Ventidio Basso ed Erode Basileus
In Guerra Giudaica (I,288) si dice Bentidios o romaiooon strategos pemphtheis ek Surias Parthous aneirgein / Ventidio il capo dei romani inviato a respingere i parthi dalla Siria.
Si rilevi l’uso di aneirgoo il cui valore è respingo e ricaccio qualcuno oltre i confini.
In Antichità Giudaica XIV 395 è scritto: Bentidios men oun etugchane tas tarachas tas dia Parthous en tais polesin ousas kathistamenos / stava sedando gli sconvolgimenti che c’erano nelle città.
Si rilevi l’uso medio di Kathistamai con l’accusativo con valore di costituisco ed ordino nel senso di riportare ordine sedando tumulti.
Il mandato di Ventidio, perciò, (e quello di Poppedio Silone, collegato a quello del suo dux in quanto facente parte del consilium principis, destinato alla Giudea) è quello di respingere i Parthi e di sedare le tarachai sommosse delle città di Siria e di Celesiria e di Asia.
Questa sembra essere la logica di un’impostazione storiografica, quella di Nicola di Damasco, la fonte flaviana, greca. Se esaminiamo la fonte latina in nostro possesso, quella – che deriva forse da Asinio Pollione,- di Velleio Patercolo (St., II,78,1 virtute et ductu Ventidii ) e quella di Anneo Floro si rileva un altro aspetto del mandato, connesso ad una matrice favorevole ad Ottaviano,
Così l’epitomatore scrive (II, XIX, 9,4-7): sotto il comando di Pacoro, giovane principe, essi avevano disperso i presidi di Antonio; il legatus Saxa aveva ottenuto solo dalla spada di non cadere in mano loro. Infine essendoci stata tolta la Siria, il male sarebbe dilagato ancora di più, perché i nemici riportavano vittorie per conto loro, sotto il pretesto di portare aiuto (sub auxilii specie), se Ventidio, anche lui legatus di Antonio con incredibile fortuna (incredibili felicitate), non avesse distrutto le milizie di Labieno, lo stesso Pacoro e tutta la Cavalleria parhica, lungo l’intero arco tra l’Oronte e L’Eufrate. Perirono 20.000 uomini. E non senza il disegno del nostro comandante (nec sine consilio ducis), il quale, simulando la paura, lasciò che i nemici si avvicinassero al nostro accampamento fino al punto che, superato lo spazio di un lancio, tolse loro l’uso delle frecce. Il re cadde combattendo da uomo fortissimo. Allora, portata in giro la testa per le città, che si erano ribellate, la Siria fu riconquistata senza guerra. Così ripagammo la morte di Crasso con quella di Pacoro.
Floro, dunque, che conosce anche il prosieguo della guerra parthica, fatta poi con insuccesso da Antonio, bollato come uomo di immensa vanità – immensa vanitas hominis– desideroso di titoli, di far scrivere sotto le sue statue i nomi dell’Arasse e, fatta guerra senza motivo, senza disegno e neppure dichiarazione di Guerra- considera l’azione di Ventidio incredibilmente fortunata, anche se ne sottende valore e abilità strategica.
Sia Velleio che Floro, militari di professione, mostrano l’ampiezza geografica del teatro di guerra di Ventidio, ponendo i confini tra l’Oronte e l’Eufrate, e ne riconoscono la prudentia ed ammirano le strategie magistrali per annullare gli effetti della cavalleria catafratta, temutissima dai milites.
Tali doti sono magnificate da Sesto Giulio Frontino (Stratagemata, 2,2, 5. 2. 5,36-3 7), che rileva la tattica di simulare la fuga e di attirare in loca iniqua il nemico, dopo aver nascosto truppe di riserva, evidenziando anche un sistema di attesa, tale da far arrivare gli hostes al limite dei castra, in modo da rendere inutile il lancio stesso delle frecce ed impedire lo spiegamento della cavalleria catafratta – micidiale in pianura- in zone montuose, precedentemente conquistate.
Da Floro si capisce anche come Ventidio, ricacciati i Parthi , dopo la definitiva vittoria di Gindaro, sfrutti la vittoria, sedando le sommosse delle citta ribelli, filopartiche, mostrando la testa dell’ucciso Pacoro, loro liberatore, stroncando così ogni rivolta in Siria.
Il mandato di Ventidio, con successo portato a termine, è velato dalla storiografia greca, passata poi ad Ottaviano, senza poter oscurare, comunque, il valore della impresa di Ventidio anche perché è riscattato il nomen romano in tutto l’Oriente ed è mostrato come impossibile per i parthi tentare una impresa di conquista senza una base navale certa.
