Gesù e la samaritana al pozzo

Tutto il 4, 1-42 – l’Incontro di Gesù con la Samaritana – è un racconto giovanneo  non certamente unitario,  in apparenza scritto organicamente da una sola mano, ma  in realtà da tre scrittori, che hanno dato una certa unità.

Essi da una parte si connettono cronologicamente col vangelo di Luca 9,52 per il viaggio in terra samaritana, anche se il maestro non risulta  accolto (Strana discordanza!)  e da un’altra, concettualmente,  con Atti degli Apostoli, 4, 12 che  affermano con Pietro che solo Gesù è la salvezza in quanto testata d’angolo, seppure scartata.

La non omogeneità del brano con le discordanze conferma la tradizione di tutto il Vangelo di Giovanni, scritto  forse inizialmente da un discepolo del Christos, poi da un diacono di nome Giovanni  in  epoca traianea, e infine da un’altro diakonos,  pure lui chiamato Giovanni di epoca successiva a quella di  Adriano che, nel 135 d.C., cancella il nomen di Ioudea e quello stesso di Gerusalemme, (ora Aelia Capitolina) impedendo con la forza e proibendo per legge  il ritorno ai giudei nella zona, denominata Palestina.

L’insieme evangelico  ha qualche segno di memoria storica  di un incontro tra un Giudeo di nome Gesù ed una Samaritana,  innominata moglie di cinque uomini, di cui  quattro sono fratelli (o cugini o parenti) costretti  per la legge  del Levirato a dare figli al primo  marito, morto  senza eredi.

In tale racconto  iniziale (4,1-19), ben precisato contestualmente,  grazie al cronotopo, il pozzo di Sichem, quello lasciato da Giacobbe ai figli di Giuseppe, e  l’ora sesta di un giorno sconosciuto di epoca tiberiana, in cui il pozzo è definito di Sichar, secondo la lingua aramaica, in cui inizialmente il fatto è raccontato oralmente  e poi tramandato ed infine scritto.

Vi sono due aggiunte del signore al testo originario, che noi rileviamo precisando che abbiamo  molte perplessità ad accettare il passaggio di un galileo in Samaria in epoca tiberiana,  considerando spurio anche  il racconto dell’incontro di una samaritana con Gesù maran, insolitamente lasciato solo,  cosciente del differente linguaggio  tra una fedele del Karizin, che segue la lettura in senso  letterale,  e un ebreo, gerosolomitano, di lettura  allegorica, specie nel periodo di Malkuth (32-36 d.C.).

Sono due sistemi di lettura, uno quello samaritano della Bibbia samaritana ( che comprende Pentateuco e Giosuè), l’altro ebraico farisaico, sacerdotale, alessandrino ( perché  basato sul simbolo  secondo la interpretazione della scuola di Alessandria che ha i suoi maestri in Filone  e  poi nel II  secolo nei sophoi didaskaloi  del  didaskaleion clementino ed origeniano (sulla scia della lettura di Panteno).

Siccome  i due sistemi hanno valore in epoche  diverse sembra improponibile  che davanti a pozzo di Giacobbe  a Sikar, sia avvenuta la comunicazione tra  una samaritana e  un giudeo, circa l’acquato udor, sul matrimonio e sulla meraviglia e stupore dei discepoli davanti ad un maestro /rabbi che tratta con una donna, per di più samaritana, all’epoca considerata, indegna  di colloquio, in quanto  strumento diabolico.

L’indicazione stessa del luogo e dell’ora sesta -fissata proprio per mostrare il reale incontro, impossibile all’epoca tra Gesù e Samaritana ( in una sottensione adombrante quello tra Mosè e Saffira  e  le sorelle, figlie di Ietro,  nel Sinai)-  è indice che il primo narratore  conosce la  Bibbia samaritana, la topografia precedente la guerra romana 66-70 e il pozzo di Giacobbe  e la sua sua profondità di 39 metri circa, la concessione da parte del patriarca ai figli di Giuseppe,  Efraim e Manasse ,  in Sichar-Sichem (Gen. 33,19; 48,22;  Giosuè, 24,32).

Comunque, ammettiamo pure  che  il racconto di base sia autentico, non possono essere della stessa mano  le  prostheseis tou Kuriou /aggiunte del signore,  che sono  di epoca successiva e alla distruzione del tempio e alla  galuth adrianea,  in quanto sembrano essere  tipiche della cultura giudaico-cristiana  greco- ellenistica, efesina ed alessandrina.

Risultano spuri 4,25:  la donna gli dice: so/sappiamo che deve venire il Messia  che è chiamato Christos ; quando verrà lui,  ci annuncerà ogni cosa/legei autooi h gunh :oida/oidamen oti Messias erchetai,  o legomenos Xristos;  otan elthhi ekeinos, anaggelei hmin apanta.

O legomenos Xristos , come spiegazione di O Messias,  potrebbe essere derivato da Xristos outos hn, scritto nel 94 d. C.  da Flavio in Antichità Giudaiche,  XVIII, 63!

