Per una datazione di Consolatio ad Marciam di Seneca

Per una datazione di  Consolatio ad Marciam

 

1.Immensa fu l’euforia  per la ricostitutio reipublicae  dopo circa  100 anni, a detta di Giuseppe Flavio,  quel 24  Gennaio del 41 d.C.: il senato riunito e i consoli, dopo oltre 24 ore, dalla morte di Gaio Caligola,  poterono dire a Cassio Cherea, tribuno dei pretoriani che chiedeva la parola d’ordine: Libertà  (Antichità Giudaiche XIX,186-87)
Tutti erano increduli e la cosa sembrava meravigliosa.
Sembrava che un’era nuova nascesse o potesse nascere dalla morte del Tyrannos Gaio Cesare Caligola: non più l’imperatore, ma i consoli davano la parola d’ordine.

Era una novitas ora che anche i germani  si erano quietati,  lo stesso popolo era  perplesso e le paure recondite dei patrizi venivano fugate dalla certezza della morte di Caligola.
Caligola, anche da morto, faceva paura: non c’era stata per ore  la certezza della sua morte  perché solo i congiurati sapevano della sua uccisione: ci fu quasi un giorno, tutto il 24 gennaio, in cui la notizia della morte circolò insieme a quella di un suo ferimento, di un suo proclama e di una  prossima presentazione al popolo, dopo le cure mediche.
Erano voci confuse e niente confonde di più della confusione perchè i rumores ingigantiscono la paura degli animi.
Come comportarsi in quella incertezza! Chi aveva interesse a mantenere tale incertezza! Perché mantenerla! C’era una regia in questa confusione!
Noi abbiamo cercato di ricostruire quella incertezza e conoscere i volti di  chi volle quello stato incerto e crediamo di aver individuato anche i motivi di quella volontà di azione: abbiamo scavato sulla congiura e sui congiurati ed abbiamo trovato forse il vero responsabile della morte di Gaio Caligola, che fu il vero regista di quel giorno di confusione e del giorno successivo, che fu quello della elezione di Claudio ad imperatore.
In quel giorno, 24 gennaio,  dunque, in qualsiasi parte della città di Roma, nei quartieri alti e in quelli poveri,  al teatro, al foro,  perfino entro le case singole, nessuno osava muoversi per primo, nessuno parlava: c’era sospensione generale di tutto e si attendeva la notizia ufficiale.
La domanda perfino era temuta: “è morto  Gaio? E veramente morto l’imperatore ?”
L’imperatore era morto? Era morto davvero? Chi l’aveva ucciso? e come? E dove? Quale delle congiure era riuscita? Chi aveva osato uccidere un Dio? Il dio non era immortale?
Erano tutte angosciose domande che restavano sepolte nel cuore di ogni civis.
In questo stato di sospesa incertezza qualcuno si era riunito.
Ma chi si era  riunito?
Su quale  base  c’era stata una riunione? chi aveva aderito alla riunione senatoria e  a quella popolare?
Quelli che avevano indetto la riunione senatoria e quella popolare, dunque, sapevano.
Se sapevano esattamente  tanto da indire una riunione  non potevano essere estranei all’area dei congiurati: la conoscenza effettiva della morte è una prova della loro stessa congiura, in un clima di insicurezza generale.
In questo clima di interrogazioni private, senza alcun comunicato ufficiale,  nessuno osava neppure esternare il proprio pensiero per paura che la sua domanda potesse  poi diventare un capo di accusa!
Eppure c’erano uomini che più degli altri erano stati sorpresi dagli avvenimenti e dalla morte del sovrano e che, saputa la notizia, subito agirono: erano i veri congiurati, quelli che  erano stati preceduti da Cassio Cherea e dagli altri  pretoriani che avevano tentato con successo, all’improvviso, di uccidere l’imperatore senza una vera e propria pianificazione, inconsultamente.