Comunque, paradossalmente, nuoce a Ventidio Basso, nonostante il riconoscimento del triumviro e il trionfo romano, la stessa successiva disastrosa impresa di Antonio, che viene marcata dalla propaganda ottavianea ai fini della dissacrazione del nomen dell’avversario a favore dell’apologia del triumviro occidentale.
Da qui forse la riduzione dell’impresa, marcata incredibili felicitate.
In questo clima politico ottavianeo, viene, invece, esaltata la figura di Erode, che assume, insieme poi con Ottaviano ed Agrippa, un ruolo più grande di quello meritato che cresce nel corso degli anni, in quanto la provincia giudaica diventa un punto centrale nella politica di riforma ottavianea, subito dopo la vittoria di Azio.
La letteratura poi ha buon gioco circa il valore di un uomo che da privato diventa re, il quale si sposa con Mariamne, l’erede della fortuna asmonea e crea una nuova stirpe regnante nella zona palestinese fino a quasi tutto il I secolo d.C.
Da qui l’ alone di Erode come colui che scaccia i Parthi dalla patria, toglie il regno ad Antigono, il maran /re asmoneo aramaico, seppure si serva anche delle truppe romane, in relazione agli ordini di Antonio, tramite i messaggi di Dellio.
Il legatus Ventidio fa una politica romana di ripristino dell’ordine in Siria, ben diversa da quella di un civis romanus privatus, eletto dal senato, re, impegnato ad eliminare il concorrente aramaico e a sostituirsi e quindi a ripristinare l’ordine in Gerusalemme e la normalità di culto nel Tempio, secondo gli interessi finanziari di Roma.
Infatti da questa angolazione si deve rileggere la vicenda di Erode – un tetrarca giudaico, esautorato- di molto minore, rispetto a quella del legatus piceno, un dux che fa, con un esercito numeroso, la storia dell’imperium.
La retorica di Nicola di Damasco è chiara, nell’era di Flavio, un sacerdote nazionalista, specie nella fuga da Gerusalemme, quando la Giudea è ormai in mani di Antigono: c’è mitizzazione dell’eroe, idealizzato con prosopopea, seguito nel suo viaggio per terra e per mare, fino all’arrivo a Roma, tanto da costruire una sorta di romanzo con esaltazione della virtus/arete del giovane civis tetrarca destinato al Regno, col concorso dei romani.
Flavio insiste sulla figura di Erode filororomano, già creata da Nicola di Damasco, che conosce la vita del basileus nella sua interezza, in quanto è biografo di corte, avendo bisogno di miti per evidenziare al suo pubblico prima aramaico, poi greco, la storia ed archeologia ebraica, in modo da mostrare il valore della sua etnia nel mondo sopranazionale romano.
Flavio, seguendo la sua fonte, mostra due storie, di cui una, quella maggiore è descritta per sommi capi, l’altra è seguita nei dettagli in un rilievo non solo dei fatti, ma anche dei Pathh/sentimenti umani tanto da fare partecipi i lettori, quasi sospesi ed ansiosi nel corso della personale avventura, che comprende anche una vicenda di pietas filiale e fraterna, secondo la logica familiare ebraica.
Lo studio di questa parte del racconto flaviano sia di Guerra Giudaica (I,274-285) che di Antichità giudaica( XIV, 352-389) comporta, quindi, una lettura diversa a due livelli, una di politica internazionale ed una di politica locale con episodi di guerriglia civile interna tra due fazioni opposte, già da un ventennio.
Le due guerre, quella maggiore e quella minore, sono guidate da uno stesso regista, che è Antonio, che coordina, per quanto è possibile in quelle circostanze e in quelle condizioni, i due protagonisti, comandanti militari.
Ora lo storico ebraico, preso dalla mimesis del damasceno, narrativamente trascura la cornice esterna, romano-parthica, che è guerra di predominio su un’area di oltre un milione di Km quadrati, mentre concentra la sua attenzione sull’altra che riguarda neanche un ventesimo di territorio, una minima porzione della regione contesa dai romani e dai parthi, una piccola pars, ma la sua patria.
Perciò il lettore non deve farsi ingannare dallo spirito nazionalistico ed aretologico di un sacerdote, partigiano, come Flavio, che fa una narrazione per mostrare l’impresa dell’eroe che consegue i suoi obiettivi, passando attraverso peripezie, sofferenze, rivoluzioni popolari, ricongiunzioni patetiche.
La ricostruzione, da noi fatta, è una risultanza di una ricerca al fine di mettere in chiaro non solo i ruoli dei duces ma anche le finalità degli scrittori antichi, ormai allineati secondo l’ideologia imposta da Ottaviano, come pax augusta nell’ ecumene e come ordine erodiano connesso con lo ius imperiale, vigente per tutte le partes dell’impero, compresa la Giudea.
