Giusto di Tiberiade e Giuseppe Flavio
Giusto di Tiberiade fu storico di cose ebraiche, considerato non inferiore a Giuseppe Flavio.
Era uomo di famiglia cittadina, imparentata con Filippo, figlio di Jacimo e quindi con la famiglia di Zimari, il traconita (cfr A.Filipponi. Giudaismo Romano, I parte).
Viveva a Tiberiade quando Giuseppe vi giunse come governatore della Galilea per fortificarla e difenderla da Flavio Vespasiano, inviato da Nerone con 3 legioni e truppe ausiliari, intenzionato ad invadere e a sottomettere , città per città, la regione.
Egli era figlio di Pistos, che era uomo di Erode Agrippa II, che deteneva il potere nella ex tetrarchia di Filippo.
Pistos, come uomo di Agrippa, godeva della sua fiducia ed era consigliere in affari politici ed anche consulente per le cose religiose gerosolomitane e templari, specificamente, legato forse ai consiglieri imperiali di Claudio.
Perciò era al corrente (o era influente) quando Erode Agrippa II assegnava il sommo sacerdozio, nominando persone a lui devote.
Il padre di Giusto, inoltre, era ancora al fianco di Agrippa II quando Domizio Nerone con un nuovo mandato aveva affidato al re l’amministrazione di Abila e di Livia Giulia in Perea e di Tiberiade e di Sepphoris in Galilea.
A Pistos e a Giusto non sfuggiva la reale situazione delle Galilea supertassata perché considerata il giardino ebraico: le relazioni che Pistos riceveva giornalmente dai capitani distrettuali, dagli archontes, dai sacerdoti, dai dirigenti e perfino delle scuole (didaskaleia) e delle sinagoghe (proseuchai), o verbali o scritte, e le note rilevate dagli archivi erano allarmanti: l’amministrazione regia insieme ai sacerdoti e ai romani chiedeva sempre e tassava; la popolazione doveva pagare e, se non pagava, ingrossava le file degli zelotai.
I lavoratori dei porticciuoli di Tarichea e di Tiberiade pagavano senza più lamentarsi come i technitai , come i pescatori, i calafati, gli operai ma erano consci che. pur vivendo in una terra promessa, il frutto del loro lavoro confluiva a Cesarea per l’imperatore e a Gerusalemme per i sommi sacerdoti, a Tiberiade per il re.
I contadini dovevano pagare le imposte in natura: la metà del vino e dell’olio, la terza parte di grano e e la quarta parte di frutta; solo Gerico pagava di più, in relazione al valore del balsamo.
Ma oltre a queste bisognava pagare la decima per il tempio, la tassa annuale ad ogni inizio del mese anticipata, contribuire per i pellegrinaggi, pagare l’imposta del sale, i pedaggi sui ponti e perfino sulle strade.
La famiglia di Pistos, seppure laica, era temuta da Giuseppe Flavio, che era di origine sacerdotale, sadducea, allora pericolosamente in lotta col sacerdozio essenico giacobita, coreggente nel tempio, anche nei primi due anni di guerra.
Giuseppe aveva avuto un mandato più militare-politico che amministrativo, affidato agli altri due sacerdoti, inviati con lui da Gersalemme, coi quali non era in buoni rapporti, che avevano cura degli archivi di Sepphoris: la realtà amministrativa, quindi, era un punto oscuro per lui .
Flavio, perciò, non aveva contatti reali con Giusto che doveva oltre tutto salvaguardare gli interessi del re.
E contro il re, non potendo sfogarsi coi romani, si adoperavano Sapita di Tiberiade, un capo popolare e Giovanni di Giscala, specificamente un antierodiano ed antiromano, che, nutriti di messianesimo. inizialmente, si erano collegati con Giuseppe sacerdote, inviato dal To koinon di Gerusalemme e se ne sentivano protetti.
I rapporti. quindi, tra Giuseppe e il figlio di Pistos non potevano essere normali, data la protezione ai nemici del re, e furono sempre più difficili, complicati anche ulteriormente da Giovanni di Giscala, come si desume da Bios, unica opera in cui si parla di Giusto di Tiberiade.
I due uomini, comunque, veri ebrei, erano in quel particolare momento storico, dal lato politico, due espressioni, -nonostante i ruoli e le funzioni specifiche in relazione al loro grado e alla dipendenza rispettiva dalla Comunità gerosolomitana e da quella regia – molto simili di giudaismo aramaico, più o meno connesso con la cultura ellenistica: erano inizialmente ambedue integralisti, quindi fedeli alla legge, ma con due diverse connotazioni: una sacerdotale e quindi di grande compromesso secondo le linee sadducee ed erodiane, l’altra più popolare quindi più portata alle rivolte/staseis.
