Esseni

I N T R O D U Z I O N E   ad  Esseni /Quod omnis probus  di Filone

Gli esseni secondo Filone e secondo Giuseppe Flavio

Filone di Alessandria è il primo a parlare di Essaioi e a dare una sua spiegazione del nome.
Egli ne parla in Quod omnis probus nella parte centrale di un trattato sull’ o asteios il cittadino che, in quanto saggio sophos, è giusto dikaios, e libero eleutheros, mentre per contrasto tratta di o phaulos stolto che, in quanto kakos malvagio, essendo l’opposto del kalokagathos, non avendo le virtù del buono, non è libero, né consegue la eudaimonia.
Filone ne parla anche agli inizi di De vita contemplativa, mettendo in relazione la vita degli esseni e quella dei terapeuti, proponendo due sistemi positivi, uno prapticos ed uno theorikos, mettendo in evidenza ESSAIOON, in prima sede e facendo l’anastrofe di peri: Essaioon peri dialekhtheis, oi ton praptikon ezhlosan kai dieponhsan bion en apasin…autika kai peri toon theoorian aspasamenoon… ta proshkonta lecsoo / Finora abbiamo parlato degli esseni che, in gara, praticano meglio di tutti la vita attiva…ma ora dirò quelle cose che bisogna dire sugli uomini, dediti alla contemplazione
In questa opera chiaramente l’alessandrino vuole mostrare due diversi tipi di vita, l’uno esclusivamente giudaico praptikos, l’altro, theorikos, katolikos, universale mettendo, dunque, i principi ideali pratici e contemplativi in opposizione.
Il suo è un metodo filosofico sincretistico ed eclettico che sottende una coscienza civile romano-ellenistica, ben fusa con quella ebraica alessandrina.
La fusione perfetta tra paidea ellenistica e musar giudaica comporta una scelta politica di integrazione nel kosmos imperiale romano del giudaismo, che ha conseguito nel corso del regno della domus giulio-claudia, una supremazia commerciale sui greci e sugli stessi latini tanto da risultare dominante sia in Oriente che in Occidente, odiosa per lo strapotere marittimo, coloniale, trapezitario.
Filone, dunque, esprime l’elitarismo della cultura giudaico-ellenistica che ha nella sua famiglia oniade la massima rappresentanza sia per la relazione fruttifera con gli erodiani, figli e nipoti di Erode il Grande  che con i sadducei del tempio di Gerusalemme.
La famiglia degli oniadi concorre, però, per il primato sacerdotale coi sadducei in quanto erede di Onia IV, figlio di Onia III, ultimo legittimo sommo sacerdote, ed ha dalla propria parte gli esseni stessi, che pure aspirano a sostituire il sacerdozio templare indegno e corrotto.
Infine il giudaismo scismatico e sincretistico filoniano ha connessioni profonde anche con gli aramaici gerosolomitani e con quelli di Adiabene e di Mesopotamia e con la corte stessa di Artabano III, che accorda la sua protezione al commercio interno del suo regno e che protegge ed autorizza i contatti, tramite il mare persico, con India, raggiunta da navi romane- su decreto di Augusto stesso – di proprietà di naucleroi alessandrini giudaici, con la tratta Clisma/Arsinoe- Baricaza.
La persecuzione di Gaio Caligola mette a rischio non solo l’economia giudaica ma anche la stessa stirpe, senza distinzione tra aramaici ed ellenisti.
Il metodo filoniano, perciò, passa in secondo ordine rispetto alla priorità apologetica e alla polemica nei confronti coi greci, ora preminenti nella città di Alessandria e in Roma stessa.
A ciò si aggiunge la personale depressione di Filone dopo il pogrom descritto in in Flaccum, che congiunge l’esperienza della atimia giudaica universale al declassamento sociale e familiare, specie dopo l’imprigionamento dello stesso fratello Alessandro Alabarca e al minacciato sterminio della etnia giudaica, dopo la proclamata volontà di profanazione del Tempio e l’ektheosis caligoliana.