In questo lavoro, dunque, sono messi insieme la vicenda di un dux vincitore dei nemici stranieri, barbaroi– anche se sono più ellenizzati dei romani occidentali gallo-ispanici ed italici- nel corso di poco più di diciotto mesi, in diversi contesti geografici con grandi masse di militari spostate tra la primavera del 39 e il giugno del 38, battaglia di Gindaro e quella di un condottiero ebraico che, tornato in patria, salva la sua famiglia, conquista un regno, datogli dal senato sulla carta, nominalmente, a Roma, alla fine dell’anno 40 a.C.
La fuga di Erode e il suo viaggio a Roma per anni sono stati per me un problema non solo per la definizione del percorso, delle vie terrestri e dei tragitti navali, ma anche per i rapporti tra il dux dell’impresa parthica e le peripezie di un civis giudaico fuggiasco, bisognoso di essere reintegrato in relazione della sua precedente identità, come filoromano figlio di Antipatro, nella sua zona di potere.
Sulla base concreta della traduzione del testo di Antichità giudaica, man mano si è rilevato e il sistema viario e quello commerciale e quello monetario, utilizzato dal civis giudaico, all’epoca dei fatti, congiunto con le indicazioni provenienti dallo studio, contemporaneo, su Filone di Alessandria, in un viaggio così lungo per un uomo in fuga dalla patria, che deve uscire indenne dal confine romano, invaso, entrare in area egizia e in pieno inverno, a mare chiuso, iniziare una navigazione proibitiva, arrivare in Italia e fare la Via Appia ed infine essere ricevuto in senato e dopo sette giorni ripartire per ritornare a liberare i suoi assediati a Masada dai nemici esterni e da quelli interni. Da Filone (30-25 a.C.-42-3 d.C) ho avuto illuminazioni circa il politeuma alessandrino, circa il sistema economico–finanziario, l’organizzazione specifica di quello oniade ed ho potuto risolvere tanti altri problemi.
Il racconto, comunque, sembra la favola di Erode fuggiasco, che, ottenuto il titolo nominale di re, con audacia e fortuna impone, grazie all’ aiuto romano, dato del senato, nella sua patria popolata di filoparthi.
Il racconto è un‘epopea in cui sono fusi encomio e prosopopea con apologia al fine di alonare un civis, divenuto Basileus, per meriti propri e familiari, con l’approvazione senatoria e triumvirale.
Nella favola/muthos, dunque, si deve aggiungere l’aiuto americano dei romani che, come soccorso divino provvidenziale, sovverte i valori, abbassando i potenti ed innalzando i deboli, dopo la vittoria sui parthi, come trionfo della Iustitia!.
Quindi, ritrovave la vera storia è rilevare nella politica romana la funzione dei piccoli regni tra impero romano ed impero partho, il valore effettivo del legatus romano e del suo consilium principis sia nei rapporti con i re della zona compresa tra il Ponto Eusino e il Mar Caspio cioè con gli stati di Colchide, Iberia, Albania, Armenia, oltre che di Cappadocia, Ponto, Cilicia, insomma degli stati più o meno toccati dall’invasione parthica: un lavoro, dunque, che interessa la pars romana asiatica, siriaca e palestinese e quella direi barbarica, in quanto non ancora del tutto assoggettata dalle milizie romane che hanno imposto reguli locali di nomina senatoria.
E di conseguenza, così operando, mi è stato possibile mettere in chiaro il rapporto subordinato di un vice legatus come Poppedio Silone, la cui auctoritas è superiore a quella del Re nominato dal senato stesso, anche se appoggiato e sostenuto dalle armi romane. Allora si comprende come la lotta per il primato in Giudea tra Antigono di Aristobulo ed Erode è una contesa intestina che dipende dalla vittoria tra i parthi e i romani, ma è la stessa tra Aristobulo ed Hircano.
Prima c’erano Pompeo e Cesare e Gabinio ora ci sono Antonio Ventidio e Silone a proteggere la pars più debole militarmente filoromana contro quella aramaica predominante sadducea durante l’invasione parthica favorita anche dai farisei dagli esseni, dal popolo compattamente.
Quindi Flavio, facendo storia, fa una storia nazionalistica palese in Guerra Giudaica I, 387, quando Erode nel 31 dopo Azio è incerto sul suo futuro a causa della sconfitta di Antonio. Lo storico dice: Pareikhen mentoi deous pleon h epaschen/eppure incuteva più timori di quelli che provava ed aggiunge sorprendentemente –assurdamente- Cesare non riteneva ancora di aver tolto di mezzo Antonio finché a costui rimaneva Erode.
Un’affermazione pazzesca!
Come mettere in rapporto (confronto, raffronto) Ottaviano dominus/autocratoor e un rex periferico che è in conflitto con altro re locale, quello di Petra, ora quando è venuta meno la sua autorità, perché è stato sconfitto il suo patronus?
