PATER e il primo cristianesimo
Leggere è un complesso lavoro in cui si prende in esame un testo ( o una porzione di esso) codificato, si segue la codificazione scritta si cerca di comprendere la logica di costruzione testuale.
E’ quindi una operazione di raccolta per cui dapprima si legge la scrittura codificata in quanto si conosce quel codice e si comprende la semantizzazione in atto nel testo, grazie al rapporto interattivo fra grafemi e lessemi, che costituiscono la forma testuale, alla disposizione ordinata e convenzionale, comune tra emittente e destinatario, in un rimando immediato ad un semema che dà i contenuti secondo la convenzionalità linguistica,
Leggere è misurare la divisione del sistema formale e contenutistico in strutture formali significative, secondo una funzionalità discorsiva, sulla base e delle unità fonetiche e di quelle morfematiche e sintagmatiche per arrivare ad una pertinenza conclusiva che è una risultanza di un graduale processo di coerenza associativa sul piano della forma e del contenuto.
Ne consegue che la lettura di un pur minimo enunciato comporti una ricostruzione della situazione, che ha necessariamente determinato quel gruppo di parole, che esprimono in un dato momento e in un preciso luogo, il pensiero di un comunicante, dotato di una formazione letteraria e culturale, che interagisce con la cultura del destinatario, il quale partecipa alla comunicazione in modo più o meno paritario sul piano formativo.
Leggere è, dunque, valutare un sistema e la sua struttura, in un’ operazione decisionale, non limitante la significazione, ai soli significanti, ma includente l’area dei significati, nella coscienza che la connotazione semantica costituisce l’ideologia della società, in cui c’è la produzione letteraria.
Leggere comporta e sottende azioni tipiche della docimologia.
La massima difficoltà è situare l’opera nel complesso contesto semiologico, dove la singola produzione, considerata come un sistema di significazione (esaminato nelle sue parti costitutive, in relazione alle diverse strutture letterarie e in rapporto alla varietà dei linguaggi, di codici e sottocodici linguistici storici culturali retorici, interattivi) venga rilevata connotativamente sulla base di referenze specifiche esemplari.
La valutazione globale sul Pater hmon matteano e su Pater lucano è una neutra risultanza di un lavoro strutturale che rimanda ad un sistema di semantizzazione di scrittori che scrivono per un destinatario, che sicuramente ha possibilità di comprensione in quanto uomo della stessa cultura, fornito della stessa lingua di base, abile nel processo di decodificazione, capace sul piano denotativo e connotativo, in quella determinata situazione linguistica, avendo ambedue i modelli di riferimenti identici sia aramaici (sottesi) che greci.
Chiaramente lo scrittore di lingua greca, Matteo, che ha come referente la musar aramaica, il sistema agricolo e che si rivolge a destinatari agricoli, seppure ellenizzati, ha un sistema di significante differente rispetto a Luca che scrive solo per giudei greci, che hanno anche il sistema educativo della paideia ed una conformazione strutturale commerciale in quanto diversa è la pratica di vita, anche se comune è la Legge, differenziata da una varietà di interpretazioni, data la diversità di codice biblico, quello masoretico e quello dei Settanta: Matteo infatti si riferisce al Malkuth ha shemaim ( H basileia ton ouranon), Luca invece a H Basileia tou Theou.
Perciò se viene fissata la differenza tra lingua poetica (lingua della comunicazione) e lingua individuale (per stabilire che il linguaggio poetico in senso sincronico, è produzione individuale artistica, che si esplica nella langue di un popolo anche se in relazione ad un sistema tradizionale poetico specifico) l’opera letteraria risulta una tipica espressione di uno scrittore, che è fornito di uno stile tale da differenziarsi da ogni altro, poiché capace di fare scarti linguistici e salti intuitivi rispetto alla normalità della ridondanza poetica del tempo.
La produzione letteraria è manifestazione della tipicità personale di un autore non solo come parole e quindi come struttura lessicale morfosintattica e retorica, ma anche come sistema di riferimento specifico superante la logica contemporanea, essendo scrittore proiettato verso posizioni futuribili, visioni non ancora definite, ma già configurate.
La peculiarità espressiva, unita alla tipicità culturale, costituisce quella poetica personale per cui ad un dato sistema lessicale, morfosintattico e retorico corrisponde uno dato su tema personalizzato, diversificato da quella cultura del momento storico in cui vive l’emittente.
Ne deriva che la valutazione (cioè il grado di acquisizione culturale e letteraria raggiunta dalla struttura) risulta un’operazione difficile perché sottende un complesso gioco di ricostruzioni parziali strutturali e sistemiche secondo letture trasversali autorizzate dalle tecniche linguistiche specialistiche (filologia, semantica, etimologia ecc) oltre che dalla sociologia, da economia, da diritto, da storia (a seconda della loro area specifica) e dalla visione d’insieme risultante.
Il pater si ritiene che sia una preghiera insegnata da Gesù, su richiesta dei discepoli, desiderosi di un nuova forma.
Ora leggere il padre nostro presenta un’ infinità di rischi e di difficoltà perché, pur essendo stato pronunciato (se è stato pronunciato?!) in aramaico, in una data situazione storicamente specifica degli ultimi anni dell’impero di Tiberio, in un dato ambiente e in una precisa situazione nazionalistica e zelotica per un gruppo di discepoli, capaci di intendere esattamente quelle parole quel messaggio di Gesù (Jehoshua ). che bandiva il Malkuth ha shemaim, considerato vicino, viene poi successivamente riletto in altro codice linguistico in altra situazione in altro momento storico da altri che hanno fatto esperienza negativa dell’impresa zelotica antiromana, culminata con la distruzione del Tempio stesso (forse anche della guerra di Kitos e dell’impresa di Shimon Bar Kokba).