Il phobos delle eschata e della fine giudaica fa da sottofondo a questa opera in cui l’autore cerca, comunque, di evidenziare la sua superiorità oniade e la propria integrazione nella coscienza della libertà di sophos e di greco, in una denuncia dei barbari aramaici, integralisti, mostrando la sua appartenenza alla megalopolis, civilis: Filone fa quello che farà un trentennio dopo, la boulè alessandrina che condanna a morte i sicari, venuti in cerca di protezione, dai confratelli, in ossequio alla volontà di Vespasiano vincitore.
La sua è, da una parte, rivendicazione con adesione all’areté e all’idea platonica, come personale dichiarazione di filoromanità, fusa con quella degli elementi greci, che sono avversari ed oppositori alla sua etnia e, da un ‘altra, è condanna degli esseni e degli zeloti antiromani, smodati nel loro integralismo, ma contemporaneamente è tentativo di mostrarli come uomini pii, pacifici, agricoli, non portatori di armi, tesi al puro esercizio, spirituale, come tanti altri uomini romano-ellenistici e stranieri, che tendono però alla libertà e all’eudaimonia e a Dio10 secondo un triplice schema prefissato quello di Philòtheos, philàretos, philànthroopos.
E’ dunque, un voluto equivoco, che si esprime proprio nelle antinomie e nelle antitesi, nelle opposizioni di termine, secondo processi retorici per una giustificazione, improponibile secondo la ratio latina.
E’ lo scontro di due culture volutamente non evidenziato per phobos, data la superiorità militare romana e conosciuto il pericolo di una debacle con la dialettica greca: c’è dunque in Filone e poi in Flavio un dire e non dire, un tacere, un omettere, un marcare valori non universali, che risultano in seguito, a seconda delle letture, utili per altre propagande.
L’opposizione al kosmos romano ellenistico è sottesa o velata nella disarmonia e nella non unitarietà dei gruppi essenici e nella loro varietà operativa, di cui si hanno prove nella coscienza profonda della superiorità dell’eletto da Dio e dei suoi diversi ed opposti valori rispetto all’etica dominante, derisa e condannata.
La rivendicazione sommo sacerdotale, poi vittoriosa sotto Erode Agrippa, con l’uso del sistema solare contro quello lunare templare, la scelta tradizionale agricola e comunitaria col rifiuto del commercio e dell’uso della moneta, la resurrezione dei corpi connessa con quella farisaica, la ricerca dell’eudaimonia terrena tramite l’askesis ed infine l’unione mistica con Dio non sono segni che possano conciliarsi in un animo che cerca la pietas/Threscheia religiosa, che tende alla perfezione divina in una volontà di sublimarsi continuamente, pur mantenendo l’animus barbarico immitis partho-mesopotamico, espressione di una condraddizione profonda aramaica radicale e integralista,che trova la forza di vivere nella cieca fiducia in Dio, nella gretta obbedienza al legalismo mosaico e nella santificazione del nome di Dio, in una giustificazione settaria del proprio martirio, in una selvaggia aggressione all’armonia cosmica dell’impero romano, pacificato in Occidente e in Oriente e quasi già fuso grazie al dominio illuminato della domus Giulio-claudia, che ha conseguito sulla terra la vita saturnia.
Comunque, il sistema adottato da Filone sia in De vita contemplativa che in Quod omnis probus potrebbe essere stato un geniale tentativo di anticipazione di autocondanna del giudaismo, che si autopunisce per l’eccessivo grado di progresso economico e trapezitario conseguito a scapito delle altre etnie, in una revisione della propria storia, in una intuizione della necessità di ridimensionamento del proprio sistema emporico, in una volontà di ritorno alla società agricola, secondo un modus graduale imposto forse dalla corte stessa, su pressioni di Antonia Minor13.
Insomma Filone, giudeo alessandrino oniade, ellenizzato, capisce che il giudaismo ellenistico da una parte ha sconvolto ed ammalato il mondo occidentale, contaminandolo con la sua egemonia travolgente, esempio invidiato di ricchezza, data l’avidità giudaica, l’aischrokerdeia e pleonecsia, l’immensa fortuna accumulata, grazie alla predilezione di Dio verso i fedeli, ma specie alla superiore organizzazione imprenditoriale.
