandato di andare: la vigna,  però, essendo inizialmente affidata agli ebrei,che hanno ucciso il figlio, è passata ad altri agricoltori (Mt. 21-31 e sgg.)- Cfr. Origene, Commento a Matteo, cit.

Matteo aramaico mai avrebbe trascritto ciò!

Il passaggio da una basileia  aramaico-ebraica ad una ecumenica alessandrina  avviene in relazione  all’uccisione del figlio che, col suo sangue, redime l’uomo e rende partecipe del regno tutti, indistintamente: un altro segno del messaggio greco matteano!

Infatti il lavorare  nella vigna  è considerato come un avviare alla giustizia  intesa come osservanza della volontà del Padre  che rende l’uomo giusto: è il caso del figlio che, comandato di  andare a lavorare nella vigna, risponde di non aver voglia, ma poi, pentitosi,  fa la volontà del padre (21,28-29).

La stessa divisione degli uomini in buoni e cattivi, eletti e non eletti,  in  relazione al fare la volontà divina (13,47-50, Parabola della rete) è tipica di Clemente alessandrino come anche quella di figli del Regno  ( oi uoi ths basileias 12,36) e figli del Malvagio ( oi uoi tou ponerou 12.36).

Infine  l’evangelista esprime  la definitiva vittoria  di Dio con l’attuazione  del Regno nel giudizio universale, nella separazione dei buoni  e dei cattivi, nella collocazione degli uni nella Gloria e degli altri nel fuoco della Geenna.

Perciò la preghiera del pater risulta ringraziamento  del figlio   che benedice il  sacro nome,  che osserva la volontà,  cosciente del regno divino  e della legge, nonostante la paura del Malvagio, che in tentazione,  può avere possibilità di vittoria.,  se all’uomo manca  l’assistenza del Padre.

Si può dire, quindi, che Matteo aramaico e quello greco dicano la stessa cosa circa la richiesta unitaria,  posta negativamente come mh eisenegkhs (da eispheroo porto in mezzo, introduco,  faccio soccombere), ma corretta  da allà rusai, cioè non di farci entrare nel vivo della tentazione, data la debolezza umana e piuttosto di liberarci, stando al nostro fianco, dalla circuizione del Maligno.

Nel primo è chiara la sorte di Giobbe, provato da Dio  che lo ha portato all’estrema abiezione, prima di intervenire e ripristinare il primitivo stato di eudaimonia; nel secondo – che è su un piano di metafora spirituale, pneumatico, tipico della perfezione/teleioosisil sistema retorico  contrastivo evidenzia come il fedele,  pur nella prova, avendo l’assistenza divina non soccombe, ma è liberato dalle fauci del Maligno: gli  alessandrini nel loro sistema etico  fanno atto di umiltà perché  marcano la fragilità umana,  chiedendo l’aiuto di Dio, che è scudo e  segno di Vittoria.

In definitiva la richiesta di non farci cadere nelle mani del Diavolo  risulta invito a Dio ad attuare il Suo Regno, a realizzare la sua volontà così da rendere parente l’uomo, quale fratello del Christos, figlio ( Mt. 12.50).

L’insieme significativo, negli intenti della propaganda  cristiana alessandrina, pur nella forma iniziale negativa, cela  un messaggio positivo  in quanto sottende  la necessarietà del peirasmos per l’acquisizione del merito individuale, come prova saggiata dell’elezione divina del christianos  pneumaticos,- rispetto ad ilici e psichici destinati alla dannazione-  e come presenza di Dio, padre e poihths facitore della Storia.

Il Matteo greco vede l’instaurazione  della Basileia tou Theou come attuazione della volontà del padre, come ultimo atto  di un percorso iniziato col superamento  dell’etica  ebraica, accettata nella sua essenza: Mt 7.12   Quanto, dunque, desiderate  che gli uomini facciano,  fatelo  anche voi  stessi.  Questa è infatti la legge e  i profeti/ panta oun osa ean thelhte ina poiioosin  hmin oi  anthroopoi , outos umeis poieite autois: outos  estin  o nomos kai  oi prophetai.

Strano  è, comunque,  quel kai oi prophetai anche se è sottinteso il soggetto outoi ! E’ solo un rispetto alla tradizione ebraica, da parte della gerarchia clericale alessandrina, già potente, rispetto ai vilipesi giudei!

Dunque, Matteo greco  compendia in Regola d’oro quanto insegnato dal Vecchio testamento  considerato, comunque, inferiore alla  legge esposta da Christos  (cfr. Gio.15,12 s), come prova ulteriore della  lettura  matthaica del Didaskaleion!

In pratica per Matthaios Il Christos, che chiede al Padre  la liberazione dal maligno  evidenzia l’umano timore di essere dominato dalla potenza del Peirazoon, la cui manifestazione come Satana (Belzebul, Mammona) antagonista di Dio, continua nei vangeli,  è considerata oppositiva alla evangelizzazione.