All’epoca dei fatti galilaici nel biennio 66-67, ambedue erano, comunque, ferocemente antiromani, poi si divisero nel corso della guerra fino alla tragica fine del tempio e alla presa di Gerusalemme, per convivere a Roma coi vincitori, all’ombra ambedue del re Agrippa II e di Berenice amante di Tito, sotto la protezione imperiale, con due diversi ruoli, ma riappacificati, a seguito della comune sconfitta.
Ed allora da dove viene questo parlare contro Giusto di Bios (336-367)?
Come Giuseppe Flavio può parlare di Verità, di falsificazione di documenti da parte di Giusto e come può rivendicare l’onestà e la linearità della sua conduzione militare in Galilea, come rappresentante della comune di Gerusalemme, come esecutore della politica sinedriale e, come traditore, dopo Iotapata?
Di quale verità parla Giuseppe Flavio, un uomo che ha tradito la patria, un sadduceo che si è allontanato dalla propria tradizione sacerdotale, un fariseo per scelta, che si è mescolato con pagani, un giudeo che convive col vincitore romano, dopo una sconfitta militare personale, dopo una più grave, quella nazionale, con la distruzione del tempio e il trionfo dei Flavi a Roma?
Di quale verità parla lui che ha sfruttato proprio quel momento buio della storia giudaica, per giustificare il suo tradimento a Iotapata e comprarsi l’impunità, mentendo, per avere una vita onorata e protetta dagli imperatori?
Il suo opportunismo (eukaria) tipico dei sadducei e degli erodiani (con cui ha legame di sangue) abili a saltare sempre sul carro dei vincitori, ad abbandonare il plethos, consci che la prima vittima della guerra è proprio l’aletheia/ verità.
Infatti Flavio, stando accanto al suo re Agrippa II, alla sua regina Berenice convivente a Roma, sotto la protezione della casa regnante, seguendo i commentarii di Vespasiano, dopo l’autorizzazione dello stesso Agrippa, divenuto storico ufficiale, scrive la sua verità in Guerra Giudaica, una storia filoromana, applaudita dai romani, nei circoli culturali e letterari della capitale ed anche dagli ebrei filoromani, sacerdoti ed erodiani, i superstiti della strage romana, gli unici a non aver i segni (o ad averne pochi ) del male della guerra perduta, della catastrofe del popolo giudaico.
Questa sua storia della Guerra non è fedele lettura dei fatti veramente accaduti, ma una lettura dall’angolazione filoromana e romana, tale da mostrare la venuta di una Messia dall’ Oriente, di un soter orientale anche per l’Occidente in Vespasiano e nella sua famiglia, destinata a sostituire la tirannia neroniana e giulio-claudia con la sua illuminata amministrazione e con un nuovo apparato legislativo, diverso da quello della precedente dinastia.
Di quale colpa Giuseppe accusa Giusto di Tiberiade , che è uomo cresciuto secondo i principi mesopotamici propri della maggior parte della popolazione, di stirpe nobile, di Tiberiade, da una quarantennio venuta ad abitare la città, fondata da Erode Antipa in onore di Tiberio, dopo aver avuto doni e premi come accoglienza dal tetrarca (cfr. A.FILIPPONI, L’eterno e il regno).
Di che accusare un vero ebreo della stirpe di Zimari, famosa per il militarismo e per l’integralismo, e perché dare colpe al figlio di Pistos, un rivoluzionario, messianico?…
Accusare Giusto di aver falsificato gli atti degli archivi che, proprio in quello stesso momento del 66-67, vive le sue stesse contraddizioni, ma in modo più lineare e secondo la propria tradizione antiromana e in uno stato di agitazione a causa della guerriglia antigiudaica delle popolazioni greche della Decapoli, è una costruzione successiva, fatta a tavolino, come appendice all’Antichità Giudaica.
Eppure Flavio in quello stesso lasso di tempo insieme aveva cooperato con Giusto in senso militare antiromano, ma con diversi obiettivi e poi l’uno e l’altro avevano seguito due linee opposte, l’uno quella del tradimento, l’altro quella di un difficile rapporto col suo re, compromesso con la politica romana, costretto subire l’imperium militare romano, troppo superiore alle forze ebraiche, con cui, però ci sono ancora legami, ambigui, fino all’epilogo tragico bellico.
La storia dell’aletheia del re Agrippa, di Flavio e dei Commentarii di Vespasiano è un un compromesso fatto di omissioni, di equivoci, di ambiguità, di sotterfugi, da una parte, propri del giudaismo ellenistico, che serve due padroni e da un’altra, tipici di una domus servile che ambisce innalzarsi alla pari di quella giulio-claudia- dato il trono illegittimo su cui siede- e di un calcolo politico romano che deve sfruttare l’ebraismo, ancora superstite senza inimicarsi quello parthico, che, comunque, non digerisce la desolazione della distruzione del tempio …
Retorica ed aletheia diventano due espressioni vuote di una reale falsificazione della tragedia ebraica, il cui canto si interseca e poi si traduce in storia cristiana.