Filone sa, da un’altra, che l’aramaismo, predicato da Esseni e farisei, è un cancro per la romanitas, date le continue sedizioni nel territorio romano di Iudaea, refrattaria ad ogni integrazione, nonostante la filoromanità dei sadducei e degli erodiani- la classe dominante- che schiacciano, insieme con i pubblicani, gli agenti del fisco imperiale, il piccolo e medio sacerdozio e il popolo gerosolomitano e palestinese, intenzionati da sempre a federarsi col regno parthico di Artabano.
Filone, cioè in Quod omnis probus, proprio nel 40 d.C.  sotto Caligola, vuole mostrare a tutti gli altri popoli facenti parte del kosmos imperiale, non l’aspetto militaristico e l’integralismo di corpuscoli aramaici di Iudaea, ma la spiritualità essenica come garanzia di un equilibrio e di una purezza del popolo ebraico mentre in Vita contemplativa vuole manifestare il fenomeno terapeutico come unico al mondo per l’ascesi graduale a Dio e la congiunzione con la divinità stessa, come un sistema speciale di vita , nonostante il numero dei terapeuti sparsi non solo in Egitto, ma in tutto il mondo, per meglio marcare la peculiarità giudaica ellenistica di conseguimento del massimo grado di teleiosis/ perfezione, in senso sacerdotale.
Dunque il theologos rassicura il mondo romano che la Iudaea ha esempi di purezza e di libertà proprio in quegli stessi esseni, che sono paradigma di virtù per tanti popoli, e non possono essere considerati dai romani come santoni che aizzano il popolo alla guerra, fomentano il fenomeno degli zeloti, incrementano il numero, addestrandoli militarmente in nome di una patria, mesopotamica di origine, in una decisa volontà di unione con la federazione di stati partici, di lingua aramaica.
C’è in Filone una riflessione sulla necessità di ridimensionamento della fortuna giudaica, quasi una proposta alla boulè cittadina di frenare il progressivismo ellenistico commerciale e di lasciare spazio alla concorrenza delle altre etnie, visto il monopolio emporistico giudaico odioso agli altri popoli – come la fede nel Dio unico- nel quadro della lex imperiale romana universale?.
Insomma Filone, già sotto Caligola, comincia anticipatamente ad allinearsi verso le direttive che poi saranno definite nel decreto di Claudio con la lettera gli alessandrini quando ripristina il sistema giudaico azzerato dal nipote e vieta il proselitismo, fonte di eccessivo arricchimento per la stirpe giudaica, minacciando dure pene in caso di oltraggio alla fides altrui.
Ora l’opera di Filone, se non viene ben inquadrata in questa situazione, da precisarsi in ogni termine, diventa estremamente equivoca, e il pensiero filoniano risulta volutamente offuscato, essendo di fronte ai problemi contingenti, incerto, ambiguo, falso, titubante, pencolante tra la sua filoromanità e la sua ebraicità, proprio perché evidenzia la dilacerazione dell’anima ebraica, da una parte, e la difficile ricerca, da un’altra, di conciliare ellenismo romano e giudaismo farisaico, in quanto la prassi contraddice la parola.
E’ inconciliabile il soggettivismo romano-ellenistico con l’oggettivismo aramaico collettivistico: solo con la costruzione della figura umano-divina di Christos, si è cercato di fondere l’inconciliabile, di conseguire l’ineffabile, precluso all’uomo creatura, grazie alla intermediazione dell’uomo-dio.
Noi dobbiamo staccarci dalla tradizione cristiana, erede della cultura classica soggettivistica, perché, seguendo Clemente, Origene e specie Eusebio, seguitiamo a cristianizzare un ebreo: è nostro dovere di storici mostrare la vera natura di giudeo di Filone, seppure oniade, ellenista e sincretista.
D’altra parte,  Alessandria del periodo 26-44 d.C. è, in effetti, città, dove l’elemento greco, riesce, grazie alla nuova politica imperiale, a limitare la supremazia giudaica, dapprima, e poi ad avere il definitivo sopravvento.
