Erode ed Alessandra dopo la morte di Aristobulo

 

Erode ed Alessandra dopo la morte di Aristobulo

 

Morto  Aristobulo,  il sacerdozio ritorna ad Ananelo, dopo poco meno di un anno.

Alessandra, inconsolabile nel dolore, dopo i solenni funerali indetti da Erode con la partecipazione di tutti, in quanto ogni famiglia si sente colpita da sventura, come se fosse accaduta ad uno dei suoi membri e non ad un estraneo (Ant.giud., XV,57), sa contenere nobilmente il dolore e  vive per vendicare il figlio.

Alessandra, secondo Flavio (ibidem,58,59,60) da una parte, si doleva perché sapeva la verità e dall’altra per paura  che qualcosa di più grave la minacciasse. Spesso giunse alla conclusione di uccidersi con le proprie mani, ma era trattenuta nella speranza che, vivendo, avrebbe potuto vendicare il figlio, tradito in modo così vigliacco ed empio. Dunque, senza offrire indizio  di sospetto, pensava che la morte del figlio gli offrisse una occasione propizia di vendetta e ciò la incoraggiava a vivere e a dissimulare coraggiosamente il proprio comportamento, senza dare sospetti.  

Anche Erode finge di mascherare la necessitas della morte del giovane, che per lui è una salvezza: adotta tutte le forme dell’uomo addolorato, non responsabile affatto dell’incidente, ricorre alle lacrime e dimostra un vero turbamento di animo, quando rievoca la bellezza del giovane.

Nel funerale e nei preparativi per abbellire la tomba, Erode cerca di manifestare il suo dolore conformemente alla sua famiglia, tanto da consolarla.

Alessandra, però, pur notando le manifestazioni di dolore e i tentativi di partecipazione del re, non si quieta.

Anzi, secondo Flavio (Ibidem, 63) la memoria della  propria sfortuna le recava una sofferenza così profonda da renderla più loquace e desiderosa di vendetta: scrisse, allora, una lettera a Cleopatra sul tradimento di Erode e sulla morte del figlio.

La regina è solidale con Alessandra non solo  come donna  e madre, ma ancora di più come sovrana, che non riconosce la legittimità regale di Erode e rimprovera Antonio di averlo fatto re di un paese, al quale non ha alcun diritto di comandare  (ibidem, 63) aggiungendo che per di più si è macchiato di una bassezza verso un vero re.

Cleopatra da mesi vuole intervenire a favore dell’amica ed ora, trovata l’occasione, cerca di risolvere la questione ebraica a suo favore: una regina non ama il rapporto con un privato civis, un arrivista come Erode,  e per di più vuole ripristinare i diritti lagidi su quelli seleucidi, ereditati ora dai romani.

Allora Antonio, che è a Laodicea, agli inizi del nuovo anno, dove sta raccogliendo milizie e denaro per la sua  impresa, scrive ad Erode ingiungendogli di presentarsi davanti a lui per fare luce sulle accuse fatte da Alessandra (ibidem,64).

Cleopatra, che ha preso il caso a cuore,  come se fosse personale, spinge Antonio a giudicare Erode.

Flavio usa un periodo ipotetico di I tipo con apodosi all’infinito e con protasi al perfetto per indicare che l’insidia non giustamente è stata fatta, se è stata commessa da lui stesso / peprachthai gar ouk orthoos thn epiboulhn, ei di’autou ghgonen.

Erode teme l’accusa di Alessandra ed anche l’ostilità di Cleopatra, nonostante sia sicuro di poter giustificare la sua azione filoromana.

Non potendo sottrarsi all’ordine ricevuto, prepara  il denaro da lui stesso monetato coi suoi beni  preziosi e con quelli dei nemici uccisi (Cfr. Guerra giudaica I,338), scortato da milizie, che potrebbero essere utili per i bisogni militari di Antonio, si dirige a Laodicea.

Lascia la sua basileia e la corte  ad un reggente, suo zio Giuseppe, marito di sua sorella Salome, a cui affida la cura  degli affari del regno, nominato epitropon ths archhs kai toon ekei pragmatoon.