Questi sapevano esattamente ciò che era avvenuto perché erano a conoscenza della congiura ed avevano avuto un ruolo e una funzione seppure esterna, senza alcun rischio ed ora dovevano gestire la fase successiva alla morte dell’imperatore per come l’avevano pianificata nel loro progetto di congiura.
Insomma ad una congiura ufficiale  si era sostituita un’altra, improvvisa, pretoriana che era risultata vincente,  perché inaspettata,  che aveva preso alla sprovvista lo stesso team di consiglieri imperiali e la corte di fedelissimi.
I componenti di questa congiura ufficiale ora uscivano lentamente dall’ombra e si manifestavano, gestendo la paura di un ritorno imperiale, il terrore di una possibile vendetta di un imperatore non morto, deciso a vendicarsi.
Essi però sapevano che Caligola era effettivamente morto: avevano avuto la notizia da Cherea ed avevano constatato di persona la morte dell’imperatore ed ora gestivano la notizia, tenendola gelosamente circoscritta tra i congiurati e stretti  confidenti, e la facevano circolare a dosi  in modo di avere il tempo di preparare un piano per la successione, alternativo a quello stesso,  previsto in relazione alle reazioni popolari e militari.
Questi che  avevano formato  un gruppo di oppositori, che nell’ombra avevano tramato e  stavano ancora tramando per la morte dell’imperatore ed erano i veri congiurati, erano abili nella pianificazione del delitto e  non fidavano affatto nello sparuto gruppo di pretoriani  che, probabilmente, si erano offerti e si erano accollati stolidamente ed irrazionalmente, senza alcun reale piano, il compito dell’uccisione a prezzo della loro vita stessa.
Questi, rifiutati dai patres,  avevano agito di testa loro, sconsideratamente, avvelenati  dagli ultimi atti caligoliani, la sostituzione del corpo dei pretoriani con quello dei germani, il non pagamento della liquidazione per coloro che erano andati in pensione il 7 gennaio del 41, e il silenzio sugli  stipendi da dare agli altri, ridotti al rango di militari semplici e specialmente la data fissata per il 25 gennaio della partenza da Roma  per Alessandria, la nuova sede della residenza imperiale.
La partenza da Roma fu  anticipata forse  perché Caligola voleva passare la pars invernale  in Campania,  da dove più comodamente si sarebbe spostato  per la definitiva partenza per Alessandria già fissata e preparata nelle tappe, nei luoghi e nei porti  più grandi dell’impero orientale: la visita a Reggio doveva essere nodale, prima dell’abbandono dell’Italia.
Per gli anziani tra i pretoriani la partenza da Roma era stata l’ultima goccia che aveva fatto saltare i nervi  e stappare la piena di ogni rivendicazione non solo militare: tra questi disperati  nacque l’idea dell’assurda morte di Caligola.
Uomini privi di senno, giunti alla massima esasperazione, potevano compiere un gesto di tale  pazzia, quale l’uccisione di Caligola, un “dio “!
Caligola era un Dio per la romanitas, un basileus, mitizzato, come nomos empsuchos, come simbolo di ogni virtù romana come espressione della santità dell’imperium, più augusto di ogni suo predecessore e perfino di ogni dio tradizionale perché riassumeva nella sua figura tutti gli attributi  del pantheon  romano-ellenistico,  in quanto segno e simbolo  dell’unità imperiale, sovranazionale.
Caligola era veramente adorato come un dio ed aveva veramente un suo culto ed era veramente un Dio per ogni classe sociale, per tutti i cives dell’impero che sacrificavano ogni giorno al suo nume (Cfr. A. Filipponi, Caligola il Sublime, Cattedrale, 2009)
Difficilmente noi oggi siamo in grado di capire cosa voglia dire questo perché non abbiamo i referenti di un monarca assoluto, divinizzato: possiamo farci un’idea se ci mettiamo nella mente di un vecchio giapponese che pensa ad Hirohito o di un Tailandese che onora il suo re Bhumibol Adulyades Rama IX.
