Crucis ofla/pendaglio da forca

In memoria di Emilio Di Vito, mio carissimo amico e collega

 

Seneca – Epistola 101, 11 – scrive circa l’autarkeia dello stoico:

Si sedeam cruce, sustine/ se sono appeso alla  croce, conservami la vita, anche se mi rendi monco di una mano o storpio di una gamba,  anche se mi fai cadere i denti e mi fai crescere una gobba  sul dorso.

Per anni mi sono chiesto se Paolo negli anni di prigionia romana, come civis, possa aver davvero  testimoniato  Christos, scandalo della Croce, in epoca neroniana.

Mi sorprende che un romano imparentato con gli erodiani tramite la sorella, moglie di un nipote di Giulio Fasael, primogenito di  Antipatro,  e fratello maggiore di  Erode il Grande, possa comunicare un’ assurdità colossale come il Christos, scandalo della croce, la morte e la resurrezione  di un uomo morto martire per i giudei aramaici, noto come un ladrone/lhisths per i romani, per i filoromani, per i greci.

Resto sconcertato se penso che  Paulus, che si  è appellato all’imperatore per avere giustizia, possa far propaganda  per uno morto in croce, uno considerato in latino  crucis ofla (traduzione  greca di to tou staurou kreadion) cioè un pendaglio da forca, ancora oggi  definito dagli ebrei l’appeso (antonomasia). 

Eppure lui (o  qualcuno della sua famiglia, fornitrice di tende per i castra),  non può non aver  visto di persona una crocifissione (stauroosis)  di masse di partigiani aramaici, correligionari! lui sa bene che il palo-crux, precedentemente ficcato per terra,  ha come traversa  il Patibulum –  al quale, già appoggiato sulle spalle dei condannati, vengono inchiodate o legate le mani alle estremità- fissato sopra così da  formare nell’insieme un tau.

È strano che Lui  e la madre, sotto Claudio,  sposata a Roma,  e i fratellastri non conoscono l’orrore della crocifissione!

Sono davvero confuso ed inorridisco  e mi agito  davanti alle retoriche  formulazioni di Paolo  sul Vangelo della croce, fatte in  I Corinzi e in Lettera ai Galati: sono chiare manifestazioni di un delirante profeta, che cerca di difendersi  di fronte alla duplice accusa  di non essere fondatore della colonia di Corinto e di non essere apostolos, ancora di più palese, data la presenza, specie in Galazia, di uomini di Giacomo, fratello nella carne di Gesù, negatori del messaggio christianos paolino

Nella lettera ai Galati, Paolo va oltre la legge mosaica   e  le sue prescrizioni pratiche, oltre le questioni dottrinali ed afferma il Christos, crocifisso e risorto,  predicando il Vangelo  per gli incirconcisi.

Egli proclama: a causa della legge  sono infatti morto alla legge, così da vivere per Dio. Sono crocifisso con Christos/Xristooi  sunestaurosomainon vivo più io ,vive in me Christos e ciò che ora vivo nella carne,  lo vivo nelle fede di Dio, che mi amò  e si consegnò per me (paradontos eautou uper emou, Gal. 2.21).

Da qui, secondo Paolo, l’insensatezza dei Galati  che hanno tradito il vangelo  del crocifisso e da qui la rivendicazione del suo mandato apostolico  contro i suoi detrattori giudaici, inviati da Giacomo, in una logica di salvezza  non mediante la legge, ma mediante  la fede.

Al di là delle  dichiarazioni, del linguaggio emotivo, della retorica, dell’annichilimento della propria persona il civis Paulus  combatte una guerra a Corinto e in Galazia contro Apollo e i seguaci di Giacomo, eredi del pensiero  del Meshiah/Christos, di cui attendono il ritorno,  essendo fedeli alla musar cultura aramaico-mesopotamica: i deliri paolini, farneticanti, si scontrano con la rigida ed integralista morale mesopotamica  e nulla possano, nonostante la superiorità culturale della paideia greca.

Da qui anche il dubbio mio personale sui passi delle due lettere – nonostante il commento di  Origene, che ne attesta l’autenticità! – che potrebbero essere state manomesse nella copiatura,  una volta iniziato in Alessandria il nuovo corso della rivalutazione di Paolo nel II secolo d. C.!