Lo scrittore ebraico, traditore del suo popolo, fa questa affermazione in epoca Flavia, dopo che ha visto l’impresa di Vespasiano sooter venuto dall’Oriente, per la pacificazione del Mondo- acclamato imperator dai soldati di stanza in Egitto e Siria sotto la regia di Tiberio Alessandro e di Licinio Muciano, presso il quale l’ex governatore di Galilea è prigioniero ed interprete!
La fuga di Erode e questa frase (oupoo gar ealokenai Kaisar Antoonion ekrinen Herodou summénontos), specialmente sono spie di una narrazione non fedele, anacronistica, estremamente nazionalistica, come poi sarà quella dei Christianoi antiocheni- una setta ebraica-, dopo la sconfitta dl Shimon bar Kokba, quando finisce il sogno giudaico messianico con l’annientamento ad opera di Adriano.
Galuth vale cacciata con estirpazione dal territorio romano! Galuth non è diaspora, colonizzazione con dispersione del seme giudaico e nel mondo romano e in quello parthico e in quello indiano! Galuth è termine da studiare per lo storico, specie del cristianesimo primitivo.
Perciò ridimensionato il giudizio dello storico ebraico e rivista la narrazione di stampo ellenistica, prammatica, tesa all’ educazione popolare, a docere/ insegnare e al diletto del lettore, a delectare/piacere, bisogna concludere stabilendo un modo nuovo ed altri criteri valutativi storiografici.
Di conseguenza come non è possibile il rapporto tra Ottaviano ed Erode così neanche è pensabile quello tra Ventidio Basso e il re giudaico, specie nel periodo della fuga: neanche in retorica si congiungono, pur con l’ossimoro, magna/parva, altrimenti si produce lo spoudogelaion una combinazione di serio e ridicolo! Ventidio Basso, quindi, è un dux supremo delle truppe antipartiche che coordina le forze dei tanti reguli della zona e i loro auxilia, senza avere compiti di risoluzione del problema, ma solo di appoggiare la pars filoromana e di arginare il pericolo dell’invasione.
Poppedio Silone, popularis, che va contro le masse popolari giudaiche è un legatus sannita, dimentico della tradizione familiare italica sociale, integrato ormai nel sistema militare romano, che diventa arbitro della lotta per la supremazia in Giudea tra i due contendenti.
I due, comunque, sono uomini antoniani, certamente avidi come tutto gli altri romani, corrotti come ogni legatus fino ad allora passato in terra giudaica, che seguono il loro capo che li guida da Atene, conscio della loro corruzione e della loro avidità.
Quindi, la politica estera antiparthica e quella interna sono frutto di un’operazione antoniana di cui il legatus piceno e quello sannita risultano i risolutori , secondo la legge delle armi e delle stragi militari, adottate in situazione.
Alla luce di quanto maturato nel corso dei miei studi, indipendentemente dal lavoro di Alighiero Massimi, storico, autore di Vendidio Basso (Ed Cesari, Ascoli, 1986), aggiungo la mia esperienza in senso trapezitario e commerciale, sugli oniadi alessandrini, come ampliamento e contestualizzazione all’ opera filoniana, già espressa in altre opere: è un piccolo contributo alla cultura!
Ai tanti storici letterati, come Massimi stesso, che non riescono a capire come Erode sia sempre pieno di moneta, preciso quanto da me rilevato nell’esame dell’ebreo ellenistico trapeziths, methorios, naurchos, emporos, sul valore immenso del gazophulakion templare.
Allora si può mettere in evidenza come Erode maneggi sempre denaro ed intendere la rete finanziaria e commerciale da cui è protetto nel corso della sua fuga avventurosa, di cui si è servito suo padre Antipatro e perfino lo stesso Cesare nella guerra alessandrina.
E’ anche possibile dare razionali spiegazioni alla perplessità di tanti illustri storici tedeschi come Otto (op.cit) , Prause (op.cit.) e Schreckemberg (Die Flavius – Josephus- Tradition in Antike und Mittelalter, Leiden 1972), titubanti nel credere alle azioni di Erode fuggiasco a Rodi e sconfessare la tesi di S. Mazzarino (Il pensiero storico Classico,II,2) – in seguito- nella scelta christiana di Flavio storico.
Chi di voi lettori può pensare che un civis romano è una specie di signore/ Kurios in Oriente, anche se idiooths, il quale, oltre al possesso della khoora giudaica ha un potere da despothes, se ha la finanza e l’oikonomia dell’alabarca di Egitto al suo servizio? Stabilire le funzioni e i compiti dell’alabarca di Alessandria in epoca erodiana e posterodiana è stato per me un lavoro mostruoso, connesso con le relazioni con gli argentariii, i mensarii e i nummularii latini prima e poi col tempio di Leontopoli e di Gerusalemme, ma è stato ancora più duro anche calcolare il patrimonio di Gaio Cesare Germanico Caligola con l’eredità di Tiberio, mista a quella antoniana della linea di Antonia minor, di cui therapeuoon ed epitropos è Alessandro alabarca, padre di Tiberio Alessandro, governatore di Egitto, colui che con Licinio Muciano per primo acclama imperatore il mulattiere Vespasiano (A. Filipponi, Caligola il sublime, Cattedrale 2008).