Dunque ai congiurati veri, ora, a morte avvenuta, sicura, si presentava l’occasione di rigenerarsi senza mostrare la faccia odiosa del congiurato e di  dare al popolo e ai numerosi fedeli giuli le teste  dei congiurati veri e dei martiri da presentare  come Bruti e come Salvatori della patria, che già per conto proprio inneggiavano, in una crisi isterica, in una esaltazione della loro impresa, alla libertà, ad un nuovo assetto, ad un ritorno alla repubblica, pazzamente, in un delirio di onnipotenza, traumatico, contagioso al primo impulso.
Cherea e gli altri erano stati  dei pazzi che avevano reagito senza pensare alle conseguenze  ad un’azione antimperiale, e nemmeno credevano che così facendo potevano risolvere il loro problema economico, finanziario e militare.
L’uccisione di Gaio ora poneva un problema immenso, quello della normalizzazione e della comunicazione ufficiale della morte di un Dio all’impero ai sudditi che adoravano il sovrano.
La normalizzazione ora richiedeva lo studio dell’animus  delle masse e dei militari moderati e di tutte le truppe presenti nell’urbe compresi i milites di  Erode Agrippa probabilmente galati: la normalizzazione doveva partire dopo il conteggio del consenso in senso giulio: Caligola era ancora exoptatissimus in senso popolare e militare, e la sua azione seppure discussa era certamente la più esaltata e il suo nome non era in discussione in quanto non c’erano alternative; la sua domus era augusta, come anche quella claudia; la normalizzazione escludeva il passaggio ad altre casate seppure apparentate come quella domizia o lepida ed ancora di più il ritorno ad una costituzione repubblicana, in quanto mancavano gli ordines ormai distrutti e  le classi popolari capaci di esprimere  un corpo di tribuni della plebe.
Quel giorno servì per fare un punto situazionale in una situazione letta rapidamante per stabilire di abbandonare la linea rivoluzionaria, quella anacronistica repubblicana e di proseguire secondo le linee augustee facendo coinvolgere i voti di tutti unanimemente sull’unico candidato possibile della domus giulio-claudia superstite, considerato innocuo da una parte e moderato da un’altra, un nipote, comunque, dei Cesari, uno zio, però, di Caligola.
Insomma quel giorno servì per capire che non si poteva né doveva interrompere la successione giulio-claudia.
Bisognava, però, per prima cosa dopo l’euforia contagiosa del primo momento di libertà  inconsulta, pericolosa per ogni proponente, dopo  l’esame razionale della impossibilità della proposta repubblicana al sorgere delle candidature, in seno al senato, decidere nella scelta obbligata della continuità monarchica  il nome del candidato per la successione.
Accanto a questa scelta era necessario anche  risolvere l’incidente della uccisione e quindi punire chi aveva ucciso il Dio, in modo da  sancire la  santità della persona dell’imperatore, considerata la continuità della domus regnante.
Noi abbiamo individuato il gruppo di opportunisti, segnati tutti ,ognuno per conto suo,  da eukairia, una virtus politica che autorizza il passaggio da un’ idea ad un’altra, di misconoscere un’ azione da poco lodata, di lodare quanto vilipeso il giorno prima, al fine di un guadagno personale.
Eukairia si alterma ad Ophelos o a Kerdos, termini ricorrenti nei testi storici di questo periodo, specie nei giorni 24 e 25 gennaio del 41 d.C: Giuseppe Flavio e Dione Cassio ne sono testimoni rispettivamente nel XIX libro di Antichità Giudaiche  e nel LIX di Storie.