Comunque, mi meraviglio ancora di più se lavoro tecnicamente,  esaminando i termini usati dall’apostolo nella I Corinti,  dove si tratta dell’umanità, della morte in croce  e resurrezione di Christos.

 Paolo condensa in poche righe il suo vangelo della croce,  proponendo il primo credo  cristiano all’ecclesia tou theou corinzia, lacerata da skimmata ed erides, divisa  tra giudei e greci,  che si rilevano nelle diverse nature di legalisti  ebraici e di superstiziosi  pagani, incapaci di distinguere il loro credo, a seconda dei millantati  fondatori.

In una città commerciale, capitale dell’Acaia, con due porti  e con  molte industrie, compresa quella tessile, che ha popolazione mista  – in quanto vi sono veterani  romani, marinai di varia etnia  e perfino una sinagoga giudaica –è possibile che Paolo predichi il vangelo di Christos crocifisso, sotto il Regno di Nerone, consapevole  anche del crimen di lesa maestà, commesso da Gesù Meshiah aramaico?

Non mi sembra probabile che un giudeo, un fariseo, un civis, che per prima cosa deve convincere  i suoi fedeli che sono bambini  neepiooi  bisognosi  di latte e non adulti  di cibo/brooma, che sono carnali (‘sarkikoi’) non spirituali pneumatikoi, possa  fare proselitismo (vietato!)  già in epoca di Claudio, anche se come diakonos/servitore e propagandare il messaggio di Christos crocifisso, un  aramaico che si è proclamato maran/re, su autorizzazione di Artabano III, in un momento critico del subito dopo Elio Seiano (32-36) per il senato, per Tiberio  e per il popolo romano, rimasti perplessi  alla morte il 18 ottobre del 31 d.C. del potente capo del pretorio, guida indiscussa della politica Orientale, di Siria e di Iudaea (cfr. Angelo Filipponi,  Caligola il sublime, Cattedrale, 2008 ).

A Corinto  essere di Apollo o essere di Paolo intorno al 52 d-C., ancora sotto Claudio, sottende due diverse letture del primissimo cristianesimo: una basata sul battesimo di Giovanni, proprio  degli aramaici  ed una sul battesimo di Gesù con l’acqua del Giordano e con il fuoco dello Spirito di Dio, tipico dei christianoi antiocheni.

Al momento del confronto tra i fedeli di Apollo  alessandrino e quelli di Paolo, ci sono problemi più  gravi di una questione di  ktisis di  apoikia  giudaico-cristiana nell’impero romano…

Oltre la lettura del Vangelo del crocifisso di Paolo  c’è anche quella di  Giacomo (cfr. Giacomo e Paolo), il capo dell‘ Ecclesia.

Ora la lettura paolina sembra poca cosa circa  la ricerca di chi  ha piantato e di chi ha innaffiato  quando si sa che  solo Dio fa crescere la piantina: è solo un tentativo per deviare il discorso su Christos e su Christos crocifisso che risulta un logismos ingegnoso, artificialis retorico, sublime, data la carica sentimentale…

Paolo parla retoricamente a greci e a giudei: chi pianta non conta nulla, né chi innaffia,  ma chi fa crescere, Dio:  Chi pianta e  chi innaffia sono pari. Ciascuno certo, riceverà il proprio compenso, secondo la propria fatica/ idion kopon; infatti siamo collaboratori di Dio/tou Theou … sunergoi e voi siete  cultura di Dio,  costruzione di Dio/Theou georgion, Theou oikodomh  (anafora di Theou e parallelismo simmetrico).

Si rilevi l’uso di termini,  proprio di Filone alessandrino, di sunergoi, di georgion, di oikodomh, ed anche di diakonos…

E’, comunque, un discorso ellenistico, una disputa tra un tarsense ed un alessandrino, di cui  si conosce solo quello  retorico  con  linguaggio da Mysths  di Paolo…non quello di Apollo alessandrino…

I due  nel contrasto tralasciano i problemi del momento,  i dissensi e le depravazioni (incesto, liti e ricorsi al tribunale romano, varie dissolutezze)  anche se si prendono provvedimenti  circa il matrimonio e il celibato, dando norme sulle carni sacrificate agli idoli…

Mi sembra che, nonostante la mancanza  del logismos di Apollo,  il nucleo paolino  sia indicazione di una  costruzione/oikodomh,  che è descritta come opera  personale, propria di un architetto sapiente/ sophos arkhitektoon, che pone le fondamenta / theinai Themelion (meno usato rispetto a  themeilia probalesthai) su Christos.