Dall’esempio dei greci alessandrini viene un monito di ribellione a tutti i greci dell’ecumene romana, che aggrediscono in modo selvaggio il giudaismo e ne scuotono la supremazia, come ben evidenzia Giuseppe Flavio nel XVIII, XIX e XX di Antichità Giudaiche e nel V, VI e VII libro di Storia Giudaica e In Apionem, dimostrando come, in ogni città ellenistica, i greci attaccano e limitano il potere giudaico, facendo stragi e come, perfino nel regno partico, contagiato, inizi lo stesso processo di annientamento, in un crescendo inarrestabile di massacri e di stermini.
La sua lettura, dunque, dell’essenismo è in relazione non solo alla storia ebraica ma anche al kosmos romano e alla sua armonia, alla ricerca di una sua collocazione ora nel momento tragico caligoliano, quando la barca giudaica va a fondo, dopo l’atimia.
La lettura dei due testi richiede una particolare competenza delle cose ebraiche, altrimenti si rischia di usare i termini solo filosoficamente.
Per prima cosa, perciò, dato il presunto valore di venerabile di Essaios, si deve chiarire e rilevare le varie letture fatte a seguito della specifica citazione di Filone Alessandrino, che ha di mira esattamente la situazione storica caligoliana ed alcuni episodi tragici mostrati sia in in Flaccum che in Legatio ad Gaium, che in tutta opera di Peri toon aretoon.
Fatta questa premessa necessaria su Filone, si può seguire come Flavio consideri gli esseni in due epoche diverse, in relazione all’episodio della sconfitta bellica e della distruzione del tempio prima, e, poi, un ventennio dopo, sotto Domiziano, che sembra seguire l’esempio dispotico di Caligola, imitato anche nell’ektheosis.
Gli esseni, al tempo di scrittura di Storia Giudaica nel 74, sono stati sterminati, il tempio è stato distrutto e Vespasiano ha trionfato sulla Iudaea capta ed ha imposto ai giudei di versare la doppia dracma, dovuta al tempio, ora, invece, al fisco imperiale, a Roma: lo storico, scrittore aulico della famiglia flavia, sacerdote sadduceo, fariseo per scelta, fatto prigioniero ad Iotapata dopo una resistenza di 7 settimane all’esercito romano, liberato dalla schiavitù, mutato il nome di Giuseppe ben Mattatia in Giuseppe Flavio, dà una sua soggettiva versione, utile per la costruzione dell’imperium flavio, facendo una operazione di compromesso storico, di elogio del principato nuovo di Vespasiano e di nobilitazione, anche religiosa, della sua domus di origine sabina, servile.
Guerra giudaica è opera ancora zeppa delle lotte, sorte nel seno dell’ebraismo, stordito ed incapace di capire ancora la sconfitta militare e la fine del tempio, risuonante dei contrasti tra i superstiti per le reciproche accuse tra le diverse fazioni filoromane, compromesse a vari livelli.
La prigionia personale, il periodo quasi quadriennale della schiavitù e l’affrancamento sono momenti contemporanei alla scrittura della varie fasi della disfatta giudaica esaminata da schiavo e da liberto, libero e riconoscente verso il suo ex padrone: c’è, comunque, la fierezza sacerdotale con il fanatismo, nonostante la sconfitta di un incaricato dal sinedrio gerosolomitano a proteggere e a governare militarmente la Galilea.
Accanto a lui sono altri ebrei che accusano ed invidiano il suo presente stato di favorito e protetto dalla corte flavia, altri che hanno una visione opposta della storia giudaica o hanno dato una lettura apocalittica come Giusto di Tiberiade e suo padre Pistos, lhisthai patrioti come Giovanni di Giscala, che pagano, dopo la detenzione in prigione, con la vita, la loro fede alla torah e a Dio.
All’epoca della scrittura, dopo la distruzione del Tempio e il massacro degli stessi esseni ad opera di Vespasiano, i fatti non possono essere narrati secondo verità per come sono avvenuti, né possono essere valutati oggettivamente, essendo in gioco il favore dei vincitori che fanno scrivere la storia a loro vantaggio: Giuseppe Flavio è servo fedele del suo padrone Vespasiano e dei suoi figli, non può non spendere una parola a loro favore, non può non nascondere quanto di negativo hanno fatto in terra di Giudea col loro esercito: l’elogio prevale sulla serietà di racconto, la reticenza in caso di dubbio, c’è silenzio quanto si può nuocere al nomen imperiale.