Noi ora abbiamo così due codici che si rifanno allo stesso codice e lo rileggono in modo diverso in relazione alle nuove ideologie, successive alla distruzione del Tempio da parte di uomini di due diversi schieramenti, irriducibili antiromani i primi e accomodanti negotiatores i secondi.
Perciò le comuni referenze si diversificano e diventano ambigue ed equivoche.
Ora se quel pater è stato insegnato da Jehoshua a Zeloti che in quella preghiera vedevano la loro tipica azione militare (cfr Cosa sottende Malkuth?), sentendosi elementi scelti destinati come resto di Israele combattente in quanto già uomini abituati allo stile del loro capo e alla sua poetica, esso veniva successivamente snaturato da altri che lo recitavano a distanza di anni, mandando un messaggio spirituale di un Christos morto e risorto per creare una nuova comunità, quella del Regno di Dio, in modo da poter sopravvivere come cives nel sistema romano, in un tentativo sincretico di giudaismo e cultura ellenistica.
Quindi uno è il significato del pater iniziale, uno è quello del pater successivo: uno è collegato con Amen (acrostico che significa nel complesso delle sue parti costitutive sono fedele al Regno e a Dio cfr. La lunga lunghissima storia di Amen)
Il pater invia dunque due messaggi opposti perché il testo originario (sempre se fu mandato!) era significativo in quel contesto e con quei destinatari, l’altro inviato a distanza di anni, dopo due o tre o più generazioni, in altri ambienti non palestinesi in altra situazione, diventa strumentale per la diffusione del cristianesimo in relazione ad una visione già Trinitaria di Dio,non più monarchiana, in momenti storici, in cui si verifica la netta separazione tra Giudaismo e Cristianesimo, considerata la persecuzione ininterrotta per il primo e la tolleranza imperiale romana per il secondo.
Ora noi non abbiamo la possibilità effettiva di capire neppure se quel testo originario ci fu, nonostante alcune testimonianze storiche: infatti il testo dei due evangelisti sottende un altro testo, che era frutto di una (forse!) comunicazione immediata, caso mai, e quindi significava l’arte del parlare quotidiano, intesa come tecnica di disposizione di serie di fonazioni che dall’emittente arrivano all’altro che ascolta, dislocato nelle vicinanze, che è in grado di leggere, data la prossimità, la mimica facciale, la postura, i gesti di accompagnamenti, segnali di vario genere che costituivano già un linguaggio a sé stante (che può chiarire un particolare soggetto di riferimento espresso linguisticamente, evocante un’immagine cognitiva comune ad individui appartenenti alla stessa cultura, cementati da cameratismo militare).
Inoltre tale paralinguaggio sottende un flusso discorsivo, segnato da unità sintattiche consuete, marcate tramite cambiamenti di intensità di voce, di pause di vocalizzazione, di mutazioni posturali, a seconda dei modelli soprasegmentali.
Perciò si ritiene che il comportamento che segna il linguaggio udibile e visibile dall’ascoltatore, che segue le segmentazioni dei suoi e mantiene il proprio orientamento è tale che la locuzione puntuale viene fatta con una proiezione vocalica adatta alla distanza.
Ora nel caso di Cristo parlante ( se è vero!) il suo carisma messianico sicuramente impone un rapporto empatico sulla base di semplici unità sintattiche, costituite da una gestalt, composta da unità sintattiche e da un insieme di comportamenti conosciuto contrassegnante, rappresentante un’idea: un insieme di termini e di azioni visive, trasmesso all’atto della formulazione di ogni enunciato in relazione alla parole e alla langue e al sistema comportamentale personale e comunitario: ogni tradizione possiede un mondo parola specifico e quindi con esso un repertorio di gesti e di disposizioni strutturali per la comunicazione di un significato.
Di conseguenza i membri di quella società comunicante quel messaggio ipso facto si capiscono specie in un rito o preghiera; anzi tale sistema locutorio e paralinguistico autorizza comprensione e perfino anticipazione del discorso utile ai fini della memoria.
Noi pensiamo che il padre nostro, così tramandato, non sia stato affatto insegnato da Gesù ebreo ai suoi discepoli, nella sua lotta antiromana e nella proclamazione del Malkuth ha shemaim, ma riteniamo che questa preghiera sia successiva alla fase del Regno di Dio di Antiochia e quindi divenuto discriminante nel corso dei vangeli canonici, secondo la nostra datazione fissata tra il 74 e il 94 d.C.
Noi sappiamo che un giudeo, prega obbligatoriamente tre volte al giorno, al mattino, (shaHrith),al pomeriggio (minHà), e a sera (‘arvith) e non comprendiamo allora come si possa chiedere “insegnaci, signore, a pregare”1.
Se la vita di un giudeo è tutta una preghiera, un’offerta al padre, una dedica del proprio lavoro, del proprio pensiero a Dio, rimaniamo sorpresi di fronte alla richiesta di una nuova preghiera.
Comunque, accettando l’idea di una nuova preghiera, in relazione alla predicazione del “ vangelo”, della buona novella della vicinanza del “Regno dei cieli”, rimaniamo stupiti di fronte alla tradizione greca di due “ PATER”, che si rifanno ad un “Abba” aramaico, la cui struttura di base, sembra potersi ricavare facilmente, da altre confessioni non cristiane e non cattoliche, derivate dalla stessa fonte2.
Il testo aramaico, al di là delle traslitterazioni , potrebbe essere il seguente ( Cfr. Jeremias J., Teologia del Nuovo Testamento, I ,La predicazione di Gesù, Brescia, 1976 )3.
