La lavanda dei piedi

Giovanni, 13, 1-34 parla di un Gesù, che lava i piedi dei suoi discepoli, che rivela il traditore e  che invia i suoi uomini come testimoni della luce  a dilatare le tenebre.

ll linguaggio giovanneo, efesino, è anticipato da 12, 41-48 dove si tratta di   Isaia  che vide la gloria  sua (docsa) e dove è scritto che  Gesù afferma che quanto dice lui è del padre ed è vita eterna (zoh aioonios) perché chi crede in me  non crede in me, ma in colui che mi ha mandato, e chi vede me, vede colui che mi ha mandato.

È un logos escatologico, messianico, tipico dell’ambiente efesino e poi alessandrino, che autorizza una datazione propria del II secolo, di epoca antonina, e che è  tipica  espressione di uomo che ha  coscienza della  venuta del Christos, come luce nel mondo affinché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre, in una promessa di vita eterna da parte di chi è stato inviato per salvare il Kosmos, non per giudicarlo, in quanto sarà giudicato solo nell’ultimo giorno/en thi eschathi  hmerai.  

In questi versetti, dunque, è centrale l’anafora di edocsasthh con la ripetizione di docsasei, oltre al valore del termine to gloossokomeion e dei toni familiari espressi in teknia da parte  di uno, destinato a rimanere insieme  ancora  per poco tempo, desideroso di dare entolh kainh  un nuovo comandamento, quello di amarsi reciprocamente (agapate allhlous).

Il maestro aggiunge per completare il proprio pensiero: kathoos hgaphsa umas ina  kaiumeis agapate allhlous, en toutooi gnoosontai pantes oti emoi matheetai este, ean agaphn echeete en allhlois/come io vi ho amato perché anche voi  vi amiate gli uni gli altri; in questo tutti vi riconosceranno che  voi mi siete discepoli, qualora abbiate amore tra voi.

Al di là dei temi trattati in questa sede da Giovanni, – da noi considerato scrittore dell’epoca antonina,  uomo della scuola efesina collegato con quella alessandrina, in lotta con lo gnosticismo, abile a marcare i problemi  dell’area asiatica ed in genere orientale,  su una linea di amore  del prossimo e sul servitium/diakonia  come politeia, come negotium fraterno, secondo un rituale orientale, da  attivare nelle dioikeseis, in relazione alla precettistica  paolina, clementina ed origeniana -, Gesù, qui, è  visto non come maestro ma come inviato lui stesso, a svolgere una missione, come un doulos o diakonos/uno schiavo o servo secondo una tradizione arcaica dell’ospitalità che sottende una lettura  del primo-ultimo, del politico che serve il popolo, del politikos vir civilis, del magistero del papato,  del rovesciamento del valori umani, tipico di vecchi-neepioi

Lo csenos, accolto in quanto viandante, bisognoso di ristoro, ai piedi, e lavato accuratamente, come se fosse inviato da Zeus  è già nella tradizione omerica:  Euriclea (Odissea, XIX, che, lavando i piedi di Ulisse, si accorge di avere davanti il suo padrone e signore) e’  testimone di un antico uso e del servizio di diakonos, di schiavo o servo che lava i piedi ad ospiti e diventa simbolo dell’umilismo del cristiano, che sa comandare ed obbedire, che passa da primo ad ultimo, capace di essere da ultimo primo per elezione divina: non è lui il facitore di storia, ma Dio, che capovolge misteriosamente il disegno umano secondo una sua oikonomia, imperscrutabile.

L’inizio dell’ospitalità comincia con questo atto di accoglimento di un peregrino, che chiede hospitium e che stabilisce un vinculum familiare  con chi lo ospita, su cui si basa il sistema clientelare, assistenziale greco-latino.

L’uso dei Terapeuti (cfr. Vita Contemplativa, la cena del cinquantesimo giorno)  del servitium  del neoi ai prebuteroi, chiaro in Matteo, 20, 1-16,  episodio degli operai nella vigna (il regno dei cieli è simile ad un padrone  di casa che  uscì di buon mattino ad ingaggiare operai  per la sua vigna), connesso col testo del Giovane ricco e con  quello della Ricompensa dei discepoli, indica l’uso ebraico della parabola matthaica dell’orario  del diverso reclutamento e della medesima retribuzione al salariato.