D’altra parte la stessa  intenzione di opporre Regno dei Cieli e Regno dell’Ade ( da a-id = non visibile quindi sotto terra,  come termine equivalente a Sheol,) tende a manifestare il contrasto tra  il padre celeste  e il poneros  ed è segno  di una mentalità diale  radicata nell’animo ebraico, come dimostrazione della sottesa  cultura babilonese  ed iranica.

Di questa cultura  è quel vangelo aramaico di Matteo, portato in India da Bartolomeo, di cui viene trovata una copia da Panteno ( Eusebio, Hist, Eccl. V 12.3), che  lo porta ad Alessandria : non si sa poi  (Eusebio,  Hist. eccl. III, 24.5-6 Epifanio, Panarion, 29.9,4  Girolamo De viris illust., 3)   come  scompaia.

L’uso greco di o en tois ouranois  è già in Neemia (1,5;2,4 ed altrove)  dove c’è la concezione di Dio clemente e misericordioso  ed anche in Tobia (13,4)  che parla di padre  nostro in aramaico e che tratta della benedizione del  nome santo di Dio (12,14; 8,5; 3,11) e specificamente in Giobbe, dove è palese l’impostazione contrastiva tra le forze del bene  e quelle del male , di Dio e del suo avversario (Haura Mazda ed Ariman).

Anche la presenza contemporanea di Peirasmon  (da peirazoo  tento, sperimento da peira prova da cui experior e periculum)   e di ponhros  (da poneoommi affatico  da ponon lavoro  collegato a  penomai   mi stanco per il lavoro) se permette, da una parte,  un parallelismo sinonimico  di grande rilievo significativo   ai fini della comprensione generale della sequenza,  da un’altra, però , è segno della  persistenza culturale aramaica.

Infatti  o ponhros  indica una figura di uomo  deformato dalla fatica  in senso fisico,  condizionato da penia  in senso morale,  perciò, abbrutita,  malvagia,  incline al male perciò cristianamente, che  diventa  diavolo (da diaballoo, calunnio)   perché antagonista di Dio, che è entità  luminosa in quanto della stessa radice da una parte di kuros-sole  e  da un’altra di  diu da cui  Zeus-lucente .

La preghiera, quindi, vale come  richiesta  da parte del figlio al Padre di non darlo nelle mani  del Peirazoon come prigioniero  e di liberarlo: l’implorazione, connessa con la petizione,  acquista una valenza definitiva  di trionfo del bene sul male,  di vittoria  dell’oikonomia divina sulla terra, come espressione finale del ritorno del Christos.

Matteo con l’ultima richiesta   sottende il problema della teodicea (h tou Theou dikh) della presenza del  male nella storia e in natura,  del dolore umano  di creatura,  della retribuzione divina,  del superamento stesso del male in termini giobbiani da una parte secondo un’ ottica semplicistica popolare, e da un’altra  della visione  escatologica della fine della lotta  e dell’instaurarsi della volontà del Padre  universale col ritorno del Christos.

Infatti  l’attuazione  della basileia  con il farsi della volontà divina implica che la giustizia di Dio debba seguire il dikaios,  preservato come figlio  dalla furia della tentazione  e del tentatore, assistito   nel combattimento con  i mezzi necessari  per la vittoria.

La fede in Dio, per il Matteo greco,   è giobbiana fiducia, pur nella coscienza  della pericolosa  presenza del male e della conflittualità  esistente nell’essenza stessa  maligna della vita umana e terrena, ma è anche  speranza del cristiano  che crede nella potenza e sapienza divina,   che riconosce i limiti della condizione umana   e  teme Dio  e, perciò,  sa cercare un senso ai pur misteriosi  disegni divini.

Questa visione sottende l’ imminente parousia del Signore!

Comunque, il cristiano ha certezza   che chi confida in Dio anche nella prova vince, perché  sa che Dio è potente e paterno e che il suo aiuto è proporzionato al pericolo, conforme alla preghiera  e al rapporto di figliolanza.

In conclusione  il Padre matteano, greco, è   messaggio di sapienza, tipica di Kohelet  e del Siracide,  di perdono e di vittoria  in un’unica esaltazione del Padre, il cui nome è benedetto il cui regno è presente, la cui volontà  è manifesta in cielo e in terra.

La preghiera del figlio è celebrazione del Padre perché acceleri i tempi della vittoria sul nemico ed instauri il suo regno.

La  celebrazione del Nome, la venuta del Regno, il dominio  della Volontà  sono indizio della fine della lotta tra il principio del bene  e quello del male  e  sono segno del ritorno  del  Christos, del suo trionfo,  del compimento del tempo terreno e dell’inizio dell’Eternità.