Abba, jit qaddash shemak Padre, sia venerato come santo il tuo nome
Teté malkutak venga il tuo regno
Lahman Delimhar Il pane per il domani
Hab Lan Joma’den dà a noi quotidianamente
Usheboq Lan Hobain Condonaci i debiti
Kedish Baqman LeHaajjabain come noi li condoniamo ai debitori
Vela’ Taelinnan Lenisjon Non sperimentarci nella prova
Il pater di Matteo e quello di Luca, riportano la parola di Gesù in modo diverso, a seconda anche della successiva diffusione del “ cristianesimo”, in relazione ai due diversi fruitori culturali. uno propriamente palestinese ed uno, ellenistico, della diaspora; uno proprio dei seguaci del “Regno dei cieli”, più connessi con il giudaismo oltranzista, zelotico ed essenico, antisadduceo e antiromano, l’altro proprio del “Regno di Dio”, tipico di un giudaismo ellenizzato, urbano, specie antiocheno ed alessandrino, connesso con la cultura ellenistica giudaica, di cui Filone è il massimo rappresentante.4
Al di là della lettura, noi riteniamo che sul pater si sia combattuta una battaglia tra i diversi schieramenti, tra i seguaci di Gesù, subito dopo la morte di Agrippa I (44 d. C.), in un momento storico molto difficile per il giudaismo 5.
Il giudaismo del primo secolo era lacerato tra “i figli della luce” e “i figli delle tenebre “, tra gli zelanti della legge, aramaici integralisti nel loro tradizionalistico, rigido separatismo con gli altri popoli e i fautori ellenistici di una comunicazione, necessaria per una convivenza anche con le altre genti, accomunate dalla stessa cultura ellenistica e dal dominio romano, in ottemperanza alla Caritas della cultura mosaica 6.
La Iudaea è già ricaduta, dopo la breve parentesi nazionalistica di un re giudaico, (variamente interpretato), sotto il diretto governo romano, ed è vessata da rapaci procuratores intenti solo ad arricchirsi, sorvegliata dai governatori di Siria, vigili per le connessioni tra i giudei palestinesi e quelli transeufratici partici 7.
I prefetti di Giudea, specie Tiberio Alessandro e Felice, sostanzialmente giudaici, data la connessione con gli oniadi il primo e il secondo con l’ erodiana Drusilla, risultano nella loro azione ora repressivi ora solidali con gli elementi, popolari del malkuth, specie con Giacomo fratello di Gesù, la cui azione, già sostenuta da Agrippa I, noi abbiamo variamente spiegata in altre opere sia come sacerdote essenico che capo dei sicari 8.
I mezzi, comunque, tra le due comunità giudaiche, entro cui vive il proselitismo “cristiano”, sono opposti: le armi e la purificazione spirituale per i primi, che sono uomini preparati per la guerra da sacerdoti essenici , che predicano la venuta di unti del signore (uno laico, Christos, ed uno religioso, lo tzadiq stesso Giacomo) e che incitano ad una guerra (suicida) coi romani e con gli stessi fratelli che non si convertono in attesa della parousia di Gesù destinato a tornare per sterminare la bestia imperiale.
Le parole e l’esempio pratico per gli altri, che da secoli hanno accettato la vita tra i goyim, da cui vivono separati con leggi speciali sancite dall’imperium romano, secondo formule già fissate dai prostagmata lagidi 9.
I primi sono fanatici assertori della santità del popolo giudaico, unici figli di Dio, con cui hanno stabilito un rigido patto di fedeltà (cfr Regola della comunità, Regola della Guerra, Regola dell’assemblea e Documento di Damasco in L. Moraldi, I manoscritti del Qumran, Tea, 1995) organizzati in ecclesiai, secondo modelli essenico-terapeutici; i secondi, sparsi tra i vari popoli del Mediterraneo, commercianti, sono prosperati, dopo la grave crisi del regno di Gaio Caligola, grazie al loro lavoro, secondo la regola mosaica dell’euergesia e dell’aletheia, in una coscienza della tipicità e differenza nella molteplicità razziale e religiosa, e nella pace si sono di nuovo moltiplicati 10.
I pater esprimono forse questi due diversi mondi culturali viventi nelle stesse comunità giudaiche: uno prettamente agricolo e geloso della propria tradizione, cosciente solo della sua elezione da parte di un Dio padre, soter, vincitore, che invia di nuovo suo figlio, suo combattente, fedele e zelante nella sua legge; l’altro, ellenistico e commerciale, aperto e disponibile verso le altre culture depositarie di una sapienza razionale, specifica di uomini, da avviare verso la “conversione” mediante la parola e l’exemplum, da accettare come compagni di viaggio terreno, nella comune paternità divina, senza preclusioni , senza dogmatismi, senza privilegi, propri dei “santi di Dio”11
Il pater matteano, dunque, sottende nel suo insieme la cultura agricola palestinese o meglio sottendeva la cultura aramaica ed era una sua forma espressiva comportamentale tipicamente ebraica antiromana; quello lucano invece sottende la cultura ellenistica filoromana.
La situazione e il contesto del Pater nei Vangeli
Quel pater aramaico (pronunciato da Gesù?) con quella forma data dal maestro, con quel contenuto, con quella semantizzazione generale, è nostra intenzione ritrovare, sulla base delle due tradizioni, pervenuteci: noi siamo convinti che quella preghiera, se fu detta, sia come il manifesto di tutto il credo giudaico di una comunità di galilei, ancorati zelantemente alla legge mosaica e sia spia di un sistema attardato, proprio del Regno dei cieli, certamente diverso da quello del Regno di Dio12
Noi riteniamo che quel pater non fu detto se non nella formula generica aramaica di padre nostro in senso giudaico, di cui si lodano il nome innominabile (Shemak ) e la potenza, specie il malkuth (malkutak) come attuazione pratica del loro servizio.