Compito dello storico deve essere quello stesso degli scrittori augustei , (Livio e Nicola damasceno) in una celebrazione della dignità della domus Flavia al pari di quella, divina, Giulio-claudia.
Scrivendo, perciò, Guerra Giudaica, opera autorizzata dalla monarchia flavia, Flavio considera martures gli esseni, ma sottende al termine greco oltre alla testimonianza di fede religiosa , anche un‘aureola di santità per uomini che hanno predicato la rivolta, la stasis, che hanno combattuto per la libertà giudaica dalla sopraffazione romana.
La sua opera è molto criticata dai giudei che vivono a Roma come Giusto di Tiberiade, anche lui storico, ma di fede diversa e seguace ora anche lui dei figli di Erode Agrippa I, cittadino di rango pretorio, oltre che re di Iudaea, la cui figlia Berenice è amante di Tito e il cui erede Agrippa II è uomo di grande rilievo nell’impero.
Perciò i due filoromani ben inseriti a Roma- pur se in diversi ruoli, Flavio come storico ufficiale, Giusto come segretario personale del figlio di Agrippa I – servono l’uno l’imperatore, l’altro un principe ebreo, uno dei più fedeli alleati ed amico personale dei flavi, pur accapigliandosi per ragioni di difficile comprensione, a distanza di secoli, anche se non lasciano capire gli stessi motivi del loro litigio e di uno scontro ideologico.
Probabilmente il diverso grado di reticenza e il silenzio su certi episodi tragici sono alla base delle questioni tra i due.
Pur avendo lavorato per anni su di loro, non mi sembra di aver capito esattamente le ragioni dell’ aspra contesa fra i due, che si risolve forse a tarallucci e vino specie perché Flavio chiama Giusto un suo figlio.
Comunque, Flavio, scrittore aulico, non può non celebrare il martirio degli esseni anche se lo sottende con chiarezza e perfino ne ammira la morte nelle poche righe del II, 8.11,152, quando, senza nominare i carnefici Flavi, mostra i venerabili /augusti/sebastoi felici di morire per la patria, coscienti di essere poi onorati dalla toledot .
Perciò Flavio santifica gli esseni, ma considera lhisthai gli zeloti/ladroni, che insieme ai farisei e ai sicari e al popolo hanno voluto la guerra, a lungo scongiurata dai sadducei e dagli erodiani e l’hanno persa .
Sembra accomunare ai lhisthai anche il gruppo nazireo di Giacomo il giusto, fratello di Gesù, fatto uccidere da Anano II, dopo un periodo di comando essenico di circa 26 anni.
Il parlare di Giacomo, fratello di Christos, un giusto, un recabita, un baluardo del popolo, tamias del tempio in quanto custode del gazophulakion e forse un prostates di una metà di sacerdoti e leviti, addetti al servizio templare, è per lui una necessitas, quasi un dovere che, però, aumenta la confusione, aggroviglia la matassa ebraica da districare.
Anche se la figura di Giacomo, descritta da Flavio è stata ritoccata, rimaneggiata varie volte, in tempi diversi, resta il fatto certo che i suoi seguaci secondo alcune frasi spurie, espulse dal testo, determinano con il loro integralismo, la distruzione del Tempio e che per il loro colpevole integralismo si arriva alla sconfitta nella guerra coi romani.
Al di là del reale pensiero di Flavio su Giacomo e i suoi naziroi o ouranioi in Guerra Giudaica manca la condanna degli esseni, anche se noti per l’antiromanità e per la loro predicazione avversa ai filoromani ai sadducei e agli erodiani.