Perciò, mentre si osannava ai tirannicidi,  opportunisticamente si pensava già alla successione e a come liberarsi dei nuovi eroi, a come martirizzarli, a come sacrificarli, nonostante la loro azione salvifica, utile per i pretoriani, per il senato, per i  cavalieri, per Petronio, governatore di Siria, già condannato a morte, per gli ebrei, destinati alla deportazione, per la città stessa di Roma,  che ora non era più destinata ad essere una normale città, ma rimaneva, come sempre, caput mundi.
Lasciare osannare i tirannicidi inizialmente, poi pianificare la reazione popolare guidandola verso una nuova forma di stato,  infine misconoscere  gli uccisori di Caligola e punirli per la loro azione contro il legittimo sovrano per avviare lo stato  non ad una svolta ma ad un ritorno nella solidità della politeia monarchica. Furono questi gli atti dei congiurati rimasti nell’ombra.
Ristabilire la migliore forma di governo per tutti i cives per Roma per l’Italia, per le province,  secondo le pure regole augustee, ritornare alla tradizione augustea-tiberiana: questo fu l’assunto dei congiurati, tutti conservatori.
In quella prima fase di esaltazione dei tirannicidi, i veri congiurati accettarono perfino che anche uomini di potere come  Valerio Asiatico potesse dire: Ah l’avessi fatto io!
Ma fu solo un momento in cui era assente ogni forma di razionalità: Roma aveva una lunga politica di mediazione in cui sapienza razionale e operatività effettiva si sposavano e creavano le basi nella reciproca consultazione delle parti anche contrastanti,  e di comune decisionalità in situazione.
Valerio Asiatico fu subito cancellato dai possibili candidati alla successione, nonostante la famiglia, le parentele e  la umana simpatia per le sue qualità di uomo forte: Seneca stesso se ne dissocia.
Eppure l’uomo era un valoroso che aveva dovuto subire un oltraggio  da parte di Caligola davvero insolente e spregiudicato.
Seneca riporta il fatto  in 18,2 (Costanza del saggio):  aveva tra amici di prima udienza  Valerio Asiatico uomo animoso e capace a mal pena di sopportare serenamente le offese fatte agli altri. A questi, in un banchetto, che risulta come una piazza gremita, a voce udibile da tutti  disse con ironia come si comportava a letto la moglie. Per Ercole, un marito deve sentire queste cose! Giunse a tal punto di sfacciataggine da dire ad un ex consolare, ad un amico, ad un marito direttamente, 
 (climax ascendente) raccontando un imperatore il proprio adulterio e la sua delusione.
Anche M. Vinicio (console del 30, ammirato da Velleio Patercolo che gli dedicò le sue storie, proconsole d’Asia nel 38) marito di Giulia Livilla, fu scaricato dai congiurati,  pur se Annio Viniciano  aveva caldeggiato per lui  il regno: neanche Giulia Livilla, donna di eccezionale bellezza, già implicata con la congiura di Agrippina e di Getulico (cfr Caligola il sublime), pur cara al filosofo, non ebbe probabilmente alcun effetto forse perché non ancora tornata dall’esilio.
Comunque, questi due uomini furono sicuramente accantonati come anche Vinuciano, anche se imparentato  con la famiglia imperiale.
Seneca che in quei giorni stava scrivendo forse Consolatio ad Marciam e forse i primi due  libri del De ira, insieme con Filone, fu informato dei fatti da Erode Agrippa, che fece seppellire e bruciare il cadavere di Gaio Caligola nei giardini della villa di Lamia,  avendo al suo fianco da una parte Claudio, lo zio dell’imperatore e  dall’altra Annio Vinuciano, un parente.
Da questo si evince la centralità della figura del re giudaico, che sembra il manovratore di tutta la situazione tanto che in Giudaismo romano ( II parte) ho prospettato che la vera mente congiurante fu quella di Erode Agrippa, che con l’aiuto di Seneca, di Filone presente a Roma, e dei pretoriani e poi con l’adesione di Claudio aveva risolto la difficile situazione del dopo Caligola.