E’ necessario però comprendere quando ci sia stata la doppia codificazione scritta greca, in relazione ad un unico testo aramaico e come si sia formata e quali forze o interessi l’abbiamo determinata 13.
La lunga pratica orale devozionale forse fissa la forma del pater in ambiente giudaico- cristiano, nella zona di Gerusalemme, dove i seguaci di Gesù ascoltano gli apostoli riuniti (At.2.41,47;4. 31-37;5: 12b-14), hanno un forte spirito di coesione interna sulla base dell’eleos (provvidenza a favore dei poveri e pasti in comune) e sono osservanti della legge14.
Questa fase comune è quella di Erode Agrippa I, in cui si volge il pontificato di Giacomo, che è rispettato e che diventa segno di giustizia ed è oblias e recabita,
Il sinedrio è però ostile alla comunità e lo stesso re Agrippa prende provvedimenti contro i fratelli del “regno dei cieli”(At. 8.1; 12. 1-24): la morte di Giacomo detto il maggiore e la carcerazione di Pietro Shimon sono segni di un dissenso tra il re e Giacomo il fratello di Gesù, oppure di torbidi all’interno di Gerusalemme a causa di lotte tra elementi aramaici ed elementi ellenistici di cui i figli di Zebedeo dovevano essere, con Shimon stesso, espressione.
Nella ecclesia (edath/la pars deliberante ) di Gerusalemme si rilevano già durante il regno di Agrippa I (37-41 tetrarca ; e per re della Giudea 41-44) contrasti tra due anime diverse, nate dalla diversa connotazione culturale dei discepoli: i giudei -ellenisti , nati in zone ellenizzate, provenienti da ogni parte del mondo, che vanno quasi annualmente a Gerusalemme, nelle ricche sinagoghe cittadine della propria patria, parlanti o solo il greco o sia l’aramaico che il greco; e gli ebrei nati in Palestina, parlanti solo aramaico, specie galilaici, idumei e ituraici, traconiti in genere connessi con gli adiabeni e mesopotamici (At.6. 1-6)16.
Gli ellenisti si distinguono “ per il servizio delle mense”e per “quello della parola”: essi sono superiori per ricchezza e per cultura e quindi emergono in mezzo alla comunità di nativi, di matrice agricola, anche se acculturati e di buona famiglia: sono costretti dopo la lapidazione di Stefano, abbandonati anche dai fratelli, attaccati dai giudei, ad emigrare in Samaria per la persecuzione di Shaul, giovane di Tarso, fariseo, della scuola di Gamaliel, espressione militare della forza del sinedrio, unita col potere romano(At.8,3), autorizzata da Agrippa, allora re dell’ex Tetrarchia di Filippo e di Lisania, patronus di Cilicia. 17.
La fortunata predicazione di Filippo (At. 8.4-13) in Samaria-Sebaste e l’invio da parte degli apostoli ( di Giacomo, fratello di Gesù, probabilmente ) di Shimon -Pietro e di Giovanni per conferire lo Spirito Santo (At. 8.14) sono indizi da una parte di un ravvicinamento tra la parte aramaica e quella ellenista e determinano, da un’altra, una svolta in senso ecumenico, sancita da Pietro con la conversione di Cornelio (At.11.19-30).18
Nel suo “giro” durato forse più di 10 anni ( non si esclude anche la sua presenza a Roma, al seguito di Cornelio già nel 44, nel periodo della carestia, forse anche per neutralizzare l’influenza di Simon Mago ) Pietro, dopo il suo miracoloso e propagandato imprigionamento, comincia ad aver un rilievo maggiore, in antagonismo con Giacomo.19
Nel frattempo la Chiesa di Gerusalemme, costituita essenzialmente di elementi giudaico-galilaico, aramaici, ha una codificazione scritta dei logia del signore da Matteo, operante tra i suoi connazionali secondo la testimonianza di Ireneo (Adv. Haer. 3.11) , di Eusebio ( Hist. Eccl. 3. 24-26) e di Clemente Alessandrino (Paedag. 2.1-36).20 La notizia ci è pervenuta tramite Papia, vescovo di Ierapoli, che intorno al 110 a. c., scrive un’opera in 5 libri “Esposizione dei Discorsi del Signore”, perduta , di cui però c’è traccia in un “ricordo”di Eusebio (Hist. Eccl. III, 39,16) ”Matteo raccolse le sentenze in lingua ebraica ed ognuno le traduceva come poteva”.21
La scrittura dei logia del signore è dunque fatta da Matteo, che coordina in una sistemazione ufficiale “i discorsi/le sentenze”in relazione alla cultura aramaica , probabilmente sotto il magistero di Giacomo, che ha sotto la persecuzione di Agrippa I sicuramente un grande potere, mantenuto del resto fino alla morte nel 62 ( Cfr. Eusebio, Hist. Eccl. II, 23)22
Matteo è l’evangelista che riporta la tradizione orale in quanto doveva essere un tachigrafo, come tutti i pubblicani, che si servivano di tale tecnica per la registrazione non solo del denaro versato, ma anche delle parole dei paganti 23.
Sappiamo che tale uso era normale anche in Palestina: esso era tipico di editori (come Nepote ed Attico ) di scrittori (Cicerone, Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane) e dello stesso S. Paolo, che se ne servono ed utilizzano schiavi o liberti, abili a stenografare.