Chi mai nel corso dei secoli ha ragionato secondo una logica trapezitaria e commerciale di sostegno alla regalità del sovrano di Giudea?
Nemmeno un maestro come lo storico A. Momigliano (Asinio Pollione,in Enc. Ital., XXVII (1935) o come J Carcopino (Giulio Cesare, Milano, 1982)!: lo stesso Levi (op.cit.) non ha operato in questo senso, preferendo lavorare sul sistema finanziario economico latino!
Chi può capire il valore di mammona, se non ha fatto la distinzione tra il potere aramaico, barbarico, agricolo di Malkuth ha shamaim /H Basileia toon ouranoon, e quello commerciale ellenistico,sotteso a H basileia tou Teou?
Solo chi conosce l’ellenizzazione e romanizzazione del potere erodiano e la connessione profonda col sistema oniade alessandrino, può vedere un servitium capillare economico finanziario sotteso alla basileia erodiana, utile per l’oikonomia universale?!
Forse! solo se si rileva questo connubio economico tra Roma e Gerusalemme, è possibile leggere la predilezione degli imperatores, interessati alla Iudaea e a chi la gestisce, dato l’immenso profitto templare e trapezitario.
Da questa angolazione si comprende allora il reale valore, –data la congiunzione del tempio di Gerusalemme, simbolo unitario di una fides agricola tradizionale e di quella ellenistica della diaspora – del Regno giudaico, costituito in epoca antoniana e poi augustea.
Oltre a questo, si può scoprire che non si tratta di un piccolo popolo in un piccolo territorio, ma di un grande popolo, sparso nel mondo romano e parthico (per non parlare in terre estreme come India ed Indonesia) di oltre 4.500.000 di uomini methoroi, abili trapezitai, cambavaluta, saggiatori, esperti uomini di finanza che dominano il bacino del Mediterraneo, quello del Ponto Eusino e del Mar Caspio, di armatori/nauarchoi che dominano il porto di Alessandria, di Efeso, di Corinto ecc., oltre che le bocche nilotiche per la penetrazione in Arabia, in India e nell’interno dell’Africa, non ellenizzata e non romanizzata.
Non si può leggere l’avventura della fuga secondo la scrittura di un autore che romanza la vicenda del fuggiasco, immettendo tutti gli elementi utili alla formazione e al diletto del lettore, abituato alla storia come opus letterario.
Dunque, Erode è un civis bisognoso di aiuto già in Giudea, nella sua zona di competenza, limitato militarmente, vinto dagli aramaici e dai parthi, incapace di muoversi senza l’appoggio di reparti romani, dati su richiesta da un incaricato da Ventidio Basso, che deve poi rispondere insieme al suo concilium principis al triumviro di ogni sua azione, specie quando va oltre il mandato, sulla scia delle vittorie.
Nella logica senatoria romana il caso sfortunato di Erode diventa segno della necessitas di una nuova politica senza legati romani in Giudea, fiduciosa solo nel governo di un re autoctono capace di riunificare il popolo, seppure così riottoso ed opposto in senso aramaico e farlo crescere per una possibile integrazione dopo quasi venti anni dalla conquista iniziale del Tempio da parte di Pompeo, obbligato ad essere rispettoso solo della prescrizione mosaica e della tradizione davidica del culto templare. L’elezione di Erode a re, un mezzo idumeo- arabo, comunque, di antica tradizione mesopotamica ebraica, seppure non legittima, data la presenza degli asmonei, è garanzia di una stabilizzazione della zona – che mai in seguito ci sarà- nonostante la propaganda filoromana di liberazione dai parthi e i successivi cambi di politeia/ costituzione.
Anche se il re è stato un filocassiano, facente parte della cohors del consilium principis del Cesaricida, come Valerio Messalla, comunque passati ad Antonio, ora congiunto anche con Ottaviano, è chiaramente un filoromano, in quanto figlio di Antipatro, un civis arruolato come legatus da Gabinio e da Cesare, un perfetto romanizzato, militare eccezionale di stampo mariano, connesso con Hircano, l’emblema del sacerdozio e del culto del Tempio, legge vivente spirituale per ebrei palestinesi, aramaici ed ellenistici.