La conclusione di Legatio ad Gaium che parla di naufragio della nave ebraica,  in caso di sconfitta nel processo antigiudaico e di verdetto favorevole agli alessandrini di Apione, Elicone e Isidoro, anticipa lo stato d’animo giudaico, dopo la sentenza d di fine estate del 40 e già prospetta una palinodia, una canto di ritrattazione e quindi un autoconfessione di tutto il giudaismo in preghiera davanti al dio Gaio Giulio Cesare Neos Zeus.
Una palinodia che non abbiamo, ma che fu scritta col senno del poi,cioè con la conoscenza della morte  del Dio e della successione di Claudio che  ripristina gli statuti alessandrini e impedisce la catastrofe giudaica.
2. Il re Erode Agrippa  con i suoi galati, con Claudio e con Annio Vinuciano sembra essere caligoliano, uomo rimasto fedele.
Come aveva trascorso il periodo di oltre tre mesi, compreso tra il verdetto filoalessandrino e la morte di Caligola? Era rimasto a fianco del sovrano  con le stesse funzioni o era stato allontanato e visto con sospetto o si era messo in attesa, vista la precarietà di salute? Non andava regolarmente a corte, ma  viveva in disparte inviando messaggeri che facevano la salutatio  e con medici che notificavano al sovrano le sue condizioni di salute?!
Non c’è scrittore che parli di questo periodo  ma tutti parlano della sua partecipazione alle esequie e rilevano la sua pietas nei confronti dell’amico, notando però le contraddizioni.
Le esequie sembrano testimoniare ancora amore per il defunto imperatore: Agrippa, malato di cuore,  doveva essere allarmato, in affanno, ansioso in quella situazione funebre.
Non lontano da lui dovevano essere  i germani, anche loro fedelissimi, e forse molti pretoriani, confusi, ma indignati per il crimen di  Cherea.
Non doveva essere facile tenere le bocche chiuse a tanta gente, che dovettero essere   comprate con  molti denarii: un re munifico come Agrippa  versò ingenti somme per  germani e pretoriani per gestire a suo piacere la notizia dell morte dell’imperatore.
Infatti i germani  per primi insieme ad Agrippa erano arrivati sul posto e trovavano Caligola ucciso,  mentre Cherea gli altri erano passati per la casa di Germanico e quindi si erano allontanati dalla parte opposta.
Non è facile ricostruire quei momenti:   una sola cosa si può dire: gli uccisori avevano compiuto l’azione in modo irrazionale e senza appoggi, sfruttando solo l’occasione del cambio di guardia  tra i germani e  i pretoriani ancora in servizio.
Dietro questa frangia di pazzi suicidi, lanciati allo  sbaraglio, c’era veramente un gruppo di congiurati veri che gradatamente sarebbero usciti allo scoperto, in caso di improbabile esito positivo.
La notizia della morte  era arrivata alla sprovvista ed  aveva sorpreso tutti, popolo e e patrizi.
Il popolo (donne,bambini, schiavi  che erano stati ammiratori delle esibizioni di Caligola, che avevano goduto degli spettacoli dei gladiatori ,  delle elargizioni  e dei festini dati) erano costernati di fronte alla notizia ed erano  in attesa di nuove e sicure notizie, come se si aspettassero un miracolo, una nuova manifestazione teatrale, che li avrebbe di nuovo stupiti.
Quelli che erano della corte e che avevano relazione diretta con l’imperatore nobili ed equestri, tutti, congiurati o non, rimasero increduli, immobili ed incerti: senza la certezza assoluta, senza la prova del cadavere di Gaio, senza averlo visto  morto coi propri occhi,  nessuno si sarebbe potuto muovere.
Quelli che sapevano  e quelli che non sapevano, apparivano sullo stesso piano: nessuna faceva una mossa né diceva una parola: si era tornati al clima tiberiano  precedente la successione caligoliana.