In effetti l’uso di “stenografi”, antichissimo, è attestato nelle corti ellenistiche (Cfr.Lettera di Aristea a Filocrate) e perfino a Roma e al sanhedrin giudaico ed è volgarizzato dalle potenti compagnie di pubblicani (cfr. Plutarco, Catone, 23.5, che parla degli stenografi -tachigrafi e sembra riferirsi al sistema di Tirone, liberto di Cicerone).24
Il pubblicano Levi-Matteo, ellenizzato, può benissimo aver sfruttato questa competenza ed aver tachigrafato i logia del Signore, riportando fedelmente il suo parlato, trascrivendo le parole stesse dette da lui (specie nel periodo regale).
Il problema è piuttosto quello della durata della fase memoriale con la scarna trascrizione di Matteo e della successiva stesura di un protovangelo aramaico, come Bios di Cristo con fatti e parole ad opera di un giudeo, che conosce inoltre il sistema letterario greco e quello latino.25
Come giudeo, Matteo conosce il 2° libro dei Maccabei e quindi l’opera, oggi perduta di Giasone di Cirene, scrittore delle imprese e della vita di Giuda; come filoromano ha il modello delle Vite di Nepote: d’altra parte il genere del Bios domina nel I secolo d. C. con Plutarco, con Svetonio, in lingua greca e latina.26
Su modelli, quindi, ellenistici e latini Levi-Matteo può aver scritto, dopo una fase abbastanza lunga memoriale, il vangelo aramaico per gli utenti della comunità di Gerusalemme, che ha come suo legittimo capo Giacomo.27
In tale contesto aveva grande rilievo Teofilo (Ant. Giud. XVIII, 2 ), divenuto sommo sacerdote grazie a Vitellio ed Erode Antipa, al posto di suo fratello Gionata ( figlio di Anano I) cognato di Kaifas, che viene deposto da Agrippa I ( Ibidem, XIX 5), il cui figlio di nome Mattia, è sommo sacerdote al momento dello scoppio della guerra Giudaica.28
Teofilo è un sadduceo della famiglia anana, più ostile all’invadenza romana che filoromano, più succube del potere straniero che favorevole, col quale il pubblicano Matteo e il piissimo Giacomo , dovevano avere rapporti (imprecisati) e per il quale invece il medico Luca ha sicuramente una devozione speciale, se gli dedica Gli Atti degli Apostoli e Il Vangelo.29
Sembra che la scrittura greca dei testi possa essere compresa in un periodo che va dal 62, anno della morte di Giacomo ad opera del fratello minore di Teofilo, Anano II e della morte di Porcio Festo fino al 94, anno della pubblicazione di Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio 30.
Ma già ,nel 44, c’è una dispersione della Chiesa di Gerusalemme e quindi, della fuga di Matteo ad Antiochia, dove la comunità “christiana “ aveva assunto un chiaro carattere ellenistico 31.
Nell’ ambito di quella chiesa vive ancora un gruppo ristretto di seguaci galilaici , secondo Luca, che culla l’illusione del “regno dei Cieli” in senso aramaico, che tramonta con la distruzione di Gerusalemme, evento che pone fine all’attesa danielica secolare dell’instaurazione del “regno” , del trionfo della “giustizia” e del “Comunitarismo” , nuclei del vangelo greco di Matteo, copia probabile di quello aramaico, qualunque sia stata la sua datazione esatta 32.
La “chiesa” di Antiochia, anche prima della morte d Giacomo e, direi dalla sua prima costituzione aveva assunto una caratteristica ellenistica e quindi si differenziava nettamente da quella di Gerusalemme 33.
Antiochia è una grande città , sede del governatore di Siria, da secoli capitale, con più di 500000 abitanti, considerata la terza metropoli orientale dopo Alessandria ed Efeso, crocivia di importanti vie, che collegano Oriente ed Occidente.34
In una città così prestigiosa i giudei si erano stanziati da secoli e formavano una colonia numerosa di oltre 50,000 persone, che avevano numerose sinagoghe.