Paolo già si assimila al Christos, definito sophos  e architectoon, altrimenti il suo logismos è inficiato già in partenza: nessun uomo  è  sapiente/sophos, e i sapienti umani sono moroi pazzi!

Paolo afferma  di aver posto, lui proprio lui, per grazia divina (kata  kharin tou teou) le fondamenta,  anche se è aborto(toooi ektroomati … kamoi)  l‘ultimo degli inviati,  inadeguato a quel nome per aver perseguitato la comunità (thn ecclhsian tou theou), convinto che la fede è futile/ mataia senza il Christos risorto

Per Paolo, quindi, non conta  se un altro vi edifica sopra, conta invece il modo come si edifica (poos  epoikodomei): infatti non si può porre altro fondamento,  oltre quello esistente, che è Gesù Khristos.

Passa, poi, ad esaminare la materia con sui si costruisce sul fondamento di Christos crocifisso: oro argento, pietre pregiate  o legno,  fieno, paglia; l’opera di ciascuno  diverrà manifesta, la chiarirà infatti quel giorno (dies illa!) perché si svelerà nel fuoco e l’opera di  ciascuno nel fuoco sarà valutata  per quello che è.  Se l’opera edificata là sopra da qualcuno  rimarrà,  egli ne riceverà compenso, se verrà arsa ne subirà danno, ma si salverà proprio come in un incendio (I Corinti, 3, 12-17).

Si  rilevino i passaggi temporali dal passato al  futuro  mediante un presente, che è occasione di una “proposizione” ideale!. 

L‘io paolino, ora, dopo aver mostrato la ekpuroosis  purificatrice del giorno finale, cosciente di essere aborto, l’ultimo dei servitori del signore, ma anche colui che ha  generato uomini nuovi, capaci di essere saggiati dal fuoco, si stempera in un voi,  in una comunicazione elitaria sacerdotale, che unisce parlante e uditore in Christos e in Dio.

Dapprima, Paulus  domanda, in un collegamento di fili del suo ordito mentale sotteso:  non sapete voi di essere tempio di Dio, abitazione dello spirito di Dio?

Poi,  precisa  in terza persona, facendo salti temporali : Se qualcuno  distrugge il Tempio di Dio, sarà distrutto da Dio. Infatti il Tempio di Dio  è santo (Ibidem, 3.16-17).

E conclude (riprendendo il voi) e sancisce (metaforicamente): quelli (che sono tempio) siete voi:  questo è un passaggio della retorica alessandrina, tipica della koinonia/comunicazione  interpersonale, filantropica, partecipativa  ellenistica,  filoniana, elitaria!.

Paolo predica che  il costruttore e la costruzione  sono in Christos,  per cui, sottendendo il proprio io,  può dire: voi  siete  di Cristo e Cristo è di Dio (Ibidem, 3, 239… aiutanti di Cristo ed amministratori dei misteri di Dio/uphretas Xristou kai oikonomous musterioon Theou (ibidem, 4,1).

Si rilevi umeis  de Christou, khristos de Theou, perfetto parallelismo simmetrico: voi uomini siete di Cristo, Cristo è di Dio   e  quindi  voi, sarkikoi, siete di Dio in quanto fratelli di Cristo, intendendo  che voi fatti di  carne e Cristo fatto di carne  siete di Dio, perciò,  siete cultura di Dio, siete edificio di Dio, (ibidem 3,9) parte visibile di Dio, suoi collaboratori.

