Caro Mattia, ti voglio raccontare la favola di Gilgamesh re di Uruk, oggi Warka (Diwaniyah), una città della Bassa Mesopotamia (Iraq) non lontana da Umma, vicino a Nassiryah. E’ un’opera scritta in cuneiforme, prima sumerico, poi accadico, molti molti secoli fa, migliaia di anni prima di Cristo.
Allora, oltre cinquemila anni fa, la città era la più grande del mondo e lì viveva un popolo, i Sumeri, che non conoscevano il peccato, ma solo gli dei del cielo e la terra, dove i regnanti combattevano fra loro e disputavano per costruire il tempio, luogo di incontro tra il mortale e l’immortale,
Il tempio dur.an.ki era la casa della la casta sacerdotale, destinata a fare sacrifici e riti propiziatori per gli altri uomini!
Perché, nonno, mi vuoi raccontare ora, che sto facendo storia romana, Gilgamesh?
Mattia, la vuoi la favola?!
Me la potevi raccontare quando facevo Sumeri, Assiri, Babilonesi?
Mattia, la vuoi sentire o no la favola di Gilgamesh?
Va bene, Nonno ! Raccontala….
Ci sono molte versioni di questa favola, a seconda dei tempi di narrazione, dell’importanza dei dominatori di quella terra (Sumeri, Accadi, Neo sumeri, Assiri, Babilonesi, Persiani, Macedoni); nonno ti racconta quella narrata forse da Beroso, nato a Babilonia, greco, attivo nel III secolo av. C., scrittore di Babilioonikà in tre libri.
Lo scrittore, vivente ad Antiochia, presso Antioco II (261-246 a.C.), faceva l’interprete e il consulente militare, ma era anche un sacerdote caldeo, un astronomo, capace di predire il futuro sulla base delle conoscenza degli astri, delle costellazioni, abile lui stesso ad osservare i fenomeni celesti nel corso dell’allineamento in Capricorno.
La sua opera è giunta a frammenti ed è citata da autori ebraici e cristiani, come esempio di favola/muthos, rispetto alla verità/ aletheia giudaico-cristiana.
La favola di Gilgamesh in Beroso doveva avere un particolare rilievo nel I e II libro di Babilioonikà subito dopo la trattazione della creazione del mondo tanto da dovere essere una testimonianza dell’antichità della religione sumerica, precedente quella di ogni altro popolo, compreso l’egizio e l’ebraico.
Caro Mattia, c’era una volta in una regione posta tra il Tigri e l’Eufrate, quasi alla confluenza tra i due fiumi, una grandissima città, chiamata Uruk.
Viveva Gilgamesh ad Uruk, dove regnava con intelligenza, ma in modo spietato sui propri sudditi, che soffrivano per la sua crudeltà.
Era un essere gigantesco, che aveva una complessione fisica che gli permetteva di essere anfibio, cioè di respirare aria e ma anche di vivere sotto acqua, di rimanere alla luce del giorno ma anche nel più profondo buio.
In relazione a questa doppia natura, Gilgamesh aveva una potenza di molto superiore a quella umana degli altri.
Allora i sudditi pregavano il Dio di inviare in loro soccorso uno pari a Gilgamesch in modo da contrastarlo in qualche modo.
La dea A.ru.ru dàva vita ad un essere, En.ki.du, dai tratti umani incerti, dotato anche lui di una doppia natura, più ferina che ittica, che viveva nelle foreste in mezzo ad animali, di cui era amato e riverito protettore.
Il mostruoso individuo veniva attirato ad Uruk presso una ierodula, una specie di strega e sacerdotessa, che lo trasformava in un vero uomo, comunque gigantesco, tanto da non essere più riconosciuto dagli animali, che si rifugiavano, timorosi, nelle foreste.
Enkidu, seguendo la maga, veniva in città ed incontrava Gilgamesh ed iniziava un combattimento che seminava distruzione, dovunque, data la mole dei due antagonisti, che, comunque, pur lottando, scherzavano fra loro e ridevano e, alla fine, cedevano ad una sincera amicizia, destinata a durare per sempre.
Nonno, i due diventano, amici ed insieme che fanno?
Mattia, i due si allontanano dalla civiltà della città e vanno alla ricerca di imprese gloriose, essendo giganti, di cui non si conosceva neanche se la reale provenienza era terrena o celeste o marina.
Tra le tante imprese, fatte da loro, mi piace narrare quella contro il gigante Hum.ba.ba, nota in ambiente accadico, qualche secolo dopo.
Era Hum.ba. ba un essere potentissimo, incaricato di custodire la foresta dei Cedri.
Gilgamesh ed En.ki.du lo vincevano dopo lungo combattimento e lo sottomettevano al loro volere: i due discutevano sulla sua sorte, incerti sul cosa farne, ora che non era più pericoloso.
Gilgamesh, razionalmente, riteneva che Hum.ba.ba vinto e chiedente di vivere, doveva essere risparmiato; Enkidu, essere primordiale, non pensante, passionale, decideva di ucciderlo, trascinando l’amico, che pure intuiva il valore di morte e di simbolo del cedro, segno di lunghissima vita o di immortalità o di armonia. insita nel gigante sconfitto, elemento naturale.
Hum.ba.ba era a suo modo l’unione di cielo e terra, forza primigenia, simbolo dell’eternità stessa del cedro, il cui Me/destino si compiva, ma non finiva, diventando, al di là della morte, una forza vitale in un processo di permanente risurrezione mediante nuove forme di vita.
Infatti, mentre i due mangiavano, poco dopo, ricompariva Hum.ba.ba per dividere il cibo con loro, per una specie di comunione, in un banchetto simbolico cosmico, come se si volesse indicare un ciclo triplice di rinascita, di trasformazione e di perpetuazione di vita.