In questa logica di retribuzione ebraica  la stessa figura di Giuda, anche se già vista negativamente, non è tale quale quella alessandrina, che vede l’apostolos come   cattivo cioè uomo prigioniero  sotto l’influenza satanica, ma sottende quasi un accordo tra il didaskalos/maestro e l’oikonomos/amministratore, come un messaggio tra due complici di un piano concordato per una resa e per per un sotteso trattato, al fine di concludere un’azione coordinata per il bene comunitario.

Essa risulta operazione tipica di naziroi aramaici,  che, assediati da Lucio Vitellio  – che ha dato l’ultimatum alla città ribelle nel 36 d.C., per ordine di Tiberio- consegnano il loro maran, dopo accordo coi protoi sinedriali,  condannato  a morte per la salvezza di molti...

Comunque, sembra che dopo l’entrata in Gerusalemme nella Pasqua del 32 d.C. tra i suoi discepoli ci sia  perfino una  gerarchia in relazione ai compiti affidati loro da Gesù .

In Giovanni, XII, 26 si legge che alcuni greci chiamano Filippo kurios e lo pregano di favorire un colloquio con Gesù e questo va da Andrea e con lui va da Gesù,  che parla di grano secondo la logica misterica di  Osiride…

Forse dopo i primi anni di regno di Gesù, il maran deve tenere a freno i vincitori aramaici sia gerosolomitani, che galilaici, che parthici, e quindi,  cerca di venire a patti con  gli  stessi sostenitori, limitati nella loro esuberanza vittoriosa,e nelle pretese di ricompensa legittima con le funzioni governative e le cariche  (cfr. Matteo, XIX, 27-29, Marco, X, 35-45), delusi nella spartizione del potere: il pensiero riportato dall’evangelista non corrisponde alla situazione di accadimento ma  è  collegato con quella di scrittura domizianea ed ha valore anagogico e morale, in una contrapposizione tra potere pagano dispotico, per honores e quello messianico per servitium/diakonia (cfr. l’uso di diakonos in relazione a doulos e il poliptoto diakonethhnai – diakonhsai al fine di mostrare l’exemplum di chi dà la vita per il riscatto di molti).

Il  maran mostra che servire  è  comandare   o meglio  è essere o politicos come Giuseppe figlio di Giacobbe,  che serve, pur essendo vicario del faraone, capace di realizzare i sogni del popolo:  essere re dei re, in terra giudaica vuole dire essere servo dei servi, nella coscienza sacerdotale, mosaica,  della sovranità assoluta, tipica  del nomos empsuchos.

Tale impostazione aramaica è attestata  in Alessandria da Filone  come diakonia/servizio, poi  ripreso da Paolo, da Clemente e da Origene  che, nel commento delle lettere paoline a Tito e a Timoteo mostra il servitium christianum  degli episkopoi nella quotidianità pratica e rituale…

Da qui la glorificazione  come atto di glorificare e come reale possibilità di essere glorificato ma anche come essa dipenda  da amare ed essere amato in comunità christiana, in cui prevale da una parte il rapporto fraterno di  isonomia e da un’altra la tenerezza familiare   tra capi ed  elementi paritari,  in un ‘assenza del giudizio e nella coscienza dell’imminente arrivo dell’ultimo giorno,  e quindi del ritorno del Signore.

In un tale contesto e in una situazione di pericolo oggettivo imminente, il termine to gloossokomeion ha un rilievo differente da quanto espresso per secoli dalla critica ufficiale cattolica che vede Giuda ancorato alla borsa dell’ amministratore, oikonomos, traditore della comunità.

Gloossokomeion  vale custodia delle linguette di strumenti  o di partes di utensili di  mestiere, anche se può significare  bastoncino di sostegno per membra fratturate, quasi  un tutore, ma può valere, oltre a scompartimento dell’organo idraulico  di una pompa,  anche come cofanetto, teca,  cassa, più che borsa e sottende un notevole patrimonio custodito, con cartulae commendizie bancarie, con sigilli e tabellae, tipiche di un mensarius o nummularius, affiliato coi pubblicani.