Alla partenza dà istruzioni segrete, essendo uomo molto geloso ed insicuro e preoccupato del suo avvenire e di quello di Mariamne (il cui ritratto è in mani del triumviro, noto amatore) e decide la morte della moglie, in caso di insuccesso e di un non ritorno.

Flavio così scrive: qualora gli capitasse qualcosa quando era da Antonio, provvedesse subito all’eliminazione della moglie  e  riporta le motivazioni con le parole stesse con un discorso indiretto che io volgo in diretto: sono molto innamorato della donna (ekhein philostorgoos  pros thn gunaika ) e temo, anche da morto, che lei, data  la sua bellezza, possa essere carina e premurosa con un altro. Date tali istruzioni, Erode partì per incontrare Antonio. 

Erode conosce bene la  tetrapoli  siriaca,  cioè Antiochia e Apamea  che sono  nell’entroterra e Seleucia di Pieria e Laodicea a Mare,  che sono  città marittime,  che fanno da  centri portuali: non è pensabile un viaggio per mare; è più probabile via terra, anche se richiede più tempo  perché porta anche militari utilizzabili per l’impresa armena e denaro e viveri.

Lo storico mostra che, una volta partito il re, Giuseppe svolge il suo compito di epitropos, di amministratore dioikeths toon en thi basileiai pragmatoon, oltre che di comandante militare, che  diligentemente relaziona alla regina (e alla madre).

Nel corso di tanti incontri – il viaggio per terra richiede almeno due mesi – Giuseppe parla dell’affetto eunoia  di Erode e del suo grande  amore philostorgia; l’uomo è intelligentemente scalzato e pressato da Alessandra, che cerca di sapere,  e l’epitropos,  in un eccesso di zelo, rivela le istruzioni segrete, che lette, dalle due donne sono considerate un segno di crudeltà.

Madre e figlia sono donne asmonee che odiano Erode e lo considerano indegno del trono, uno scaltro civis, nemmeno ebreo, ma idumeo-nabateo,  reo di innumerevoli misfatti, e che capiscono che esse non saranno libere, neppure in caso di  morte del re, ma avranno sempre il destino di una morte tirannica.

Alessandra e Mariamne non leggono il pensiero di Giuseppe per come è espresso, basato sul grande  amore to philostorgon, ma rilevano solo to khalepon  la parte finale terribile e sgradevole di una  loro crudele morte.

Le parole  di Flavio sono queste: Giuseppe come amministratore degli affari  del regno incontrava  più volte Mariamne per gli affari pubblici  e per l’ossequio che doveva dimostrare come regina  e più volte il discorso cadeva sul l’affetto di Erode e sul suo amore grande  che provava per lei  e siccome, come sono solite le  donne, Mariamne ed ancora di più Alessandra, fingevano di non credere alle sue espressioni, Giuseppe volendo mostrare il suo zelo, rivelò i sentimenti del re e si spinse tanto oltre da parlare delle istruzioni  ricevute  per offrire una prova del fatto  che  Erode non poteva vivere senza di lei e che, se gli capitava qualche malvagio accidente,  non avrebbe sopportato di essere separato da lei, neanche da morto. Queste erano le argomentazioni  di Giuseppe,  ma le donne, com’è naturale, non erano impressionate dai termini di grande amore ma dall’ultima grave affermazione in quanto l’interpretarono come segno di crudeltà (si rilevi il poliptoto  to khalepon  e khalephn  uponoian!).

Essendo questa la situazione, a Gerusalemme, si sparge la voce, ad arte, pompata dalla fazione  aramaica, inferocita per la ventilata spedizione di Antonio contro i parthi che il triumviro abbia torturato e messo a morte Erode.

Flavio (ibidem,71) dice: la voce, come era naturale,  eccitò turbando tutti specie la gente del palazzo e in particolare le donne.

A corte scoppia il caos: nelle stanze degli erodiani si piange, in quelle asmonee, al pianto iniziale, emotivo, subentra la volontà di riprendere il potere, congiunta col ringraziamento alla pronoia  divina,  che ha liberato dal tiranno e che ripristinerà i legittimi sovrani con gli stessi romani, che ora sembrano intenzionati a ridare il legittimo potere all’antica dinastia.