Flavio dice:“tra i patrizi se qualcuno credeva alla voce della morte, era per la preconoscenza che aveva della congiura, altri in quanto lo desideravano ardentemente, ma tutti non solo la covavano in silenzio, ma una volta conosciuta,  facevano finta di non averla neppure udita: alcuni, per timore che, vanificate le loro speranze, dovessero subire la pena della troppa fretta  a manifestare il loro pensiero; altri,  già informati di tutto, in quanto membri della congiura, si guardavano ancora di più dallo scoprirsi perché non conoscevano quelli che facevano parte della congiura  e temevano che, qualora ne parlassero, ci fosse qualcuno  a cui tornava utile la tirannia e sarebbero stati denunciati e puniti se Gaio fosse rimasto in vita. (Ant. Giud. XIX,132-133).
Dunque, dalla notizia flaviana si desume che credere alla morte di Gaio significava o che preconoscevano la congiura o che la desideravano ardentemente e che quindi dovevano,perciò, fare silenzio e far finta di niente.
Lo storico spiega il motivo di far silenzio di questo doppio gruppo: alcuni per  la paura di non rivelarsi  per la troppa  fretta; altri, membri della congiura,non si scoprivano perché non conoscevano i vicini  e il loro pensiero.
Flavio aggiunge: S’era sparsa la voce  che Gaio era ferito  ma non morto, era vivo e nella mani dei medici. Non c’era persona fidata alla quale si osasse  manifestare  quello che si pensava; se l’altro era un amico di Gaio il proprio pensiero rendeva sospetto al tiranno, se l’odiava la stessa  avversione  toglieva credito al suo dire. In caso di Gaio vivo,  sarebbe stato denunciato da alcuni: si diceva -e questo bandiva dall’animo dei patrizi ogni ottimismo-  che Gaio  incurante del suo pericolo e peggio ancora delle sue ferite, sanguinante si era rifugiato nel Foro ad arringare la folla”(ibidem,134.36).
Lo storico precisa la situazione di incertezza mostrando l’altra notizia quella di un ferimento  di Gaio curato dai medici, che, sprezzando le ferite arringava il popolo.
Questa ulteriore notizia  paralizzava tutti i congiurati rimasti nell’ombra e tutti i non congiurati, ma simpatizzanti,  dato il clima di sfiducia reciproca e di conoscenza della propaganda imperiale filopopolare e dell’ incondizionato favore  popolare.
Per timore, dunque,  l’uno dell’altro, nessuno neppure si muoveva tanto che Flavio aggiunge,  dopo aver commentato le sciocchezze inventate dai chiacchieroni  descrivendo gli uomini, sorpresi nel teatro: “nessuno abbandonava il suo posto al teatro, temendo ognuno che  le accuse sarebbero state lanciate verso chi per primo se ne fosse andato; sarebbero stati giudicati colpevoli o innocenti non per l’intenzione alla quale potevano  richiamarsi, ma per l’intenzione che sarebbe piaciuta agli accusatori e ai giudici “( ibidem,137).
Erode Agrippa, re dei giudei, in un tale situazione di incertezza, fu, dunque  un punto di riferimento per tutti, popolo e senatori, anche per la vicinanza fisica all’accaduto, per la sua diretta costatazione del cadavere e la sottrazione del morto ai  congiurati  pretoriani.
Egli si trovò nella migliore situazione di gestire la morte dell’amico imperatore.
Egli era  uno che da Gaio era stato tenuto in grande onore: perciò i suoi gesti fatti sul cadavere non potevano essere nemmeno letti o interpretati se non secondo normale logica di pietà, di amore e di riconoscenza:  il re infatti  aveva disteso l’imperatore su un letto, lo  aveva coperto col materiale  che aveva a portata di mano, andò dalle guardie del corpo, germaniche e pretoriane che ancora erano insieme, indistinte,  ed annunciò che Gaio era vivo,  ma sofferente  per le gravi ferite e che sarebbero giunti i medici per curarlo ( Ibidem,237).