Perciò,  egli rivendica  di aver sofferto per avere  loro come figli: voi  siete miei amati figli: se, infatti, aveste diecimila precettori  non avreste però molti padri, in Cristo Gesù  vi ho generato io, col Vangelo (ibidem, 4, 5) e poi  li invita ad imitare lui, loro padre (4, 14.15) affermando  che il regno di Dio (H basileia tou Theou) consiste non nella parola, ma nella potenza di Dio, incerto se usare il bastone (rabdon) o  amore e spirito di mitezza/agaph te pneuma praothtos, dopo l’invio di Timoteo…

Da questa angolazione viene fuori il pensiero filoniano  di  unica salvezza  e di un ‘unica sapienza in Dio  e, quindi, della pazzia /mooria del mondo davanti a Dio …

La conclusione, dunque, paolina -che nessuno si vanti  fra gli uomini. Tutto infatti è vostro: Paolo, Apollo, Cefa e il mondo, la vita e la morte,  il presente, il futuro  tutto è vostro e voi di Cristo e Cristo di Dio – vorrebbe indicare il superamento delle divisioni/ skimmata e delle contese/erides  e in senso rituale e  dottrinale, facendo cadere le accuse di non essere né libero né apostolo, di non aver visto il Signore, in una rivendicazione  palese a tutti, anche ai suoi giudici: il sigillo della mia missione siete voi nel Signore/h sphragis mou ths apostolhs umeis este in Kuriooi.

Per Paolo ogni corinzio, quindi, è di Christos  al di là dei diakonoi  umani e terreni,  al di là del tempo stesso, per cui nell’attesa del signore non ci sia giudizio né giustificazione…

L’invito successivo (ibidem, 11, 1) all‘imitazione /mimesis  di Cristo, connesso al suo esemplare modello – Siate miei imitatori come anch’io lo sono di Cristo/mimetai mou gineste, kathoos  kagoo Xristou – è in relazione al logismos,  basato sul Christos capo di ogni uomo, sull’uomo capo della donna  e su Dio capo di Christos.

In tale ragionamento si rilevi, dapprima, il parallelismo simmetrico di kephalh de gunaikos  o anhr, kephalh  de tou Xristou o Theos  e poi il chiasmo tra  questi due enunciati simmetrici  e  pantos andros h kephalh o Xristos , oltre all’anafora kephalh.

Il discorso paolino è sulle parti costitutive di un sooma  e non verte affatto su capo-inteso come comando, quindi, tratta fisicamente  anche se poi trasferisce in altro senso tutto il suo linguaggio. È sotteso l’apologo di Menenio Agrippa (Tito Livio, Ab urbe condita  II,32) ,e forse anche un pensiero di  Senofonte (Mirabili, 2,3.18 ) di Esopo (Favole 288) ed anche  di Cicerone (De officiis, 3.5.22.)

Paolo, avendo  coscienza che pregando possa  parlare glosshi  e  interpretare diermhneuein, passa metaforicamente dal Corpo umano alla Chiesa ed invita i fedeli a non essere bambini nei pensieri e ad aver pensieri maturi in quanto  il parlare lingue è segno  non per i credenti, ma per i  non credenti, mentre la profezia non vale per chi non crede, ma per chi crede/ glossai eis shmeion eisin  ou tois  pisteousin,allà tois apistois, h de propheteia  ou tois apistois  alla tois pisteusin (Ibidem. 14,22).

Il suo ragionamento è, perciò, in relazione  all’immersione nell’acqua in un unico Spirito (ibidem, 12.13)  e serve per  la costituzione  di un organico  corpo cristiano ecclesiale, il cui capo è Cristo crocifisso: infatti dice: voi siete corpo di Cristo e partitamente sue membra/umeis de este sooma Xristou, kai melh ek melous (Ibidem, 12, 28), in cui ogni membro ha una sua specifica funzione svolgente il compito, dato dal Signore (apostolo, profeta, maestro, elemento abile  grazie al dono delle guarigioni, uomo dotato di poteri o semplice impiegato  nella assistenza o capace di parlare le lingue o altro).

Da qui  la necessitas che in un corpo  ci sia un reciproco scambio  amoroso tra le parti per il bene unitario corporale: la  caritas/h agaph è il vincolo fraterno  tramite  il pulsare reale del sangue del Christos, vita/hayim, senza il quale non serve né la conoscenza delle lingue, nemmeno  di quella degli angeli, né la profezia, né i misteri della scienza.

L’anadiplosi di agàph  da una parte mette in bella mostra il suo personale esempio tanto da dire: se non ho agaph, nulla sono, e da un’altra il valore della carità  imperitura rispetto al tutto che si dissolve. 