Accanto a questa nuova lettura storica c’è un’altra ancora più grande, quella revisionistica della storia romana -vista dall’angolazione giudaica- e della sua reale politica in Oriente, che risulta un lavoro di falsificazione della stessa storiografia augustea di Didimo Arieo, di Livio, di Dioniso di Alicarnasso di Nicola di Damasco, scritta in senso universale catolikoos.
Ricercare il reale ruolo in un impero di dimensioni gigantesche di un despoths locale, che non ha neanche il diritto di battere moneta e di fare guerra ad un vicino regulo, senza autorizzazione senatoria ed imperiale è trovare un’oggettiva ragione per un monarca assoluto come Ottaviano, un o politikos eccezionale, ma ancora di più, scaltro mensarius ed abile nummularius, un geniale riformatore, comunque amorale, al di sopra del diritto stesso, capace per il proprio interesse, di conservare il regno ad un uccisore di figli, da lui apertamente dileggiato secondo Macrobio (Saturnalia, 2,4,11: meglio essere figlio di porco che figlio di Erode!).
Ad Ottaviano Augusto interessa Il grande profitto finanziario ed economico che Erode può assicurare all’impero, con la gestione del Tempio, che riscuote la doppia dracma da oltre 4.500.000 di giudei aramaici ed ellenistici, oltre agli introiti delle elemosine, delle offerte durante le celebrazioni delle feste rituali!
Ottaviano il nummularius fa subito i conti: finché Erode assicura il kerdos, la Iudaea ha la monarchia; ogni costituzione altrimenti dovrà essere provata al fine della conservazione immutata del profitto romano templare.
Avendo, dunque, scritto Giudaismo romano ed avendo bene compreso il valore del tempio e del gazophulaion, ho cercato di capire il potere di un civis orientale a Roma e in Italia, rispetto al senato e alla magistratura repubblicana, ora servile, e poi avendo pubblicato vari testi sul Cristianesimo ed essendo letto da uno studioso serio come il preside Alighiero Massimi, abile nelle sintesi storiche, filologo e glottologo, metricologo, un uomo di altra cultura rispetto alla media nazionale ed internazionale, aperto ad ogni problematica, mi si è ulteriormente precisato il ruolo di molto superiore di un legatus rispetto ad un rex come Erode del tipo di Deiotaro, Ariarate/Archelao, Polemone, Antioco ed altri dinasti, formanti la rete di reguli antiparthici, a capriccio dei romani nominati e deposti.
Un grazie immenso alla memoria di Massimi, da parte di un ricercatore riconoscente e grato per gli stimoli ricevuti nel corso di conversazioni amichevoli!
Una riconoscenza sincera verso un uomo libero ed amante del sapere!: c’è stato col maestro di generazioni di ascolani un legame non di alunno, ma di figlio, seppure per breve tempo (gli ultimi dieci anni), ascoltato, però, con rispetto e stima,- reciproci- in un vero rapporto culturale, in una comunicazione di altri tempi.
Anzi ho potuto rilevare esattamente, grazie all’acutezza delle sue riflessioni, il valore di un mandato senatorio, che può essere in un certo senso allargato a discrezione del legatus, che agisce in situazione e poi risponde dei suoi atti al suo ritorno in patria, secondo l’esempio collaudato di Silla, di Lucullo, di Pompeo, di Gabinio, di Cesare, nipote di Mario da cui inizia il processo di graduale distruzione del potere repubblicano nobiliare, su base militare e popolare.
Ho così letto il mandato di Ventidio Basso che controlla i reges locali, ne condiziona la politica, perché considerati alla pari di un civis romano orientale, il quale può avere greges di publicani, arruolare milites, quasi da esercitare in piccolo un potere censorio e pretorio, ed ottenere il supporto dal governatore della zona in ogni evenienza, purché paghi le tasse e sia fidus alla normativa senatoria.
Nel corso di tanti anni, spesi nella ricerca della presenza romana in zone orientali, specie nel tentativo di comprendere il ruolo del civis Paulus di Tarso, ho potuto anche conoscere le funzioni e le possibilità operative di Herodhs poliths, specie nel periodo dell’invasione parthica e della successiva sua nomina di Basileus, epoca in cui il figlio di Antipatro è l’unico referente di una comunitas, famiglia. tribus e genos idumea.
Il suo ruolo è messo in relazione con quello di Deitaro re di Galazia dal 63 al 41, che, passato attraverso varie vicende – tra cui quella della morte di Cesare contro il quale, secondo molti, ha cospirato, dopo che ha avuto una decurtazione di territorio inizialmente lasciatogli integro dal dictator a Zela (Cfr. Cicerone Pro rege Diotaro).
Ancora di più è confrontato con quello di Ariarate di Cappadocia, sostituito da Antonio con Archelao- divenuto poi consuocero di Erode dopo il matrimonio tra Glafira ed Alessandro, figlio di Mariamne- che, comunque, ha diritto di monetazione in quanto erede di famiglia regale.