Finché vive il garante di questa falsificazione generale storica, cioè fino al 93-94, anno ultimo, oltre cui non si può datare la morte di Agrippa II ( è da ritenersi falsa la notizia di Fozio di una morte del re nel quarto anno di epoca traianea, perché non comprovata da monetazione, che si arresta all’epoca domizianea), Giuseppe e Giusto convivono alla stessa ombra e si rispettano, nonostante le due differenti strade e i due diversi ruoli e il diverso credito nell’ impero e tra i gli ebrei della diaspora.
Alla morte del Re i due, che avevano perfino in comune il nome di Giusto, il secondo figlio di Giuseppe, iniziano a parlare di aletheia, di falsificazione rivelando alquanto l’ambiguità ed equivocità giudaica e mostrano le due effettive culture, da cui sono alimentate, da cui è possibile trovare qualche segno ulteriore di storicità reale specie nel periodo del governatorato di Giuseppe in Galilea.
Da quanto si evince dalla descrizione dei fatti, in Bios, i due in realtà avevano, dopo il periodo comune antiromano, chiuso per l’uno con la presa di Iotapata e per l’altro con la resa di Tiberiade, con la belligerenza personale, a seguito di una vita filoromana, e, di conseguenza, avevano avuto due diverse ricompense: Flavio aveva costruito la sua storia di filoromano e di storico ufficiale della domus Flavia avendo avuto riconoscimenti premi ed onori crescenti; Giusto invece era rimasto all’ombra sotto la protezione di Agrippa II in un ruolo inferiore come segretario del re, ma aveva avuto molte traversie.
Infatti dopo l’accusa di mestatore in Tiberiade, fatta da Vespasiano stesso, era stato salvato dal suo re ma poi era stato per ben due volte imprigionato forse perché legato ad integralisti e poi bandito da Agrippa, anche dopo che aveva svolto la sua funzione di segretario.
Agrippa era un rex socius dei romani e quindi non poteva avere al suo fianco un fervido antiromano: Giusto, perciò, dopo venti anni, alla morte di Agrippa, accusa Giuseppe di essere stato un combattente, un antiromano, che era stato abile ad integrarsi e a mostrarsi sincero amico della famiglia imperiale.
Secondo Giusto, Giuseppe Flavio, da moderato, racchiuso in se stesso il dolore della fine del suo popolo, aveva trovato un modo per salvar se stesso e per salvare anche il giudaismo sconfitto, dopo la distruzione del tempio, nel grave momento della desolazione.
Flavio si era comportato da moderato come se avesse capito la lezione romana: Roma ha il destino dagli dei di dominare con le armi il mondo e di assicurare la pace; Gerusalemme rischia di essere eliminata dalla storia se seguita a competere per il primato con Roma; la speranza del Malkuth e della fine del mondo e di una palingenesi è naufragata: Dio si è “rinchiuso”!
L’economia provvidenziale divina è stata letta secondo la legge e il piano di Dio è stato interpretato in senso moderato e quindi è riconosciuta la funzione romana di privilegio nel periodo successivo la distruzione del Tempio (voluta da Dio!).
Anche Giusto forse all’epoca dei fatti era uno strano moderato anche se tra gli integralisti, fautori irriducibili della necessità della guerra contro i Romani (di cui egli temeva la forza militare come il suo re) coscienti che Dio sarebbe stato dalla loro parte ed avrebbe instaurato il Malkuth per i suoi figli, che , comunque avrebbero dovuto rimanere nella tzedaqah.
Giusto, però, non è realmente moderato, pur fingendosi tale, nel corso del ventennio, anche perché non ha avuto niente dalla sua collaborazione col re e con l’imperatore e quindi ha maturato la rabbia del perdente, che ha cercato sempre vie nuove di un’ apertura in senso parthico e nuovi orizzonti per il riscatto di Israel, preferendo la morte da martire alla vita da servo.
Non condivido né la posizione di Tessa RAJAK, Justus of Tiberias “CQ” 23, 173) pp 48-363 nè quella di A. BARZANO’, Giusto di Tiberiade, ANRW (Aufstieg und Niedergang der roemischen Welt ) II,20,1 Berlin, 1986 pp 337-358.