Dovunque, nella Reggia c’è confusione e in città si formano riunioni ed assemblee di popolo,  incerto ancora sulla notizia, ma pronto per una sommossa.

Giuseppe nemmeno pensa di compiere quanto promesso ad Erode, e subito è convinto dalla regina a rifugiarsi con gli asmonei presso la legione romana di stanza a Gerusalemme, agli ordini del legatus Giulio che dovrebbe garantire la loro sicurezza in ogni tarachh ( E’ un cugino  di Erode in quanto figlio di suo zio paterno Fallione, fratello di Antipatro, anche lui  poliths Iulios !?).

Giuseppe  dovrebbe essere theios  un zio  materno ( avunculus), un nabateo come Cipro,  non paterno (patruus),  un idumeo  come  Fallione  – di cui abbiamo parlato in Antipatro, padre di Erode- un filoromano,  che si sente tradito anche lui da Antonio per la ventilata morte e  perciò riprende la sua naturale inclinazione  aramaica e subito si mette a disposizione di Alessandra, rimanendo legato alle principesse asmonee, deciso a seguirne il destino, pur retrocesso e decaduto nella sua funzione.

La regina è convinta che così non dovrà patire tarachh dal popolo e che, specie se Antonio vede Mariamne, il titolo regale sarà suo senza subire  prigionia, essendo di stirpe regale.

Così scrive Flavio: (72.73) Alessandra  persuade Giuseppe a lasciare il palazzo e a rifugiarsi con loro sotto le insegne delle legione romana  che all’epoca era accampata intorno alla città,  a protezione del regno  sotto il comando di Iulios.

Non occorre fare niente perché la notizia è falsa!.

Arriva una lettera di Erode  che rettifica ogni cosa, che stoppa ogni sommossa e ripristina la status di epitropos di Giuseppe, che con la forza riporta l’ordine in Gerusalemme, coadiuvato dal legatus romano.

La verità è un’altra: Antonio ha onorato in ogni modo Erode, ha potenziato con le parole la sua regalità, lo ha difeso da Cleopatra, ristabilendo l’amicizia e il cameratismo militare!.

Erode conosce il triumviro da anni, il suo carattere, i suoi vizi militari, la sua avidità e i suoi sogni sublimi!

Il re giudaico conquista Antonio con le monete coniate da lui a Gerusalemme (Che fortuna poter trovare un giorno una di queste monete  preziose!), di gran valore, perché di materiale prezioso,  e  con le argomentazioni politiche conformi alle disposizioni precedenti del senato romano e del triumviro orientale, accettate quattro anni prima anche da Ottaviano.

In odio all’ antiromano Antigono si votò l’elezione a re di Erode, firmando implicitamente la morte di ogni asmoneo, la cui vita sarebbe stata nelle mani di Erode!.

Antonio, uccidendo Antigono,  ha dato ad Antiochia per primo l’esempio:  per regnare come basileus di nomina senatoria ed imperiale  è necessario eliminare ogni maschio asmoneo, che ha titolo di maran dal re dei re di Parthia!.

Antonio, perciò, non indaga sul crimen del re giudaico, intasca il denaro prezioso, accetta le truppe scelte ed invita a banchetto come ospite di rilievo Erode, mentre contemporaneamente liquida  Lisania, imparentato con gli asmonei.

Il triumviro ripete l’invito per più giorni davanti a Cleopatra che ascolta gli elogi rivolti al sovrano giudaico e che, non potendo intervenire, ai festini militari,  nemmeno in privato, si disinteressa della questione, avendo avuto come compenso  la Celesiria per la sua non interferenza negli affari.

Il triumviro, secondo Flavio, afferma: non è bene che un re sia citato in giudizio a rendere ragione del suo operato nel proprio regno, (altrimenti non sarebbe più re)/ ou …kaloos  ekhein ..basilea  peri toon  katà thn arkhhn gegenhmenoon  euthunas apaitein (outoo gar an oudé basileus eih).-ibidem, 76-. 

Si rilevi l’uso di euthunas apaitein un sintagma giuridico per indicare che un re non deve essere citato in giudizio per rispondere di un reato, essendo al di sopra della legge, in quanto sovrano assoluto (Cfr Il re legge vivente, la legge re giusto  in Sito) e in specifico di Euthuna / un processo giudiziario per rendimento dei conti in senso più amministrativo che  politico-militare. 