Il Giovanni diakonos, lo scrittore del passo  conosce  il testo del Testimonium flavianum?!o  è lui che ha influenzato chi ha fatto l’aggiunta del Signore nel brano flaviano!( cfr.  Antichità Giudaiche, XVIII, Introduzione,  traduzione, note e commento di A. Filipponi).

Il termine o messias giovanneo, una ellenizzazione di mashiah, aramaico, potrebbe  essere tipico di un entroterra culturale  samaritano, militaristico,  oralmente trasmesso e poi scritto in altri contesti o aree, specie  portuali, come Corinto  Efeso o Alessandria, dove è più comune o Christos !

Anche la risposta di Gesù  (4, 26)  è spuria:   io sono, quello che parlo con te/ egoo eimi, o laloon soi. (cfr. Filone,  De Joseph , 239: ekeinos on orate parestoota  autos eimi egoo)…

Il secondo scrittore – che fa l’epiphaneia di Gesù logos, capace di mostrare che giustamente la donna dice di non aver marito- può far dire a Gesù, riconosciuto come profeta dalla donna  che è giunto il  momento  in cui né sul monte Garizim né a Gerusalemme adorerete il padre … e che è venuto il tempo in cui i veri adoratori  adoreranno il Padre  in Spirito e verità (4,23).

Il  nuovo narratore vuole fissare (e si ripete) che lo Spirito Santo, conferito  agli uomini e la Verità della Rivelazione del Messias /Christos  sono basilari per il culto della nuovo tempo, in cui si sta vivendo.  Secondo l’autore  Gesù vuole marcare Kainh oora e perciò mette in relazione presente imperativo di  credimi/pisteue moi e il presente indicativo di  viene/erchetai col futuro adorerete/proskunhsete prima ed adoreranno/proskunhsousin poi (poliptoto) in una volontà di congiunzione di spirito tra popoli, nella coscienza che la salvezza/soothria viene dai Giudei.

L’altra aggiunta del Signore è quella successiva (4, 39-44) dove si parla del Salvatore del mondo/O soothr tou Kosmou, come professione di fede da parte di tutti i samaritani venuti ad ascoltare Gesù.

Il sintagma ha valore in Alessandria, dove è nei testi di Clemente e di Origene, in quanto è un nucleo centrale della doctrina alessandrina cristiana, ripreso dalla traduzione dei Settanta – e non presente nella Bibbia Samaritana – nella interpretazione del salmo 122, e  di  Isaia, 64-65, come tempo messianico, e di Giobbe,19,11,   a seguito della lettura paolina di I Timoteo, 1, 15 (Gesù Cristo venne nel mondo per salvare i peccatori…esempio a coloro che crederanno in lui per la vita eterna).

Dunque, al di là dei ragionevoli dubbi sul testo generale, Giovanni (4,15) rileva l’affermazione della donna, dopo che il galileo ha parlato di avere una sorgente di acqua viva  in sé: signore dammi di questa acqua, che io non abbia più sete e non debba venire continuamente qui ad attingere acqua!/kurie, dos moi touto to udor, ina mh dipsoo mhde dierchoomai enthade antlein!

La richiesta di una samaritana ad un giudeo non è possibile in epoca tiberiana ed ancora meno in epoca antonina e severiana, al tempo della scrittura di Origene, che legge dià sumbolon, un testo di un ebreo postadrianeo.

II nome della località stessa indica che chi scrive, arcaizza di   proposito,  anche se  conosce  la topografia del dopo Galuth  adrianea.

Anche gli autori cattolici  conoscono Sikar aramaica distrutta nella guerra del 66-70  d. C. dai romani, ricostruita  solo dopo il 138 d.C. col nome  Sichem (attuale Tell Balata).

Personalmente ritengo il vangelo di Giovanni scritto tra il 135-145 d.C in Efeso da un ebreo molto vicino al contesto alessandrino; di questo ho parlato in tante altre opere.

Qui rilevo la lettura di Origene del testo giovanneo a distanza di quasi un secolo dal possibile incontro tra un Giudeo e una samaritana, quando già esiste il mysterium dell ‘Eucarestia, della Trinità e di Gesù Christos Theos, Logos.

L’acqua stessa, nella tradizione dell’Antico Testamento, ha  valore di sumbolon   dell’azione dello Spirito di Dio nelle persone.

In Geremia (Ger., 2, 13)  l’acqua viva della sorgente  è opposta all’acqua della cisterna (Perché il mio popolo ha commesso due mali: ha abbandonato me, sorgente viva d’acqua per scavare  delle cisterne).

Da qui il suo monito quanta più acqua si attinge tanta meno  acqua si avrà. Lo stesso pensiero è in Isaia (Is., 12, 3; 49, 10; 55, 1; 99)  e in Ezechiele ( Ez., 47, 1-3)  che rilevano la necessitas di  tornare ad attingere acqua.

La richiesta di bere di Gesù, giudeo, alla samaritana che ha coscienza della diversità tra la sua etnia e quelle ebraica,  diventa un dono di Dio (thn dorean tou Theou) ed un’epiphaneia /manifestazione divina  ai samaritani.