Ora, subito dopo la morte di Cristo, i seguaci di Cristo ad Antiochia si sono moltiplicati ad opera di convertiti siriaci , che avevano assistito alla morte di Stefano, e di portatori della buona novella provenienti da Cipro e da Cirene (At. 11.19-30).35
Intorno al 42 forse si aggiungono alcuni galilaici perseguitati da Agrippa I e lo stesso Barnaba, inviato a verificare la situazione Antiochena, da Giacomo (Ibidem,22)36
Barnaba contatta Paolo, a Tarso ed insieme con lui resta ad Antiochia per oltre un anno, svolgendo la sua missione catechetica: lì “per la prima volta i discepoli vengono chiamati cristiani” (Ibidem, 26).37
I contatti tra la chiesa madre di Gerusalemme e quella di Antiochia sono continui fino alla morte di Agrippa: viene inviato Agabo che rivela la prossima venuta di una carestia per tutto il mondo(Ibidem.28), che si verifica nel 44 sotto l’impero di Claudio.38
La Chiesa di Antiochia , ricca, dispone di aiutare i fratelli della Giudea, poveri, bisognosi di soccorsi: vengono inviate collette tramite Shaul e Barnaba (Ibidem, 30)39
Da Flavio sappiamo che Izate, re dell’Adiabene, invia sua madre Elena ed aiuti per la comunità di Gerusalemme (Ant. Giud. XX,3), in difficoltà, forse acuita dalla morte di Agrippa e dalla situazione verificatasi di guerriglia, dopo l’arrivo di Cuspio Fado, che ripristina il potere di Roma, che risulta formalmente accettato sotto Tiberio Alessandro, figlio di Alessandro Alabarca, alessandrino, militare di carriera di origini giudaiche, apostata.40
Sia Fado che Alessandro Tiberio “si astennero dall’interferire negli usi nazionali e mantennero il paese in pace” ( Guer, Giud. II.11,220), anche perché c’è un’assidua vigilanza del governatore di Siria, Cassio Longino e perché entra in vigore il decreto di Claudio che rinnova l’editto di Augusto e i prostagmata lagidi, mantenendone sostanzialmente il contenuto( Ant. Giud. XIX, 5): la frase implica un giudizio di un filoromano che ritiene normale amministrazione la caccia ai lestai e ai goetes, il ripristino dell’ordine in Giudea, turbato dagli zeloti 41
Sotto Cumano però “ricominciarono i disordini e si verificò una strage di Giudei” (Gur. Giud. II, 12,223) tanto da far intervenire il governatore di Siria, Ummidio Quadrato.42
Ora la Giudea, sconvolta, invia ad ondate,”galilaici” nella chiesa di Antiochia, che diventa una “succursale” di quella di Gerusalemme, tra il 40 e 50 ,(capace comunque di creare un gruppo dirigente a Roma) .(43)
La comunità antiochena, così aperta a tante influenze, accoglie elementi di varie etnie e in quel contesto cosmopolita Barnaba e Paolo iniziano una predicazione evangelica ai pagani, impostata in modo diverso da quella apostolica,giacobita, innovatrice, da una parte in quanto desiderosa di distaccarsi dalla legge mosaica e dall’altra, gelosa custode della tradizione “christiana”, sul piano della forma originaria, in quanto ancora legata alla lezione gerosolomitana, da cui dipende44.
Da qui i contrasti con la chiesa di Gerusalemme: dopo aver unificato la propria aspirazione ad una cultura universalistica ed eliminato l’elemento galilaico aramaico, la comunità antiochena , specie dopo l’accettazione del metodo evangelico di Paolo al Concilio apostolico del 50 (At. 15. 1 e sgg), pur mantenendo rapporti di fratellanza ha una sua “politica” di espansione e una sua predicazione del vangelo.45
E’chiaro però che un solco si è scavato tra le due comunità, che non vanno più di pari passo nella evangelizzazione e che dissentono perfino nel messaggio: gli uni , gerosolomitani restano chiusi nel loro nazionalismo e predicano il ritorno del Christos gli altri si aprono ad una comunicazione ecumenica 46
Perciò il clima di contrasto non si esaurisce neppure nel decennio successivo: i giudei galilaici che propongono di dovere imporre l’osservanza della legge di Mosè anche ai pagani convertiti e gli ellenisti cristiani – tra cui Paolo-, che evangelizzano staccandosi totalmente dalla legge portano avanti il dissidio, già palese nel concilio.
L’arresto di Paolo a Gerusalemme nel 58 per colpa di giudei-galilaici, conservatori, è ulteriore spia di una lotta ormai lacerante tra due comunità, pur nate dallo stesso pensiero.47
Probabilmente tra il 50 e il 62 le due posizioni si fanno più rigide anche per le due diverse aperture: l’una giudaica, sempre più chiusa in una interpretazione “ebraica” della venuta del Cristo, si sclerotizza in una sterile lotta contro il potere romano, in cui i giudei e i giudei galilaici, certamente mal governati, sobillati dagli zeloti, istigati dagli esseni, si autodistruggono in un isolamento, non solo culturale; l’altra ellenista , ormai aperta all’ evangelizzazione dell’ecumene, tende al cuore dell’impero, in un distacco dalla tradizione ebraica, seppure suddivisa in una parte che segue Pietro, ancora formalmente legato alla cultura giudaica e in un’altra del tutto decondizionata dal credo ebraico, ma completamente svincolato dal pensiero essenico del giusto Giacomo, fratello di Gesù.48
La figura di Giacomo è da studiare attentamente sia per la sua validità morale, in quanto espressione della più perfetta santità in senso ebraico, come exemplum di giustizia, che per la sua pertinacia nel rimanere fedele al pensiero giudaico del fratello,inteso come “continuatore” e ”riformatore” del tipo di Esdra, come costitutore del “nuovo patto” tra il popolo e Dio, non di una nuova religione.49
In un clima di accese discussioni e di forti contrasti ideologici i logia matteani, espressione della parte più attardata del “christianesimo” servono di base sia alla chiesa di Gerusalemme che a quella di Antiochia: essi, entrati nella comune memoria, sono documento ufficiale tra le varie interpretazioni di una pratica religiosa ed ora nel momento della separazione sono diversamente piegati in relazione alle diverse culture ormai radicate.50
Regno dei cieli e Regno di Dio diventano le due bandiere di un originario pensiero, inviato da uno stesso fondatore, Gesù, sventolate con sottesi messaggi diversificati, ricongiunti poi in epoca costantiniana e ribaditi nel periodo teodosiano, come sinonimi di uno stesso messaggio: l’uno escatologico e l’altro apocalittico appaino simili ma sono veramente distanti l’uno dall’altro (Cfr. Cosa sottende Malkuth?)