Il futuro come tempo della  dissoluzione delle realtà umane e terrene è marcato con i verbi  katharghthhsontai (le profezie ) Pausontai (le lingue katharghthhsetai (la conoscenza), ancora katharghthhsetai ( to ek  merous la parte )- poliptoto- al momento del compimento dei  tempi (teleioosis ).

Insomma  per mostrare il potere della caritas  mostra il messaggio, tramesso per come lo ha ricevuto: Cristo morì per i nostri peccati secondo le scritture  e venne sepolto  e fu risvegliato dai morti/oti Xristos apethanen uper toon amartioon hmoon …kai oti etaphh, kai oti eghgertai (il terzo giorno);  fu visto da Cefa ,poi da dodici poi  da più di 500 fratelli in una volta/kai oti oophthh Khphai, eita tois doodeka, epeita epanoo pentakosiois adelphois  ephanpacs..poi fu visto da Giacomo  e poi da tutti gli apostoli, epeita oophthe Iakobooi, eita tois apostolois pasin – Ibidem, 15, 3-4 -)  marcando il valore, con enfasi retorica , dell ‘agaph – Che tutto sostiene , tutto crede, tutto  spera, tutto sopporta (Ibidem, 13, 7).

Tutta questa parte discorsiva  è pneumatica  e rimanda ad una sistema didascalico,  già collaudato  in vigore ad Alessandria  nel II secolo, specie al tempo di Panteno, Clemente Alessandrino e di  Origene, connesso con le proposizioni di Plotino  e degli stessi gnostici ed è congiunto con il vangelo  di Marco e di Matteo circa la croce emblema da seguire.

C’è un problema per me di ordine temporale: possibile che Paolo abbia un pensiero così strutturato sul vangelo del Christos Crocifisso in epoca di Claudio (41-54)?

La difesa della fede sulla base del messaggio della croce, instillata in uomini come i corinzi, corrotti pagani e giudei scismatici, è un tentativo di dare unità nel nome del Christos, morto in croce e risorto mediante il Vangelo, in  modo elementare, senza sapienza.

Una cosa è fare affermazioni  sulla fondamenta ed una cosa  costituire un pensiero sul Christos crocifisso, che necessita di una scuola, in un altro tempo, dopo la la fine del Giudaismo, dopo la galuth adrianea,nel 135 d.C. quando si è lontani dall’ accadimento della crocifissione stessa  di Gesù  ...

Ci sembra,  perciò, che Matteo 16,24  e  Marco 8.34   siano stati modificati  e manomessi  nel passo,  dove è scritto ” se uno  vuole venire dietro di me, rinneghi se stesso,  prenda la sua croce, e mi segua”: i due hanno scritto allo stesso modo, avendo posto – è un mio parere!-un altro termine al posto di croce/stauros, 

Non è pensabile che gli evangelisti abbiamo potuto scrivere nel I secolo, anche se alla fine del periodo domizianeo, per i giudeo-cristiani, seguaci del Christos crocifisso,  di prendere la propria croce,  simbolo di  morte ignominiosa  ancora, dopo oltre quasi due secoli di crocifissioni come punizione per i popoli che fanno staseis /rivolte  e come monito per i  banditi e ladroni, per tutti quelli che turbano l’ordo /kosmos romano imperiale  quando sussiste il pericolo aramaico-parthico  ed è impellente, ed urgente l’estirpazione del cancro giudaico  (cfr. Il II secolo d.C: il trionfo della retorica, del paradosso e della bugia).

Dopo la diffusione del pensiero paolino sul Christos crocifisso e l’esaltazione della croce, divenuta un emblema per il cristiano nel II scolo d.C, in ambiente alessandrino,  qualche copia  dei vangeli viene alterata, essendo molto significativo il seguire Christos, portando ognuno la  propria croce:  è plausibile  che un copista alessandrino abbia alterato il testo paolino e poi altri facendo copie dei  vangeli si siano lasciati condizionare  dalla celebrazione  del valore della croce e quindi hanno cambiato il termine originario  del passo matthaico e marcino, essendo stauros più significativo per un Christianos, nuovo cireneo,  imitatore di Christos, in epoca  postadrianea!?