Questo è quello che  Erode Agrippa  disse ad un  gruppo misto di germani e pretoriani  incontrato successivamente  alle esequie completate  con Claudio e  Vinuciano.
Il re era  con quel Vinuciano per il quale trepidava Cassio Cherea (Flavio ibidem,153-6): Cherea era molto allarmato temendo che Vinuciano incontrasse i germani rabbiosi, e che venisse ucciso ed andava tra i soldati  e li pregava  singolarmente  che prendessero  ogni precauzione  per la salvezza di Vinuciano e facessero  molte ricerche per sapere se era ancora vivo). E’ Quel Vinuciano che nel frattempo , preso dai pretoriani era stato condotto davanti a Clemente, il capo dei pretoriani,   che lo rimise in libertà (ibidem).

Clemente dalle parole  riportate da  Flavio è un congiurato che conosce i fatti e li valuta con molta acutezza (Clemente,  infatti, con molti altri senatori  testimoniava la giustizia di quanto era accaduto e il coraggio di coloro che avevano  preparato i piani e li avevano eseguiti  senza debolezza e diceva: la tirannide motivata da piacere invincibile per la violenza  ha un tempo limitato.  La vita di un tiranno, come vediamo,  non ha fine felice  poiché i virtuosi lo odiano ed incorre anche in quei  mali che hanno colpito Gaio,  che si fece del male da solo  agendo contro se stesso   prima che si effettuasse una sollevazione  e si organizzasse un attacco. Egli dava lezioni  a chi non poteva sopportare  le sue violazioni  e, considerata la sua violazione ed abolizione della legge , insegnò ai suoi più cari amici  a fare guerra contro di lui.   E sebbene ora siano detti assassini di Gaio lui in effetti  è caduto vittima dei suoi stessi disegni (ibidem).
Il discorso di Clemente  mostra che  il capo pretoriano è  collegato  con  gli amici di Gaio che hanno tramato e perciò rilascia Vinuciano:  le sue parole indicano chiaramente Valerio Asiatico e lo stesso Agrippa.
Ne deriva che Vinuciano era stato consegnato da Clemente ad Agrippa e Claudio e con loro aveva fatto le esequie.
Queste parole di Clemente poste dopo il fatto, in effetti furono dette prima delle esequie, quando ancora la figura di Vinuciano era quella del probabile successore, caro e ai congiurati e al popolo.
Le parole  di Clemente, capo del pretorio e quindi uomo esautorato da Caligola, ancora capo comune dei pretoriani  sono tali da giustificare l’azione di alcuni suoi uomini ed accusare  lo stesso imperatore di essersi suicidato, col suo commettere ingiustizia nei confronti di amici  e nella sua insolente ferocia e tracotanza
Il riferimento ad Agrippa e a  Valerio  Asiatico   è chiaro ed in un certo senso ne giustifica la loro  partecipazione alla congiura, seppure in modo segreto: c’è sotteso nelle parole di Clemente  il piano di far succedere al trono Annio Vinuciano.
Erode Agrippa,  Valerio Asiatico, ed Annio Vinuciano sembrano quindi essere i veri mandanti, che comunque restano nell’ombra e compaiano inizialmente come uomini che vogliono  cogliere i frutti di quella morte.
Erode Agrippa il referente di un mondo giudaico, schiacciato dall’ektheosis galigoliana,  e di Seneca  e di  Claudio con Callisto doveva essere il garante di questa elezione di Vinuciano, mentre Valerio Asiatico ne avrebbe avuto gli onori  a livello popolare.
Il ruolo di Valerio Asiatico nella morte di Caligola non è stato mai ben accertato: si è preferito considerarlo marginale specie in relazione alla frase di Flavio Oh l’avessi fatto io!, detta davanti all’assemblea popolare.