Giuseppe assunse (dopo il ritorno da Roma e le accoglienze di Poppea a Corte), il comando della Galilea nel 66 incaricato dal sinedrio di Gerusalemme insieme ad altri due ed era giovane sacerdote sadduceo, anche se di mentalità farisaica, certamente intenzionato a dare filo da torcere ai romani e fece del suo meglio fino alla presa di Iotapata ma, dopo la sconfitta, divenuto transfuga, aveva appreso il greco ed aveva iniziato a scrivere la Storia giudaica (in aramaico) pubblicata in greco, a spese statali, svolgeva la funzione di interprete, odiosa ai suoi connazionali (contribuli e correligionari).
La sua opera era stata posta in biblioteche pubbliche e l’autore aveva perfino avuto una statua (Eusebio St. Eccles. 3,9) forse da Domiziano.
Certamente, la sua filoromanità divenne maggiore dopo la scrittura di Storia giudaica e si completò nel ventennio in cui elaborò Antichità Giudaiche, mentre già il patriottismo giudaico risorgeva e si faceva minaccioso, come si evidenzierà nella guerra traianea contro Petra e poi nella guerra di Kitos (Dione Cassio,St., LXVIII 2 ).
Infatti la sua presenza a corte, dopo la cittadinanza romana e i riconoscimenti da parte della famiglia regnante, lo resero uomo di grande rilievo nel giudaismo e perciò odiato per i suoi trascorsi sia dai cives romani che dagli integralisti giudaici che non perdonavano il suo tradimento, ricordando il servizio prestato come interprete e come capo delegazione dei flavi nel corso della guerra e specie nella presa di Gerusalemme.
Giusto, invece, era rimasto sempre della stessa idea, seppure in modo ambiguo, ed anzi appare a Giuseppe come uno dei capi di Tiberiade, perciò suo grande accusatore( Cfr. Bios, 32-42).
Giusto, dopo la sua morte, lascia un’opera che è ancora letta perché nella rivolta in epoca traianea al tempo della guerra di Kitos i giudei ne facevano un eroe come anche in epoca adrianea, durante la rivolta di Shimon Bar Kokba.
La sua opera era sopravvissuta anche all’epoca severiana ed era letta pure in epoca dioclezianea, e perfino dopo l’avvento del cristianesimo, anche se già Giuseppe Flavio in quanto ellenizzato e romanizzato, traditore giudaico, era preferibile ad un patriota, integralista aramaico.
In ambiente occidentale, cristiano, Giusto era stato già oscurato, mentre ancora circolava qualche sua copia in Oriente (Diogene Laerzio- II,41 -che parla di una sua storia universale) rimanendo viva la sua storia fino a Fozio (Bibliotheca o Myriobiblon, Adelphi 1992).
Sorprende che Eusebio (St.Eccl.III,10) e Girolamo (De viris illustribus, 14) non ne parlino espressamente nelle loro opere : ancora viva era la sua opera ma questi, essendo rabbiosi contro i giudei, lo citano soltanto, eppure lo conoscono indirettamente perché accennano al Bios di Flavio dove è ben rilevata la figura di Giusto, figlio di Pistos di Tiberiade.
Solo Fozio, dunque, lo conosce e, dopo di lui, non ci sono più tracce dell’opera dello storico ebreo.( Fozio cod. 33 cfr. Photius, Bibliotèque,Tomes I-IX ,Paris, Les belles lettres 1959-91)
Giusto, dunque, scrisse Khronikon dei re giudei sotto forma di genealogia, proprio come Antichità Giudaica .
L’opera di Giusto, però, col suo titolo (Cronaca dei re con gli stemmi) ( Basileon ton on tois stemmasi ) fa pensare ad una vera e propria integrazione dell’autore nel mondo romano in quanto sottende col termine stemma la corona di alloro, circondata di lana, quasi in una comunione col Dio, a cui si legava il proprio destino, secondo il mondo agricolo romano.
Insomma il termine stemma rinvia ad usi e costumi italici e ad una tradizione non ebraica e questo potrebbe indicare una adesione alla cultura flavia da parte di Giusto, che pur era rimasto sotto la protezione di un re ellenistico come Agrippa II philadelphos.
Ma questa opera probabilmente fu scritta quando era ancora vivo Erode Agrippa: la datazione della sua morte dovrebbe essere poco prima del 93-4 non deve andare oltre (Cfr.A.FILIPPONI, Giudaismo romano II parte).
Anche Elvira Migliario (Autobiografia, Bur,1994) data la morte di Agrippa II così e sembra rifiutare la notizia di Fozio.
Giusto, dunque, in seguito dopo la morte del re, riprese la sua attività in senso antiromano, covata nel corso del ventennio all’ombra del re giudaico.
Comunque sia, la sua opera nel corso della guerra del 66-70 fu certamente in opposizione alla politica di fortificazione e di potenziamento militare di Giuseppe… : per Giusto Dio era il baluardo (perché pater,abba) e solo la penitenza e il martirio dei veri giudei erano necessari per l’avvento del Malkuth, che coincideva con la fine del mondo….
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