Per Paolo, qualunque sia il suo messaggio reale,  la croce è messaggio  di follia per chi non crede ma per chi è destinato alla salvezza, è  segno di potenza divina,  per cui  il Christos crocifisso scandalon/ trappola per i giudei, e  moorian/pazzia  per i gentili,  è invece potenza e sapienza di Dio...

Se fa questa  operazione in Oriente, a Corinto, ad Efeso in Galazia  potrebbe pur avere un qualche valore, ma non a Roma, dove ci sono pochi cristhianoi che costituiscono un gruppetto (Una ventina di persone, tra cui parenti) insignificante tra la popolazione pagana romana di oltre un un milione  e mezzo  e perfino tra i 50,000 ebrei delle cinque sinagoghe romane, quasi tutti  giudeo-ellenisti, ricchi  trapezitai /bancari, emporoi,  sacerdoti ed erodiani, ben connessi con la corte imperiale giulio-claudia, e collegati con i giudei alessandrini oniadi Cfr. anche M.Fr. Baslez, Paolo di Tarso, Sei 1993, parla di un esiguo gruppo di seguaci, negli ultimi anni del regno di Nerone, poi svanito  per quasi tutta l’epoca flavia).

Un prigioniero che vive, attaccato ad una catena  con un centurione, che predica  lo scandalo della croce/staurou scandalon, un Gesù Messia (unto del signore)  crocifisso dai Romani nella pasqua del 36 ad opera di Lucio Vitellio (che ha come subordinato Ponzio Pilato, prima della sua stessa destituzione), scrittore delle sue imprese – allora ben conosciute- morto una diecina di anni prima (nel 51)  riverito da tutti, non è credibile né degno di ascolto se non da pochi aramaici antiromani.

 Flavio in Bios (3,16) tratta di un suo viaggio a Roma nel 64 per perorare la causa di sacerdoti aramaici imprigionati, detenuti in carcere,  e di una sua visita a Poppea, moglie di Nerone, filogiudaica…!

Nessuno ascolta la predicazione  di uno che propaganda il Christos Crocifisso, che significa il messia giudicato ladrone e maran, re illegittimo, ritenuto degno di morte ignominiosa da un  governatore  nikeths parthicus!

Lodare  uno morto in croce significa a Roma andare incontro a denuncia, ad un arresto per vilipendio alla romanitas e all’imperator, ad una condanna a morte: la croce/stauros è strumento di  terrore e  segno della vis romana  che punisce secondo iustitia/dikh i colpevoli.

Un morto in Croce è detto  a Roma crucis ofla (offula diminuitivo di offa  pezzo di carne,  volgarmente sincopata) congiunto  al detto orientale staurou kreadion che significa pezzetto di carne (metonimia  per indicare una parte per il tutto cioè di uomo macellatoappeso ad una croce, dopo fustigazione).

Nel gergo popolare il sintagma vale un bandito appeso alla croce, un pendaglio da forca, un ladrone giustamente crocifisso, uno schiavo crocifisso per i suoi delitti, un rivoltoso  catturato e crocifisso dai soldati senza alcuna sentenza e giudizio, tra gli sghignazzi della plebaglia.

Ogni popolo sia in Oriente che in Occidente e in  Africa, ha subito crocifissioni  dai romani vincitori, che appendevano i vinti, a decine di migliaia, sulle dorsali collinari, in modo da essere visti  da fratelli e parenti,  da figli, da padri  impotenti di fronte al vincitore, a cui  dovevano servire, in silenzio! Nel  periodo di Paolo, l’Oriente, specie la Syria  è  il paese più crocifisso!

Un tarsense ellenizzato e romanizzato non può non conoscere il significato di croce nell’impero romano!

A Roma  predicare lo scandalo della croce  è una sfida a Nerone, a cui si è  appellato  ed una provocazione per quei milites che lo ho hanno scortato e difeso prima da Gerusalemme a Cesarea Marittima poi durante la navigazione, nel  viaggio verso la capitale, una mortale offesa al centurione a cui è incatenato…

A Roma, a mio parere, il pensiero cristiano col messaggio di Christos crocifisso è impossibile  in epoca neroniana ed anche flavia!

Forse, dopo la morte di Adriano,  giudeo-cristiani possono aver costituito una comunità ecclesiale  dipendente da metropoli orientale (propendo per Antiochia prima e poi per Alessandria!) che possono aver ripreso qualche pensiero mistico paolino circa lo scandalo della Croce, certamente non formulato per come è detto in I Corinzi.