Dopo aver mostrato la praticità del diritto romano  sembra che Flavio giustifichi anche il comportamento privato del triumviro (ed implicitamente di Ottaviano) che sentenzia: coloro che hanno dato un titolo di rango regale e lo hanno dotato di potere gli devono lasciare anche la libertà di avvalersene /ontas de thn  timhn kai  ths  ecsousias  katacsioodantas ean authi Khrhsthai.

Poi, Antonio rivolto a Cleopatra, che ha fatto pure lei stragi di parenti, sostiene che la stessa cosa,  a maggiore ragione, sarebbe  stato conveniente  per la regina egizia, cioè di non immischiars negli affari di governo che non la riguardano / to d’auto kai thi Kleopatrai mh polupragmonesthai ta peri tas archas …sumpherein  ( il verbo polupragmoneoo vale come rimprovero in quanto significa mi ingerisco in molte faccende e in cose che non mi riguardano poiché sono eccessivamente curiosa dei casi altrui!).

Erode non ritorna subito in Giudea, ma scorta Antonio  nel tragitto che va da Antiochia verso l’Eufrate: è il suo accompagnamento come quello di Cleopatra  e di altri re, che seguono il triumviro nella fase, diciamo, ispettiva e di reclutamento del suo esercito.

Flavio scrive riprendendo il discorso dal progetto di fuga di Alessandra  (ibidem 80): Il  piano non era  rimasto segreto perché, quando il re ritornò in Giudea, dopo aver in parte scortato Antonio nel cammino contro i parthi, sua sorella  Salome e sua madre gli rivelarono subito quali fossero le intenzioni di Alessandra e degli amici di lei.

Mentre Antonio  avanza  verso l’Eufrate, seguito dai re amici,  mette sotto accusa i dinasti locali e tetrarchi della Siria che, secondo Flavio, temono l’avidità di Cleopatra, ma in effetti sono incerti per la loro condotta filoparthica nel periodo 40-37 ed ora nel 36 si sentono in pericolo, essendo stati alleati con Antigono, in quanto corrono il rischio di eliminazione fisica o sostituzione.

Certamente hanno timore che Antonio e Cleopatra possano unirsi per annullare le costituzioni statali, fatte dagli arsacidi (in conformità con le vecchie disposizioni  dei seleucidi e  degli achemenidi)  a favore  delle antiche pretese dei lagidi, visto il connubio attuale tra il triumviro e la regina egizia.

Cleopatra, secondo la propaganda successiva ottavianea,  non gode di buona fama per la sua natura avida, attestata da quasi tutti gli storici augustei giunta fino a Flavio (Ibidem, 89), il quale la ritiene bramosa delle cose altrui e capace di violare ogni legge per ottenere quello che vuole.

Gli storici conoscono i delitti di Cleopatra, necessari per sbarazzarsi dei fratelli e delle sorelle  così da regnare indisturbata in modo assoluto, secondo le regole della monarchia orientale. Cleopatra è vista da Anneo Floro come un mostro (Ep. II, XXI).

Ha fatto uccidere, col veleno, suo fratello quindicenne Tolomeo Filopatore, subito al suo ritorno da Roma dopo la morte di Cesare, avendo in braccio il piccolo Cesarione.

Grazie ad Antonio si è liberata di sua sorella Arsinoe, che pur si è ritirata e vive come sacerdotessa nel tempio dell’Artemision ad Efeso solo per il fatto che è ancora chiamata regina – secondo le fonti augustee che insistono nella critica alla regina accusata di violare tombe  e templi  per avere denaro-.

Per Flavio (ibidem,90): nessun luogo  sacro era da lei considerato così inviolabile da non poterne asportare qualche ornamento e nessun luogo secolare che non fosse soggetto ad indegnità di ogni genere purché potesse soddisfare l’ingiusta  brama di donna viziosa. Insomma nulla bastava a questa donna  stravagante  e schiava dei propri appetiti  tanto che tutto il mondo non era sufficiente a soddisfare le brame della sua immaginazione.

Flavio segue una fonte augustea e quindi chiude il discorso dicendo: quando attraversava la Siria non pensava ad altro che a possederla (ibidem,91).