La comunicazione impossibile avviene in assenza dei discepoli che sono andati in città, una località giudaica per procurarsi cibo  non reperibile tra i samaritani che non intrattengono  relazioni  neanche commerciali coi Giudei.

Il verbo sugchroomai vale uso prendendo in prestito  o noleggio  ed è in relazione ad emporia  di proprietà giudaica o ad emporoi giudaici, non samaritani, che non commerciano né con Galilei, né con Giudei, pur facendo parte della stessa provincia romana Iudaea  e nemmeno con gli Idumei, ma solo  con gli erodiani, della stirpe di Erode il Grande.

Nonostante la reticenza della donna samaritana, richiesta imperiosamente di acqua da un giudeo, che neanche  dovrebbe avvicinarsi ad una  samaritana, Giovanni marca il dono di Dio fatto da Gesù alla donna, stizzosa ed ostile.

Infatti Giovanni scrive:  se sapessi il dono di Dio e chi è  che ti dice Dammi da bere, tu stessa glielo avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva (udoor zoon)

La donna legge quanto dice Gesù  letteralmente e si meraviglia che uno abbia acqua viva  celia  stizzosamente  su uno straniero che senza avere lo strumento antlhma/secchio  per attingere in un pozzo profondo, può dissetare gli altri ( e non se stesso, fonte).

Per una donna che ha un sistema di lettura samaritano, eretico, e che ha un altro credo in Dio, non è comprensibile quanto poi dice Gesù che ha un altro codice,  con altro sistema esegetico, altra doctrina ed altra tradizione  culturale, ortodossa, propria della cultura alessandrina greco-ellenistica  basata sull’ allegoria:  Chiunque beva di questa acqua  avrà di nuovo sete, ma chi beve  dell’acqua che io gli darò,  non avrà più sete in eterno, anzi l’acqua che io gli darò diventerà in lui fontana zampillante nella vita eterna / pas o pinoon  ek tou udatos toutou dipshsei palin, os d’an pihi ek tou udatos ou egoo doosoo autooi, genhsetai en autooi pegh udatos allomenou eis zoohn aioonion (4,13-14).

La novità della frase giovannea  è  nell’uso ripetuto  di eterno con diverso significato (poliptoto) , contrapposto alla necessità  della samaritana che deve tornare sempre a bere l’acqua del pozzo.

Chi berrà invece l’acqua sorgiva data da Gesù non avrà sete in eterno /ou mh dipsesei eis ton aioona e diventerà  sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna/phgh  udatos allomenou eis zoohn aioonion!

Dunque, c’ è in questo brano una precisa esigenza, quella di mettere insieme l’idea di Gesù  sorgente di acqua  sorgiva eterna, e  quella del Christos   cibo /broosis da mangiare in eterno, sconosciuto ai discepoli.

E’ anticipazione della coena e del pane- corpus Christi?!

Infatti  i discepoli al ritorno dicono al maestro di mangiare e lui  non mangia tanto che i suoi credono che qualcuno abbia a lui portato qualcosa.

L’evangelista, poi,  fa dire a Gesù: mio cibo è fare la volontà di chi mi ha mandato e di compiere l’opera sua.

Gli fa aggiungere: non dite voi ci sono ancora quattro mesi  e poi viene la mietitura ? ecco io vi dico levate i vostri occhi  e guardate le campagne che biancheggiano  per la mietitura.  Già chi miete riceve mercede così che ne goda insieme  e chi semina e chi miete.

E l’evangelista fa concludere Gesù:   io vi ho mandato a mietere  ciò per cui non avete faticato, altri hanno faticato e voi siete  sottentrati  nel loro lavoro (eis ton kopon).

il discorso del Giovanni efesino è che Gesù parla per proverbi e in relazione a Kohelet dell’Ecclesiaste volendo dire che si è nel  tempo di mietitura  ( Mt 3,10 e Luca  3,9) e che non c’è tempo da perdere (Mc, 3,20).

In queste parole sono sottese forse il suo Regno terreno e la possibilità di raccolta per i suoi discepoli, mietitori  che, dopo la vittoria,  senza aver faticato raccolgono là dove non hanno  seminato?

Questo linguaggio giovanneo  è segno di un parlare egizio secondo il grano-Osiride, che muore e rinasce eternamente, in un continuo manifestarsi prodigioso, come simbolo di vita perenne in quanto pane eucaristico.

Dunque, in Giovanni acqua e pane   diventano elementi eterni  per il discepolo del Christos, fonte e magazzino eterno di vita!

Il subentrare eiserchomai (eiselhluthate ) – ha anche valore giuridico nel senso di presentarsi  di un nuovo  padrone, come uomo che  entra  e gode senza lavorare del frutto del sudore altrui, di chi  ha lavorato ed è sfinito dal battere (kopos da koptoo).

Il verbo sottende che il discepolo di Christos  raccoglie là dove non ha seminato e che  mette nei sacchi e porta nei depositi  quanto doveva essere  invece di godimento comune con chi semina e miete: i primi saranno gli ultimi e gli ultimi saranno i primi!?

Giovanni è il codificatore di tale morale!?