E noi , a distanza di tanti secoli, abbiamo accettato ed accettiamo la lezione flavia degli evangelisti e quella “costantiniana” dei revisori con tanti altri sottesi significati anch’ essi non originari.51
Comunque , la preghiera del pater, anch’ essa emblematica , subisce opportune trasformazioni, mantenendosi, a seconda dei due credi, sostanzialmente identica , anche se varia per forma , in quanto unisce ancora, giudei-galilaici, giudei-ellenisti cristiani, conservatori ed innovatori.52
La scrittura del Vangelo di Matteo in greco risente però dell’influenza dottrinale di Paolo, il cui evangelion umanitario ha vinto rispetto a quello giudaico di Giacomo già propagandato da Marco col suo vangelo, quando la tensione tra i due sistemi cristiani non esiste più per la sconfitta dei seguaci del Malkuth , rei d’aver causato la distruzione del Tempio .53
Matteo è l’evangelista che più risente del pensiero di Giacomo, in quanto a lungo legato alla comunità Gerosolomitana, ma, rifugiatosi in Antiochia, probabilmente deve confrontare il suo pensiero con quello dominante nella comunità ospite e poi deve fare i conti con la fine dell’integralismo giudaico e quindi si avvicina probabilmente alla cultura superstite christiana
La sua formazione culturale aramaica, fusa con quella greco-romana, lo aveva portato naturalmente verso le posizioni ecumeniche e quindi si era “convertito” dalla sua iniziale posizione di conservatore giacomita: nell’ ambito antiocheno il suo vangelo greco è una mediazione tra quello originario e quello “paolino” di Luca.
Matteo, pubblicano, discepolo del Cristo, legato all’ideologia di Giacomo (Gia. 2.17,20,25) pone nella “scrittura “ del vangelo, la vita e l’insegnamento del Cristo per una dimostrazione della messianicità di Gesù e della grandezza del Regno dei cieli, come testimonianza diretta della cultura giudaica di Gesù.54
Certo si oppone al Vangelo di Luca ( che Paolo cita dicendo “secondo il mio vangelo”-Rom. 2.16; Tim: II,8- cfr. Eusebio, Hist. Eccl. III, 4,7), impostato su ben altre basi e il suo pater assume, pur nella ristrutturazione in uno schema dimostrativo, la forma di compendio di tutto il vangelo, già rilevato da Tertulliano, che afferma (De oratione, I) “Pater noster breviarium totius evangelii est”55
L’assetto formale nuovo del pater matteano esprime la volontà di evidenziare il cristianesimo come superamento della legge di Mosè e contemporaneamente di mostrare come il giudaismo sia necessario e basilare per la nuova religione.56
Le probabili aggiunte, tratte da diverse parti del vangelo sono segni di un tentativo di mettere in rapporto giudaismo e cristianesimo , teoria e pratica, legge e modalità operative.57
L’assetto strutturale del sistema vangelo, diviso in cinque grandi discorsi , che sono l’ossatura di tutto il lavoro, come segno della struttura originaria, (Quello della montagna per la costituzione delle basi di una Nuova Giustizia- 5-7; quello sui reggitori-10- ; quello sullo sviluppo futuro -13-; quello sulle virtù dei sudditi -18-; quello sul valore escatologico) va di pari passo con la scrittura del pater 58.
Alla scrittura del Vangelo e del pater matteano , espressione della cultura originaria evangelica, adattata da un giudeo ellenista moderato, “corrisponde” la scrittura di Marco e di Luca, portatori di un medesimo messaggio cristiano antiocheno, proprio di un’area innovatrice, seppure con differenze e contraddizioni, dovute alle diverse forme di innovazione.
Marco e Luca sono due uomini certamente dell’area paolina , che collaborano in vario momento e in modo diverso all’evangelizzazione di Paolo e perciò sono anche interpreti della funzione cristiana , in relazione alla loro formazione e alla loro esperienza cristiana.59
Marco, uperetes-ministro di Paolo e Barnaba, suo cugino e levita come lui, di lingua greca ed aramaica (Cfr Giacomo e Paolo) nel primo viaggio apostolico, nonostante qualche contrasto con Paolo ( At. 12. 15; 13.13), è suo assistente nella prima cattività romana (61-63) è desiderato come aiutante nella seconda prigionia (65-7 ;cfr. 2Tim. 4.11), ma è anche vicino all’ area di Pietro ( di cui è mathetes e ermeneutes), pencolante tra il pensiero giacomita e quello paolino, e certamente più aderente alla “forma” di Giacomo che a quella di Paolo. 60
Secondo la tradizione egli scrive a Roma il suo Vangelo( I Pet. V.13) prima di essere “vescovo” di Alessandria (cfr. Eusebio Hist. Eccl. II, XVI) .61
Nelle sinagoghe romane c’erano sempre contrasti, ma in epoca neroniana, le lotte tra le varie fazioni religiose dovettero essere terribili se Pietro definisce l’ambiente babilonese.62
Comunque Marco ha fruitori di cultura ellenistica ed evidenzia segni di una duplice predicazione, quella petrina e quella paolina.
La sua lezione – forse dipendente da una precedente scrittura marciana aramaica, senza la preghiera del padre nostro- tende a rendere la predicazione romana di Pietro, su richiesta dei romani stessi , accettata dal capo stesso della comunità, a detta di una tradizione che va da Papia ad Eusebio, a Girolamo.63
Il suo Vangelo è testimonianza di Gesù, Cristo e figlio di Dio, in una volontà catechetica, chiara nell’organizzazione generale( teofania nel battesimo di Cristo, confessione di Pietro e trasfigurazione, dimostrazione della messianicità di Gesù, figlio di Dio, tramite l’autorità dei testimoni, il suo potere sui demoni).
In Marco sono presenti elementi che mostrano la sua perfetta conoscenza della morfologia e della topografia palestinese, del culto del tempio, della Bibbia, della tradizione Giudaica, della predicazione di Pietro, ma soprattutto in lui sono evidenti una positiva interiorizzazione dei processi ellenistico-romano-giudaici e l’uso di una terminologia tipica di Paolo.64
La dimostrazione della messianicità è paolina come anche la sezione riguardante la testimonianza tramite i miracoli e la resurrezione.