In effetti Tacito –Annales XI, 1-2-3 – lo dice praecipium autorem  interficiendi Caesaris  non extimuisse in contione populi romani  fateri gloriamque facinoris ultro petere (davanti al popolo romano in assemblea L’asiatico  non temette di proclamarsi autore  principale dell’uccisione di Caligola  ed aveva rivendicato per sé la gloria di quel fatto) e perciò era divenuto famoso  in Roma.
Questo era nativo di Vienne, come Claudio,  ed era sostenuto da molte  e valide parentele  e quindi poteva sollevare la Gallia ma anche averne l’adesione per il nuovo imperatore.
Di lui si sa che una volta successo Claudio nel regno,  fu scoperto nel 47 a Baia un complotto contro l’imperatore,
Per ordine di Messalina, moglie dell’imperatore,  che voleva acquistare    gli horti luculliani  fu fatto e accusare Valerio per  l’ adulterio con Poppea Sabina  ad opera di Suillio ( che era stato console due volte e che era fratello di Domizio Corbulone  marito della figlia di Ovidio, esiliato da Tiberio  divenuto poi famigerato delatore, finito  confinato nelle Baleari).
Valerio fu imprigionato da Crispino prefetto del pretorio,  portato a Roma e condannato a morte. A lui non fu permesso di difendersi in senato, ma fu interrogato  nella camera dell’imperatore  alla presenza di Messalina  (con cui precedentemente aveva fatto adulterio)  mentre Suillio lo incolpava di aver corrotto con tutti mezzi i soldati  e perfino di essersi prostituito.
L’Asiatico aveva sopportato tutte le accuse a quest’ultima, infamante,  sbottò dicendo di chiederlo ai suoi figli se era uomo.
Alla difesa di Valerio che vantava i suo passato di consolare di  militare e mostrava le sue qualità di comandante nella campagna di Britannia, Messalina piangeva secondo Tacito e perciò se ne uscì non senza aver ordinato,però, di farlo condannare a morte.
Era rimasto Vitellio ad interrogarlo: Valerio sapendo che Vitellio era stato suo amico ricordava   tra l ‘altro,  l’antica amicizia,  il comune ossequio ad Antonia Minor, madre di Claudio, ottenne solo la possbilità della scelta di morire: un modo per evidenziare la clementia di Claudio.
Considerata ormai accertata la condanna a morte sua e di  Poppea Sabina ( madre di quella Poppea, poi moglie di Nerone Domizio)   Valerio non volle ascoltare nemmeno il consiglio di Vitellio che lo esortava al digiuno per una morte migliore, pur ringraziandolo del piacere.
Si dice che  l’Asiatico dopo avere fatto i soliti esercizi fisici,  uscì dal bagno pranzò lautamente  e disse  “se honestius  calliditate Tiberiii vel impetu C. Caesaris  periturum quam quod  fraude muliebri et impudico Vitellii ore caderet (sarebbe stato meglio morire  vittima dell’astuzia di Tiberio o della brutalità di Caligola  che cadere   per il tradimento di una donna  e di parole uscite dalla sudicia bocca di Vitellio).
Dopo aver visto  l’apparato della pira per il suo rogo e dopo aver ordinato di trasportarlo  altrove  perché la fiamma non bruciasse le folte chiome degli alberi si tagliò le vene.
Questo è il commento di Tacito che vuole lodare non solo l’uomo libero e forte ma anche l’ecologista che ama la natura: tantum illi securitatis  novissimae fuit ( tanta serenità ebbe nell’ultimo istante                ( Annales, XI, 3)
Valerio, uomo legato al nome di Antonia Minre,   era certamente un amico di Seneca che in De constantia  sapientis 1,2 lo aveva lodato.
Questa (il termine observo di Tacito fa pensare non solo a rispetto ma anche a venerabilità di un’augusta!)  fatta morire dal nipote,  Caligola,  risulta venerata  da tutti quelli   che  si erano accostati alla congiura…