Secondo noi,  le richieste di Cleopatra ad Antonio sono secondo la politica lagide di rivendicazione della Celesiria e delle zone  limitrofe  sottratte da Antioco III a Tolomeo IV, nel 207.a.C., dopo la battaglia di Raphia,  in conformità col piano della ierogamia  e della impresa parthica, determinante per l’attuazione dei sogni di dominio universale  secondo la paideia katholikh alessandrina e la giustizia militaristica romana.

Erode lascia Antonio prima di Cleopatra e riparte  per Gerusalemme facendo forse la stessa strada di Cleopatra, che un mese dopo,  poco prima di giungere a Zeugma, volge verso sud e, procedendo per ritornare in Egitto, fa una prima tappa ad Apamea e poi a Damasco e presumibilmente una terza a Gerusalemme per essere infine accompagnata sulla costa.

Infatti Flavio afferma (ibidem, 96) scortato Antonio fino all’Eufrate nella spedizione contro l’Armenia, Cleopatra  fece ritorno  e si fermò ad Apamea e a Damasco;  andò poi in Giudea  dove Erode la incontrò e le passò quelle parti  dell’Arabia , che le erano state  donate, ed anche le rendite  della regione di  Gerico. Questo paese  produce balsamo che è il prodotto più prezioso e  cresce soltanto là con alberi di palma numerosi ed eccellenti.

Dunque, appena Erode torna tra aprile/ maggio a Gerusalemme sa dalla madre e dalla sorella  del comportamento del suo epitropos e di Alessandra che l’ ha persuaso a fuggire presso il legatus romano e di un rapporto ritenuto da Salome troppo intimo di Giuseppe con Mariamne.

Mentre Cleopatra viaggia verso Damasco, Erode vuole sapere di più sulla situazione  e sugli intrighi di Alessandra e sulle sue connessioni  con la famiglia di Lisania, dati i rapporti di parentela.

Scopre, sempre grazie a Salome, che il marito ha avuto frequenti incontri con sua moglie per odio verso Mariamne, che, nei litigi,  è solita rinfacciare altezzosamente i modesti natali della sua famiglia (ibidem,82). 

Erode è uomo in attesa,  ancora dopo  oltre un anno di matrimonio, di un figlio da parte di Mariamne, di cui è  innamorato folle, preso da ardente amore: il re, comunque, si sa controllare e non fa azioni precipitose ma, spinto dal suo sentimento amoroso, incalza la moglie per chiarire la sua posizione circa la presunta relazione con lo zio epitropos.

Mariamne, secondo Flavio (ibidem, 83),  negando ogni cosa con giuramento, a propria difesa disse quanto può dire chi non commise nulla di male; allora il re si convinse poco a poco,  calmò la sua  collera, vinto dalla tenerezza verso la moglie, si scusò per aver creduto quanto aveva udito. Anzi lui stesso di sua volontà  per il comportamento corretto di lei  mostrò gratitudine  e le manifestò quanto grande fosse la sua passione per lei e quanto le fosse devoto. E infine, come è naturale,  fra chi si ama  cominciarono a piangere e ad abbracciarsi con intenso e passionale trasporto.  

Nell’eccitazione Erode, travolto dalla passione, nella foga dello stimolo amoroso vanta il suo amore e stimola la donna a partecipare più intensamente all’atto d’amore.

Mariamne è lucida mentre Erode, sentimentale, è ardente e focoso: la moglie lo  gela dicendo: non è l’atto di uno che ama  il comandare che, se  fosse capitato qualcosa  di grave per mano di Antonio, io sarei dovuta, pur innocente, essere messa a morte!.

Per Erode è un rivelazione che significa adulterio da parte della moglie ed ha una reazione propria di un uomo, che, preso da dolore immenso, non avendo più autocontrollo, risulta pazzo furioso.

Flavio dice (ibidem 87): le mani del re subito la lasciarono; incominciò a gridare e a strapparsi i capelli  con le proprie mani, affermando che la sua comune intesa con Giuseppe era provata: lo zio mai avrebbe manifestato quanto gli  era stato detto in privato se tra loro due non ci fosse stata  una completa confidenza!