Nonno, non capisco tutto quello che vuoi dire, ma comprendo che ogni elemento ha una sua vita ed è partecipe della vita universale.
E che succede, Nonno?
Interveniva, allora, Inanna, divinità del mattino, della luce e della forza nella sua massima espressione di violenza amorosa che, innamorata di Gilgamesh, lo dichiarava eroe, come riconoscimento della sua bellezza e del valore e si contrapponeva a sua sorella Eresh.ki.gal, dea della morte e signora degli inferi.
La dea proclamava il suo amore per l’eroe che invece la rifiutava e si allontanava.
Gilgamesh conosceva le innumerevoli avventure amorose della dea, che agiva crudelmente coi suoi amanti, che finivano tutti tragicamente in un buio senza fine, misterioso.
Inanna, adirata per il rifiuto, pregava il dio An, suo padre, di scatenare il Toro celeste contro i due amici e di punirli.
I due vincevano, dopo un lungo combattimento, il Toro celeste e lo facevano a pezzi e, inorgogliti, sfidavano la dea, contro cui Enkidu scagliava una zampa del toro, ed incalzandola giungeva fino ad un contatto con lei, tanto che improvvisamente, come fulminato, si afflosciava, senza vita, essendo compiuto il suo Me/destino.
Davanti al cadavere dell’amico e alla sua rigidità, Gilgamesh scopriva la morte e, straziato dal dolore, davanti al corpo, muto per la paura, prendeva coscienza della necessità di sfuggire alla sorte mortale e di cercare l’immortalità.
Nonno, solo alla morte di Enkidu, scopre il valore della condizione dell’uomo e il significato dell’immortalità?
Si. Mattia
Enkidu è un altro se stesso e perciò l’eroe capisce la morte, sentendola vicina, parte della sua vita stessa.
E che fa, allora, Nonno?
Gilgamesh sa che Enlil, il dio dell tempeste, il supremo, ha distinto An cielo da Ki terra ed ha voluto un legame tra i due per gli uomini, il tempio, e che ha imposto lo sterminio degli esseri umani, che infastidiscono il suo sonno, col diluvio, ed ha premiato con l’immortalità solo Zi.ud.sud.du, salvato da Enki signore della terra e dell’intelligenza, grazie all’uso di un’arca.
Perciò, Gilgamesh, sa che gli uomini, i semi e gli animali, posti nell’arca, salvatisi dal diluvio, hanno ripopolato la terra e da loro conosce che il patriarca vive isolato dagli altri in una landa misteriosa e desolata ai confini del mondo.
Ed allora Gilgamesh va alla ricerca dell’uomo che ha visto il diluvio e si è salvato -chiamato anche Utnapishtim – in un viaggio interminabile.
L’ eroe compiva così numerose imprese, Mattia, incredibili, rimanendo anche mesi sotto acqua, prima di incontrare Zi.ud.sud.du l’uomo dalla vita di lunghissimi giorni.
Questi abitava in una zona, in cui non c’erano vie, né acque, né alcun accesso e perciò l’eroe rimaneva spesso pensieroso ed incerto se cessare la sua ricerca dell’immortalità, ma faceva sempre prevalere la volontà di finire l’impresa, quando ricordava il corpo immoto di Enkidu.
Un giorno scoprì, sotto i suoi piedi, una voragine e da lì trovò il pertugio che, dilatandosi, per strani viottoli, con molti giri, quasi concentrici, giunse improvvisamente davanti al Vegliardo…
Gilgamesh implorava il vecchio, dalla barba bianca ma aitante come un giovane atleta, che a lui fosse data la possibilità di non morire, affermando che aveva fatto un percorso impossibile e di non aver lasciato tracce del suo passaggio.
Zi.ud.sud.du non diceva niente, ma gli diede una pianta marina; poi con un cenno lo licenziò e gli fece capire con segni che lontano da lui avrebbe dovuto conservarla, per mangiarla al momento opportuno, per avere la giovinezza, quando avvertiva i segni della vecchiaia .
Felice, Gilgamesh affrontava il viaggio di ritorno, ma durante il tortuoso cammino tra i tanti meandri sotterranei, muovendosi a stento, s’imbatteva con un serpente che gli rubava la pianta e la mangiava sotto gli occhi increduli dell’eroe.
E che fece Gilgamesh, nonno ?
Niente.
Vide solo il serpente che cambiava pelle e ne prendeva una nuova, prima di fuggire!
Sconsolato, prese atto che a lui non restava altro che la condizione umana e che presto il suo Me destino si sarebbe compiuto, come per Enkidu.
E tornò ad Uruk e regnò con dolcezza e giustizia sugli altri uomini, suoi sudditi, con cui aveva un comune destino di morte.
Nonno, mi è piaciuta la favola di Gilgamesh! E’ bella e significativa!
Quando le mie cugine, Sara ed Alice, saranno più grandi la racconterò anche a loro, in attesa di poterla narrare, in modo più semplice, a mio fratello Stefano.
Spero tanto che piaccia anche a lui, bambino speciale, che vive nel silenzio, senza sentimento, senza affetto, soggetto, però, al comune umano destino di sofferenza e di morte!
Non è detto, Mattia, che la sorte di Stefano sia più infelice di quella di un altro uomo!
Noi non sappiamo nulla di lui! Non abbiamo alcuna chiave di lettura! Potrebbe essere , a suo modo, un anhr theios, inconsciamente contento di tutto, irrazionalmente felice del suo ricco mutismo, ebetamente beato del suo stato!
Un vecchio-bambino, che vive già di eternità, saggio del suo infinito silere!