Eppure Flavio, ex governatore di Galilea, conosce bene gli zeloti e i loro educatori esseni e perfino il luogo dove vive il gruppo ascetico dei 4000 e il rapporto culturale tra questi e gli aramaici di oltre Eufrate. Flavio non parla degli esseni, come maestri di pancrazio, ma lo sottende in quanto essi, avendo l’educazione dei giovani a loro assegnati come neofiti, ne facevano prima abili atleti, abilitandoli, inizialmente nel primo anno di attesa, alla conoscenza del corpo, come difesa personale e come esercizio continuato. Probabilmente specie nell’imminenza della guerra, l’arte del pancrazio era basilare per la formazione fisica del giovane, destinato all’essenismo, essendo ridotta l’attività di askesis spirituale.
In Regola della guerra è scritto che nei tre anni di attesa si dia ancora valore al sacrificio e all’esercizio tecnico, ma solo il giorno precedente il sabato, vista la guerra secolare tra Roma e considerato il culto del sabato per i pii giudei del Qumran.
Flavio, dunque, nasconde molto circa il reale significato dell’opera degli esseni: li ammira come comandante militare, li teme dopo il suo tradimento e il passaggio nell’esercito romano, che lo utilizza come interprete, li compiange alla loro morte, ma rimane saldo nel suo amore servile per i Flavi, al cui carro trionfale si è stretto, fiducioso nella clemenza e nella munificenza imperiale.
La romanitas e l’ellenizzazione vincono su una coscienza dilacerata e spingono all’eukairia/opportunismo, congiunta con l’amor proprio sacerdotale elitario, che rinuncia all’ideale messianico e sposa il messianesimo vespasianeo, cioè quello di un messia venuto da Oriente per pacificare l’Occidente nel caos della guerra civile tra Galba ed Otone tra Otone e Vitellio ed infine tra Vitellio e il vincitore dei Giudei. Vespasiano è il soothr salvatore del mondo romano: questo lo storico aveva visto in sogno a Iotapata, quando insieme ad un altro ebreo si arrese, proprio allora che dominava ancora Nerone, dopo il suicidio di massa dei difensori della fortezza, suoi concittadini.
La descrizione della morte degli esseni tradisce il narratore flavio che ha commozione nel seguire le fasi della tortura e nel notare l’eroismo dei compatrioti, che sicuramente lo bollano come traditore.
La stessa commozione mista ad ammirazione è mostrata quando i sicari muoiono uccisi dai loro stessi parenti alessandrini, che timorosi di incorrere nell’ira dell’imperatore, sacrificano i fratelli per la loro incolumità e salvezza.
Non è una rinuncia alla sua fides ebraica, ma è un compromesso per sopravvivere, pur nel dolore della schiavitù: non c’è più il comandante, né il sacerdote, ma c’è l’ebreo che tradisce anche la fides, pur di salvare se stesso, i propri figli e la propria stirpe di fronte alla romanitas vincitrice, destinata da Dio all’impero universale, senza però flettere nella propria adesione al patto eterno con Jhwh, sempre cosciente della propria elezione.
Dunque, la storia degli esseni, descritta da Flavio subito dopo la distruzione del tempio è quella che ora viene proposta come lettura da fare da questa angolazione del trauma ebraico e risulta molto diversa da quella successiva di epoca domizianea di Antichità giudaiche.
Quindi Filone, in epoca caligoliana, mostra due diversi esempi di perfezione di vita giudaica ed associa al contemplativo l’esseno evidenziando unitariamente il saggio giudeo libero, data la sua cultura spirituale, rispetto a chi stolto, senza la vera cultura filosofica , è schiavo perché è preda delle passioni.
Perciò vede gli esseni come un exemplum non solo per l’ecumene greco-ellenistica ma anche per le altre culture come quelle del regno partico e di quello indiano dei Satavahana .
Flavio invece indica una sola via essenica ma la legge in modo diametralmente opposta, a seconda del momento storico che vive.
Ne parla sia in Guerra Giudaica che in Antichità giudaica XVIII,18-22 e chiama esshnoi quelli definiti da Filone essaioi,
In Guerra Giudaica,Giuseppe Flavio ne parla dopo una premessa obbligatoria sulla politeia romana nella sotto provincia di Iudaea (Giudea, Samaria ed Idumea) dipendente dalla provincia di Siria, anche se con un proprio prefetto, di rango equestre, Coponio, definito epitropos, stabilita da Augusto stesso, dopo l’esautorazione di Archelao.