Sono stati studiati i reguli orientali come esempi per mostrare ai miei lettori il reale valore della figura di Erode, piccolo dinasta ebreo rispetto al grande impero romano.
Infine si fa notare che la fonte giudaica esagera anche perché vuole presentarsi davanti agli altri popoli con meriti che oggettivamente l’ebraismo non ha, al di là del patrimonio finanziario e nonostante la grandezza commerciale e coloniale.
Per me il problema è solo nella sede geografica dello stato di Giudea, il cui rilievo nell’impero romano è minimo senza il tesoro del tempio, fonte di ricchezza inestimabile grazie al culto divino, ai sacrifici e alle festività obbligatorie per ogni ebreo della diaspora, già tenuto a pagare, oltre alle tasse, la doppia dracma per il tempio e ad andare a visitare annualmente il Santuario.
La ragnatela delle colonie della diaspora ellenistica ebraica, diffusa non solo nell’impero romano ma anche in quello parthico e in India e altrove, nell’Oceano indiano, è da leggere in relazione al politeuma alessandrino, una particolare politeia concordata con Cesare, in una ripresa della costituzione ebraica autonoma alessandrina voluta dai lagidi, che regola non solo i giudei egizi (un milione; di cui 500000 in Alessandria) ma anche gli altri di tutto il mondo sia romano che parthico, in una specifica connessione con i fratelli aramaici sia di Palestina che di Parthia.
Ora con questo libro su Erode Basileus forse aggiungo qualcosa a quanto già detto e presento un’altra lettura del fenomeno ebraico in epoca romana.
Dunque, Ventidio Basso, secondo lo storico Massimi risulta un “pratico” sia per cultura che per temperamento. Egli rappresentava … gli interessi della borghesia italica che aspirava apertamente ormai solo ad essere difesa nelle sue posizioni economiche ma anche ad essere riconosciuta come una delle riserve ufficiali della nuova classe dirigente dell’impero. Egli avrebbe potuto quindi condividere in pieno per poi sfruttare convenientemente l’iniziativa di Lucio Antonio, cercando in tal modo di salvare i prorietari terrieri dalla confisaca dei campi e di fermare l’ascesa do Ottaviano. Ma in primo luogo doveva rendersi conto che i veterani non potevano essere accontentati senza che si rischiasse una sommossa dagli esiti imprevedibili, in secondo luogo che la stella di Antonio splendeva sempre meno in Italia (P Ventidio Basso,cit. p.77).
Secondo lo storico ascolano, perciò, Ventidio non si compromette con Lucio, essendo anche in gara con l’azione di Asinio Pollione per polarizzare le simpatie degli antoniani delusi e dei cesariani incerti.
Massimi aggiunge che anche Sallustio ritiene che con la diadochizzazione di Antonio solo Ventidio poteva avere l’ambizione di realizzare il programma di Cesare consistente nella municipalizzazione dell’Italia e nell’assicurazione dei confini orientali dell’impero.
La conclusione dello storico è connessa con quella di S. Mazzarino (L’impero romano, Bari 1973): Questa politica …doveva ricercare la conciliazione all’interno dell’Italia, in funzione della lotta contro i nemici esterni, restaurando la virtus tradizionale, in una difficile prova di sintesi tra imperialismo e morale, tra guerra di conquista e indifferenza di fronte alle ricchezze depredate … l’unico rimedio consisteva nel rinnovare la classe dirigente e nell’estendere la cittadinanza romana, costituendo poi colonie coi nuovi cittadini mescolati agli antichi. I nuovi cittadini erano la vigorosa borghesia del mondo italico che ormai aveva rimarginato le ferite della guerra sociale.
Al di là, comunque, della condanna della società repubblicana romana, della decadenza dell’aristocrazia, l’ex mulattiere, il cesariano Ventidio popularis, avrebbe potuto sovvertire, più di Antonio e di Ottaviano le regole sociali e politiche del potere solo nella direzione poi presa da Ottaviano che secondo il patrimonio ideologico tradizionale e la formazione del latifondo, in una conversione dell’avaritia con la virtus, in un ripristino dei mores maiorum in un abbattimento della nobilitas logorata dal potere politico stesso e corrotta dalla propria ambitio!.
Ventidio Basso col il suo consilum principis, che ha a capo Poppedio Silone, figlio del condottiero della lega italica, nella guerra sociale, è un piceno integrato ora nel sistema romano e guida un grande esercito sotto la direzione di un cesariano, come lui, popularis, per la riconquista dell’Asia, della Siria, della Palestina, delle terre già acquisite come patrimonio dell’imperium da un ventennio.