Erode vorrebbe uccidere Mariamne, ma si trattiene anche se gli costa reprimere l’impulso istintivo.

Comunque, comanda che sia ucciso suo zio, senza neanche vederlo, e  che Alessandra sia incatenata e messa sotto custodia a causa dei suoi intrighi.

Si è verso la fine di luglio e Cleopatra sta per giungere a Gerusalemme ed è accolta da Erode e dalla sua corte, che è ancora piena di odio e di rancori tra le due stirpi per la prigionia di Alessandra – che probabilmente è tenuta sotto costante sorveglianza, ma lasciata libera – e per la morte di Giuseppe.

La presenza di Cleopatra in città dovrebbe essere stata breve: qualche settimana, in un periodo in cui, secondo Flavio, (Guer. Giud. I, 362)  Erode con ricchi doni cercò di mitigare la sua inimicizia  e fra l’altro ne prese in affitto per 200 talenti all’anno le terre che erano state strappate  al suo regno e poi la scortò con ogni onore fino a Pelusio.

Così Flavio afferma  all’atto della scrittura del 74 d. C., ma venti anni dopo scrivendo Antichità Giudaica  l’autore ebraico  dapprima sembra voler fare credere ad un relazione sessuale tra il re e Cleopatra  per il fatto che per natura  lei era  abituata a tale  specie di piaceri senza ritegno -ibidem 91-  precisando che la regina forse sentiva anche realmente,  in qualche misura, passione  per lui  o  cosa più probabile lei stava segretamente complottando  che le si facesse una qualche violenza  e avesse così  il pretesto di tendere una trappola.

La conclusione di Flavio è questa: insomma lei dava l’impressione di essere sopraffatta dalla passione (ibidem 92).

Poi lo storico, dopo aver spiegato il comportamento di Erode che la considera depravata con tutti e in quel particolare momento la vede spregevole per la lussuria che la  spingeva  così lontano, mostra il ragionamento del re che pensa che se lei avesse fatto delle proposte per prenderlo in trappola, egli avrebbe avuto motivo di recare danno a lei prima che lei lo recasse a lui.

In conclusione Erode, secondo Flavio, sceglie la strategia di eludere le sue  profferte amorose  e prendere consiglio dai suoi amici, avendo in mente di ucciderla, mentre era in suo potere: avrebbe liberato dai guai tutti coloro  per i quali lei era stata una depravata e verosimilmente lo sarebbe stato in futuro, ritenendo che questo sarebbe stato un regalo per Antonio perché neppure a lui sarebbe apparsa leale se una necessità lo portasse ad aver bisogno del suo aiuto.

Il parere dei suoi consiglieri è di non seguire tale piano in quanto rilevano che non vale la pena di correre il pericolo più ovvio di un passo così grave  e lo invitano a non compiere gesti impulsivi, dicendo che Antonio non avrebbe tollerato un’azione del genere  anche se uno gli avesse posto davanti i vantaggi; il suo amore sarebbe divampato ancora più furioso, qualora avesse pensato che lei gli fosse sottratta con la violenza e l’inganno e nessuna scusa poteva rendere ragionevole il compiere un simile attentato contro la donna che aveva la posizione più alta tra quelle del suo tempo; quanto al beneficio che ne derivava, seppure si potesse pensare che ci fosse, si doveva vedere con la noncurante ed indifferente attitudine di Antonio.

La conclusione del consiglio degli amici è la seguente:  non era difficile prevedere come  fatti del genere avrebbero condotto un’infinita catena  di mali sul suo trono e sulla sua famiglia, pertanto non vi era alcun dubbio su ciò che doveva fare:  trattenersi dai crimini ai quali lei lo istigava  e in quella situazione doveva comportarsi in maniera rispettabile.(ibidem,102).

Il discorso è tipico degli storici augustei che riprendono Erode che a Rodi (Guer.Giud I,389) giustifica la sua amicizia con Antonio quando deposta la corona, chiede ad Ottaviano di nuovo di poter governare il  regno, mostrando che lui  avrebbe pensato ad una tale soluzione per liberare Antonio  e il mondo romano da Cleopatra.