Per meglio capire quanto sto affermando, bisogna  prima decondizionarci dalla nostra tradizione cristiana che dice che noi dobbiamo umiliarci  seguendo l’esempio paolino,  adorando il Christos in Croce, lo scandalo della  croce, per  essere come lui figli di Dio  che accettando la sofferenza e macerati da essa,  ci assimiliamo al Maestro, che, morto, poi trionfa con la resurrezione  e  ci fa partecipi  del suo Regno eterno  in quanto suoi fedeli, fratelli e  facenti parte del suo mistico corpo.

E  bisogna poi  riflettere non solo su Paolo di Tarso ma anche sulla lezione che viene da Petronio arbiter elegantiarum, un cortigiano neroniano, costretto al suicidio, lo scrittore di un romanzo  Satyrikon di cui abbiamo solo il XIV e il XV  e XVI libro,  che tratta in modo realistico delle avventure di un terzetto Encolpio, Ascilto e Gitone, due giovani studenti ed un amasio, conteso dai due  (Cfr.  E. Paratore, Satyricon di Petronio, Firenze 1933; C. Marchesi  Petronio, Roma, 1921;  V. Ciaffi,  Intermezzo nella coena petroniana 41, 10 – 46, 8  Rivista di Filologia, 1955 e  Struttura del Satyricon, Torino, 1955)

La vicenda delle avventure dei tre si complica con l’incontro con Agamennone un retore e poi con la sacerdotessa Quartilla  e con l’invito a coena da Trimalchione,- un orientale arricchito, parvenus pacchiano,  messo alla berlina dalla comitiva di scrocconi e parassiti –   e dall’entrata in scena di un poeta come Eumolpo,  che complica la situazione  tanto che il gruppo si separa ed  Encolpio, divenuto schiavo, soffre penosi tormenti  perché non soddisfa le voglie della sua padrona, Circe, nonostante il ricorso alle fattucchiere, le preghiere a Priapo e l’uccisione di un’oca sacra, che potrebbe costargli la croce…    E’ un romanzo – incompleto, senza inizio e senza fine –  con la maggior parte  della narrazione  in prosa e con due partes  in poesia – una sulla distruzione di Troia, parodia  dell’ Aloosis Iliou  di Nerone ed uno sulla Guerra civile,  parodia di Farsalia di Lucano –  ,  realistico, un satirico e divertente specchio della  vita quotidiana  romana, che risulta  un affresco   variopinto  di caratteri  e di  contesti,  secondo l’angolazione di un moderato  e razionale maestro di buon senso, più liberale che severo, in senso  più ellenistico che latino.

Ora Petronio in Satyricon, 56, 8,  collaris ofla  (cfr. V. Ciaffi,Satyricon Utet 1967) per indicare un particolare dono da portare via tra i tanti presentati dai ministri /servi/diakonoi del padrone di casa, mostra  un pezzetto di capicollo.

È Gitone che guarda  gli apophoreta del ricco Trimalchione, dopo che ha assistito allo spettacolo di saltimbanchi – in cui un omone tiene una scala su cui  gradini si muove  un ragazzetto che  canta, mentre sale,  delle ariette – e alla caduta  del ragazzo, tra la sorpresa generale dei convitati  ed una riflessione sulla immutabilità della sorte fatta dal borioso ospite.

Questi passa allegramente  dall’epigramma alla poesia, facendo confronti tra Cicerone e Publirio Siro,  dopo aver trattato dei mestieri più difficili (medico, bancario), disquisito  stolidamente sulla funzione degli animali che non parlano (buoi agnelli, api) per arrivare  a fare considerazioni sul mestiere di Filosofo.

Nella lotteria degli apophoreta  spiccano i nomi dei doni (“argentum sceleratum”, “cervical”, “serIsapia et contumelia” “Porri et persica”  “Passeres  et muscarium” “Cenatoria et forensia”  “Canale et pedale” ,” muraena et littera“, con le specifiche spiegazioni, tecniche culinarie  e non) pronunciati  da un  ragazzo appositamente scelto per quel compito /puer super hoc positum officium (Satyr., 55, 7).