Insomma  il termine ha molteplici valori e non può essere ridotto al significato di semplice borsa di  denaro perché è la  preziosa  cassa di un oikonomos, che gestisce un patrimonio comunitario di consistente  ricchezza, connesso col numero di adepti e con le relative  tesserae  di ingresso, necessarie per il fondo comune della setta religiosa, ora potente dopo la realizzazione del Malkut/regno.

I compiti dell’oikonomos, in quanto amministratore della casa e dei beni  mobili ed immobili,  del patrimonio comunitario riguardano non solo l’entità patrimoniale liquida  ma anche il quotidiano esborso per il vitto,  per i pagamenti e la riscossione degli affitti specificamente per il  locale/Cenacolo, usato per il seder cena, non certamente per sole 13 persone, ma per un numero di oltre settanta persone, capigruppi  familiari, le cui famiglie – 6/7 elementi – celebravano la Pasqua in locali vicini festeggiando insieme, grazie all’ordinata gestione di Giuda e dei suoi diakonoi /assistenti finanziari. 

Il Gesù di Giovanni  13, 27-28-29 ha un parlare equivoco – dopo l’indicazione del traditore Giuda che viene interpretato solo in relazione agli eventi successivi,   concordato  a tavolino,  dopo gli esemplari narrativi  di Matteo e di Marco,  da Luca  e il suo gruppo e poi ripreso dalla scuola efesina.

Dopo la damnatio memoriae di Giuda Iscariota nel periodo domizianeo,  come uomo in cui  è entrato Satana (eishlthen  eis ekeinon o Satanas, 13, 27) nel cui cuore il diavolo (diabolos) aveva posto l’idea di tradirlo (ina paradoi, 13, 2), dopo lo psomion/boccone datogli dal maestro, inizia a serpeggiare tra le comunità asiatiche  la concezione della morte del Signore come glorificazione del padre in quanto redenzione dell’uomo dal peccato di Adamo, ed attesa della parousia ritorno  del figlio.

L’uso di Diabolos/accusatore da daiballoo e di o Satanas dall’ebraico Satan/l’oppositore per indicare il principe delle tenebre non sembra essere dell’epoca tiberiana, ma di epoca successiva, quando già è noto il derivato Diabolus latino, anche se  è proprio dell’area efesina e alessandrina  collegate con la Septuanginta, con Filone e poi con Clemente ed Origene…

Comunque il discorso di Gesù  sembra lineare solo se si conosce  la glorificazione del padre che compie la redenzione, tramite la morte del figlio ed allora il valore dell’ordine: quello che fai, fallo più presto/o poieis, poihson takhion ha significato  di  richiesta di persona che vuole affrettare l’evento salvifico.

E perché nessuno dei presenti che  giacciono accanto capisce  il senso di quanto detto!?

Chi scrive non ha fonti dell’epoca e nemmeno conosce i fatti realmente accaduti, ma solo la tradizione di una setta  cristiana  efesina, che considera diabolico Giuda e la paradosis/consegna del figlio  glorificazione del padre  con promessa di imminente ritorno. C’è un rimasuglio di memoria storica del fatto: alcuni pensavano che poiché Giuda teneva la borsa  gli avesse detto (13, 29) di fare i preparativi per la festa e di provvedere  anche ai poveri!

E solo alcuni, per Giovanni,  pensano che  quanto detto sia in relazione al fatto che Giuda  avendo to gloossokomion  debba andare a comprare  il necessario per la festa e fare  anche opera di Tzedaqah/ elemosina per gli ptookhoi/miserabili!

 E’ chiaro che la situazione non è quella di accadimento  e che Giuda ha una sua missione non conosciuta dal resto dell comunità in quanto l’incarico della paradosis  consegna del maran al nemico dopo il decreto del  nuovo sinedrio,  che ha ricevuto l’ultimatum di  Lucio Vitellio, è un atto dovuto, pubblico!

Gerusalemme può avere una Pasqua di sangue resistendo all’assedio  o Pasqua  di  trionfale liberazione,  arrendendosi ai romani!?

La scelta è  quella di consegna del maran aramaico ai romani che soli possono  creare basileus un civis, in una terra sottoposta all‘imperium!

La morte di uno solo è salvezza per molti: così sentenzia il decreto del Sinedrio di Gerusalemme!

Dopo oltre un secolo il Giovanni, diacono efesino,  non può avere memoria di un tale evento, specie se dopo la galuth adrianea!