La presenza di Pietro è chiara in molti punti, specie nel rilievo dato alla testimonianza petrina e nell’ assegnazione del primo posto(? )tra gli apostoli.65
La stessa scrittura in koiné rivelando una conoscenza specifica del parlare comune , secondo formule volgari e mercantilistiche e mostrando una organizzazione sintattica elementare e “primitiva”, basata sulla paratassi e sull’uso continuo di gar (con cui perfino termina il suo Vangelo ,facendo impazzire la critica ed aprendo una questione sulla cosiddetta finale canonica di Marco) traduce la “volgarità” aramaica del parlato di Cristo, ricordato da Pietro, pescatore, o forse da lui stesso ( se è da identificare con quel discepolo, giovinetto, di nome Giovanni Marco).66
La “risposta” in senso puramente paolino, è data, però, sicuramente da Luca (qualsiasi sia la sua collocazione storica, prima o dopo la distruzione di Gerusalemme, influenzato o no da Giuseppe Flavio ): il pater ne è una prova e un segno. 67
Luca, antiocheno, medico, compagno e discepolo di Paolo, scrittore degli Atti degli Apostoli e del Vangelo (Origene, In Lucam, Hom. I; Eusebio Hist. Eccl. II, 4, 4-6) è seguace della direttiva paolina più di quanto possano suggerire i tre riferimenti nelle lettere paoline (Col. 4.14; Filem. 24 e 2 Tim. 4-14) e i moltissimi contatti lessicali e le reciproche dipendenze di costrutti.68
Certo la “superiorità” culturale di Luca si evidenzia nell’uso del registro medico, nel ricorso ad una impostazione storica ( dedica all’eccellentisssimo Teofilo- doppia- ) nella diretta conoscenza di Filone e di Giuseppe Flavio e di tutta la storiografia latino-ellenistica e nella dichiarata volontà di fare opera letteraria su fatti già narrati da molti.69
Inoltre evidenzia un periodare complesso con molti nessi sintattici e con un perfetto uso della consecutio, specie nell’uso dei tempi storici , a cui fa seguire un classico ottativo, da tempo ormai scomparso nel linguaggio comune.
Egli è un degno continuatore della tradizione retorica giudaica, di cui è espressione lo stesso Pseudo-Longino, autore del Sublime.70
Nella preghiera, però, l’andamento del suo periodo non ha una tendenza retorica né ritmica probabilmente perché, intenzionato a dire “la verità”, non sente l’urgenza di un’artificialità popolare .
Il suo lessico (715 apax legomena su 2697 termini ) è ricco e vario e va da termini quotidiani e realistici a quelli tecnici e “dottrinali” nuovi con uso di lemmi stoici, platonici, già vagliati da Filone, da lui ben conosciuto (cfr specie il Quod omnis probus, Vita contemplativa , De Vita Moesis cfr. I,173 ecs amekhanon rushtai sumphoron, De Charitate sembrano presentare termini comuni: comunque, è aperto il lavoro di confronto tra i due)71.
Alcuni termini nuovi presentano, oltre al significato originario, altre connotazioni, proprie della cultura giudaica, aggiunte, mentre altri sono nuovi, come significante e come significato, perché sorti da una diversa referenza ed hanno caratteri distintivi propri che però sono frutto di un lungo periodo di sedimentazione.
Infine l’uso di una terminologia tratta da Matteo e da Marco comporta un’acquisizione dei termini nella complessa area di acquisizione personale lucana, che fa assumere una risonanza diversa e più ampia, a dimostrazione di una formazione elitaria antiochena.72
Comunque, nonostante l’eccellenza culturale di Luca, Paolo ha una funzione e un ruolo nella cultura protocristiana tali che nessuno può degnamente paragonarsi con lui: la sua “cultura”, la sua “passionalità” creativa e la sua capacità organizzativa sono eccezionali , armi capaci di conquistare Oriente ed Occidente.
Egli è in effetti il fondatore del cristianesimo, il genio capace di sfruttare uomini anche essi di eccezionale preparazione, come Luca, Sila, Barnaba, abile a tessere la trama di un tappeto , come di cucire le varie comparti dell’impero romano sotto il segno del Cristo risorto, come di irretire entusiasticamente con la logica farisaica, un individuo, un gruppo, una folla, trascinandoli dietro le orme umane del Cristo, inchiodandoli alla croce col Cristo, e facendoli risorgere col Cristo risorto, pervaso di una forza “demoniaca”, sempre vincente, anche nella sconfitta, nella coscienza di una imminente parousia/ritorno del signore 73.
Paolo, pur padrone del greco e dell’aramaico, non è un letterato (2Cor. 11,6) in quanto “è rozzo” apparentemente nel parlare per la foga “passionale” e quindi privo di tecnica formale, seppure efficacissimo nella naturalezza espressiva.74
Egli ha avuto una formazione farisaica nelle scuole rabbiniche di Tarso e di Gerusalemme, seguendo l’indirizzo della scuola di Hillel, di cui Gamaliel è l’ultimo maestro illuminato.75
La cultura farisaica consisteva nelle legge e nel suo commento e si basava sulla ripetitività di un elemento chiave, di una parola nucleare, intorno cui ruotava tutto il pensiero, organizzato in relazione a famiglie lessicali, a campi semantici, per la fissazione del nucleo ideologico, “chiodato” con un solo termine. 76
Il lavoro era ad incastro, come per la lavorazione delle stuoie: ogni maestro operava in modo tecnico e capillare per fissare una parola, un’immagine, un nucleo, un pensiero….