Questi ha il mandato di restaurare l’ordine in Giudea, di punire i capi della stasis rivolta cioè un certo Sadoc e Giuda il gaulanita, un dottore galilaico che ingiuria i connazionali perché pagano il tributo ai romani quando essi hanno un solo padrone, Dio, e non un mortale.
Dopo questo preambolo, Flavio tratta delle 3 sette (aireseis) giudaiche preesistenti e considera Giuda Gaulanita fondatore della quarta airesis e specificamente, dopo aver trattato dei sadducei e dei farisei, parla degli esseni in questi termini:
II. 8.2 Tre sono infatti presso i giudei le sette filosofiche, ad una appartengono i farisei – di una sono partigiani faziosi politici (airetistai) i Farisei – alla seconda i Sadducei, alla terza, che gode fama di particolare santità quelli che si chiamano esseni, i quali sono giudei di nascita legati da mutuo amore (philallhloi) più strettamente degli altri. Essi respingono i piaceri come un male, mentre considerano virtù la temperanza ( then ..enkrateian) e il non cedere alle passioni. Presso di loro il matrimonio è spregiato e perciò adottano i figli degli altri quando sono disciplinabili allostudio, li considerano persone di famiglia e li educano ai loro principi; non è che condannino in assoluto il matrimonio e l’aver figli, ma si difendono dalla lascivia  delle donne perché ritengono che nessuna rimanga fedele ad uno solo;
8,3. non curano la ricchezza ed è mirabile il modo come attuano la comunità di beni giacché impossibile trovare presso di loro uno che possegga più degli altri; la regola è che chi entra, metta il suo patrimonio a disposizione della comunità sì che in mezzo a loro non si vede né lo squallore della miseria, né il fasto della ricchezza ed essendo gli averi di ciascuno uniti insieme, tutti hanno un unico patrimonio come tanti fratelli.
Considerano l’olio una sozzura e se qualcuno involontariamente si unge, pulisce il corpo: infatti hanno cura di tenere la pelle asciutta e di vestire sempre di bianco. Gli amministratori (epimeletai ) dei beni comuni vengono scelti mediante elezione e così pure da tutti vengono designati gli incaricati dei vari uffici.
8.4. Essi non costituiscono una sola città, ma in ogni città ne convivono molti.
Quando arrivano degli appartenenti alla setta da un altro paese essi mettono loro a disposizione tutto ciò che hanno come se fosse loro proprietà e quelli si introducono presso persone mai viste prima come se fossero amici di vecchia data: perciò quando viaggiano, non portano con loro assolutamente niente, salvo le armi contro i briganti; in ogni città viene eletto dall’ordine un curatore dei forestieri, che provvede alle vesti e al mantenimento.
Quanto agli abiti e all’aspetto della persona somigliano ai ragazzi educati con rigorosa disciplina. Non cambiano né abiti né calzari se non dopo che i vecchi siano completamente stracciati o consumati dal tempo.
Fra loro nulla vendono o comprano, ma ognuno offre quanto ha a chi ne ha bisogno e ne riceve ciò di cui ha bisogno lui: anche senza contraccambio è lecito a loro di prendere da chi vogliono.
8.5. Verso la divinità sono di una pietà particolare; prima che si levi il sole non dicono una sola parola su argomenti profani, ma soltanto gli rivolgono certe tradizionali preghiere come supplicandolo di sorgere. Poi ognuno viene inviato dal suo superiore al mestiere che sa fare e dopo aver lavorato con impegno fino alla quinta ora di nuovo si riuniscono insieme e, cintisi i fianchi di una fascia di lino, bagnano il corpo in acqua fredda e dopo questa purificazione entrano in un locale riservato dove non è consentito entrare a nessuno di diversa fede, ed essi, in stato di purezza, si accostano alla mensa come ad un luogo sacro.
Dopo che si sono seduti in silenzio, il panettiere  distribuisce in ordine i pani e il cuciniere  serve ad ognuno solo un piatto con una sola vivanda.
Prima di mangiare, il sacerdote pronuncia una preghiera e nessuno può toccare i cibo, prima della preghiera; così al principio e alla f ine essi rendono onore a Dio come dispensatore della vita…