Ascilto, che è uomo intemperantis licentiae, si burla di tutto e ride fino alle lacrime, è redarguito con parolacce, epiteti volgari,  da un commensale alle spalle – la coena è raccontata, come anche il viaggio, da uno del gruppetto  di protagonisti – che suscita l’ira degli amici.

Costui è Ermerote, un orientale  come tanti – ben conosciuti da Petronio, un ex governatore di Bitinia,  suicida nel 66 (Tacito, Annales, XVI, 18-19)- forse impiegato  per 40 anni nell’esazione dei tributi/publicanus?! e quindi letterato, scriba, che si è asservito di sua volontà, preferendo essere un cittadino romano che un tributario (malui civis romanus esse quam tributarius) in modo da vivere  così da non essere lo zimbello di nessuno.

Egli, pur essendo un parassita, vuole essere un uomo  tra gli uomini camminare a testa alta  senza dovere  niente a nessuno (assem aerarium nemini debeo),  non ricevere  citazione alcuna  e  non essere apostrofato nel foro da qualcuno con restituisci quanto devi/redde quod debes.

Infatti  ha comprato glebulas lamellas  un pò di terra  e nutre,  avendo messo da parte qualche  denario, 20 bocche  e un cane, ha riscattato la sua donna  senza aiuto di altri e se tesso sborsando  mille denarii  ed è stato eletto gratuitamente  Seviro, intenzionato a morire  senza arrossire  da morto (sic moriar  ut mortuus  non erubescam. ibidem, 57,6).

Ermerote parla così  perché ha rilevato che Ascilto  è uomo tam laboriosus ma incapace di guardare dietro di sé e perché  vede nell’altro il bruscolo  ma  non vede la trave nel suo occhio (in alio peduclum vides, in te ricinum non vides ibidem ,57,7 ) convinto che tutti gli altri siano ridicoli.

Ed allora, dopo avergli mostrato di dover seguire il Maestro Agamennone, di gran lunga migliore di lui,  apostrofa Ascilto, che porta alle dita  un certo numero di anelli d’oro  considerati con disprezzo di bosso,  in quanto erano distintivi dell’ordine equestre,  avanzando il sospetto che quelli anelli non sono suoi e quindi che  non è  iscritto tra gli equites…

Ermerote, poi,  apostrofa bruscamente, insultando anche Gitone   che, stando in piedi, alla fine,  sbotta anche lui in una  grossa risata e tra le vari offese  lo chiama  crucis ofla  (ibidem, 58,2) ed ha un incipit con anadiplosi  tu, autem  etiam tu rides, caepa cirrata / tu, pure tu, ridi cipolla riccioluta  ed aggiunge : Viva i Saturnali (io saturnalia – una festa  servile simile al nostro periodo natalizio, ma equivalente al carnevale,  dove si ha il rovesciamento dei ruoli tra padrone e schiavo)  è il mese di dicembre?/mensis december est? ed insistendo negli insulti a conclude: quando è che hai versato il tuo cinque per cento, cioè la tassa di affrancamento?/quando vicesima numerasti? che credi, o pendaglio da forca, carogna per i corvi! quid facias, crucis ofla, corvorum cibaria!…

Paolo  è un  civis, un cittadino diverso da Ermerote – che così bolla uno che  gli ride in faccia – ma è un romano che conosce la lingua latina, anche se scrive in greco.

A mio parere ,dunque,  all’epoca giulio-claudia e flavia non è pensabile nemmeno un ricordo positivo di Christos crocifisso se non in patria e in ambiente aramaico.

Paolo non può  parlare di croce sia nella forma di T che  di t, in termini di simbolo cristiano perché è equivoco il suo significato,  data la referenza di supplizio per condannati  morte,  mediante  sentenze  o  senza sentenze ad opera di militari che combattono contro partigiani  antiromani, specie aramaici filoparthici.

Ne consegue che, secondo la mia lettura del  testo paolino,  i passi circa il vangelo della Croce  non possono essere né di epoca giulio-claudia né flavia, ma potrebbero aver rilievo in una rilettura del cristianesimo antiocheno  in altre sedi (Alessandria?) in epoca antonina, quando c’è il trionfo della retorica, del paradosso e della bugia…