Sbarcato tra la Panfilia e la Cilicia nella primavera del 39 a.C. Ventidio si dirige subito con cautela massima (cfr.Astutie militari di Sesto Iulio Frontino, huomo consolare, di tutti li famosi et eccellenti capitani romani, greci, barbari, et hesterni, Traduzione di Fr. Luci, Venezia, per Giovan’ Antonio di Nicolini da Sabio, 1536), verso la pianura cilicia, anche se l’esercito parthico ha già preso possesso del Tauro, del passo tra le due province romane.
Ormai la propaganda parthica ha avuto il sopravvento e Pacoro con la sua praooths e philantroopia ha conquistato i greci e in Palestina ormai l’aramaismo trionfa incontrastato dopo che la Galilea si è liberata degli antipatridi, che hanno solo il possesso, a stento, dell’Idumea.
A Gerusalemme dove si è insediato Antigono con le forze di Barzafarne c con l’aiuto della cavalleria del coppiere, non esistono neanche più frange di filoromani.
L’elemento farisaico e quello essenico e popolare è ormai contro gli antipatridi e contro Hircano e contro i romani
Insomma, tutto il territorio asiatico siriaco e palestinese è sotto il controllo parthico, non solo militarmente ma anche culturalmente in quanto ormai le città stesse ritrovano la loro radice seleucide ed achemenide.
I parthi, però, non avendo una flotta e non avendo il supporto di nessuna città marittima, sono praticamente chiusi e bloccati dagli ammiragli romani che stazionano davanti alle coste con le loro navi pronti a sbarcare eserciti e a penetrare verso l’interno della Siria.
E’ facile, quindi, per Ventidio sbarcare, e ricacciare i Parthi sia del satrapo Barzafarne- così chiamato in Antichità Giudaica mentre è detto Barzafrane in Guerra Giudaica), che del romano Quinto Labieno, che da oltre due anni è al servizio del re dei re, impossibilitato a tornare tra i suoi dopo la sconfitta di Cassio e il trionfo di Antonio e di Ottaviano.
In conclusione si può dire che in Giudea, al momento dello sbarco di Ventidio Basso, la pars di Elice connessa coi farisei e con la fazione dei sadducei asmonei, forma lo schieramento di Antigono, che ha anche l’aiuto delle truppe parthe di Barzafarne, mentre l’altra ora senza Hircano, mutilato e deportato e senza Erode, in fuga, dopo la morte di Fasael, non ha forze militari ma solo un piccolo nucleo asserragliato a Masada, assediato, senza acqua e senza più viveri.
La propaganda filopartha ha vinto non solo in Giudea e in Celesiria ma anche in Siria e in Asia, dove Pacoro è considerato principe liberatore dal giogo romano e dove circolano tra i cives romani anche biblia volantini diffusi da Labieno per rivendicare la sua azione di uomo, di cesaricida e di pompeiano e di repubblicano, antitriumviro.
La politica di Orode II è stata vincente sia nell’appoggio dato ai cesaricidi che nel accogliere i fuggiaschi disertori subito dopo Filippi: il tradimento dei romani e di Quinto Labieno è sfruttato come cambio di mentalità degli asiatici che riconoscono la clemenza e la filantropia del Gran Re, garanzia comune di giustizia per gli aramaici e per i greci.
La Nike/Vittoria di Labieno sul legatus antoniano Decidio Saxa, che non può impedire la presa di Apamea e si uccide, diventa simbolo della protezione del Theos, che autorizza la celebrazione del Parthicus Imperator, il tradimento di Ariarate di Cappadocia e di Antioco di Commagene: solo Castore di Galazia e Zenone e suo figlio Polemone restano filoromani. A Roma si teme un bagno di sangue in Asia per i cives romani e per gli italici come nell’88 sotto Mitridate (cfr Cicerone, De Lege Manilia,7; Appiano, Mitridateios, XII, 22-23). Per fortuna la propaganda filantropica basata sulla clemenza e giustizia di Pacoro non scatena le folle aramaiche e greche antiromane.
Tutta l’Asia, comunque, è passata dalla celebrazione di Roma e di Antonio Neos Duonisos al saluto entusiastico verso l’esercito parthico, guidato dal pompeiano Quinto Labieno, despoths, che governa come un satrapo, a nome di Orode II, che batte moneta propria e che nel retto fa scolpire la sua faccia e nel retro un cavallo sellato.
Laodicea, Mylasa e tante altre città acclamano l’avvento del Regno dei Parthi, esprimendo con l’entusiastico saluto alla cavalleria partha, il disgusto per il cattivo governo di Roma nel periodo postpompeiano.
In Giudea sembra scomparsa la costituzione voluta da Cesare a favore di Hircano, espressione sacerdotale dell’unità ebraica nel mondo romano e parthico, che assicura la regolarità del culto del tempio e di Gerusalemme, il cuore della nazione, l’anello di congiunzione tra Dio e il suo popolo eletto.