Non si sa  quale sia la precisa fonte  (Nicola di Damasco? o Dellio? o Velleio Patercolo?) Preferisco pensare a Dellio che in quei mesi segue Antonio in Parthia e che conosce bene l’animo del triumviro e della regina di Egitto,  descritti poi, dopo il passaggio tra gli ottavianei,  in termini negativi, pur avendo condiviso l’utopia antoniana. Si ricordi che Dellio  è uno degli ultimi a passare dalla parte di Ottaviano, prima di Azio (Velleio Patercolo, St., II,84).

Il sogno antoniano,  sublime, è quello dell’impero universale su basi divine, in relazione alla concezione faraonica di Cleopatra e di Cesarione, erede di Cesare e dei lagidi.

Cleopatra è una regina scaltra che spera di fondare con Antonio una nuova dinastia, che ha in Cesarione, il piccolo Cesare il vero erede,  che deve unificare l‘imperium romano occidentale ed orientale,  dopo  che il triumviro di Oriente  ha posto i confini all’Indo ad ovest  e  a nord al Caucaso e alla catena montagnosa del Caracorum, cioè ricostruito i nuovi termini in linea con la logica di Alessandro il grande.

Il sogno di Cleopatra è in Cesarione sovrano assoluto dell’impero romano con capitale Alessandria e come patronus Antonio, cesariano scudiero, realizzatore dei piani orientali di Cesare.

Perciò quanto dice Flavio è storia  del senno del poi: in quel particolare momento Antonio sta giungendo ai confini dell’Armenia e sta facendo la più imponente parata militare mai vista,  convinto che il sogno cesariano può essere realizzato e che Cleopatra  e lui, coppia divina, possono veramente governare il mondo.

Non è pensabile nel delirio di potenza dei due amanti che Antonio non controlli il viaggio di ritorno della divina  sposa, incinta, e che Cleopatra non sia informata del cammino del divino sposo: i due stanno visitando da padroni  territori a loro di nome soggetti: ambedue devono comunque essere diplomatici e politici con chi li ospita, per averne viveri.

Cleopatra non deve ingerirsi nelle faccende di Erode  e disinteressarsi di Alessandra, pur amica;  ed Antonio  è ospite di Artavaste che propone  l’invasione della Media e che dovendo foraggiare il suo immenso esercito, preferisce dirottarlo nella direzione del nemico re medo, in pieno inverno, per il saccheggio.

Il triumviro abbocca perché è assicurato dal re che i Parthi temono la stagione invernale e, all’epoca, il re dei re ha convocato il medo Artavaste per stringere un accordo, non ancora stipulato.

Perciò, chi, conoscendo Antonio e il suo sogno,  potrebbe  ardire di toccare una donna, come Cleopatra, una regina affascinante più che bella (Ottavia è più giovane e di molto superiore per bellezza!), ma intelligente e poliglotta, politica espertissima di raffinata cultura?

Chi, pazzo, correrebbe il pericolo di fare avances ad un tale donna, di troppo superiore come persona e come regina? chi  potrebbe fare un complotto per ucciderla?

Erode, un idioths fatto re da Antonio, suo benefattore e patronus!

No, di certo.

Cleopatra è incinta di almeno 6 mesi e di norma le donne evitano il maschio ed è ancora in viaggio, con un seguito di migliaia di soldati galati, di cortigiani e di Cesarione e di tanti addetti al principe ereditario romano-egizio!

Erode è follemente  innamorato di Mariamne, che forse a luglio già è anche lei incinta di Alessandro, in un clima più disteso, dopo la fine del povero Giuseppe, a seguito delle feste per l’arrivo della regina di Egitto, che, memore dei consigli di Antonio, può  incontrare Alessandra, libera, anche se sorvegliata!

Ad Antonio nel 36 nascono Antonia minore da Ottavia a Roma  il 31 gennaio  e Tolomeo Filadelfo ad Alessandria  da Cleopatra in ottobre; ad Erode ai primi di Febbraio  Mariamne partorisce, a Gerusalemme, il suo primo figlio!.

Cleopatra ha una accoglienza trionfale: non ci possono essere né attentati popolari, né insidie  né profferte amorose da parte di un piccolo re, in mezzo ad un mare di ancelle e di eunuchi, di cui è piena la corte di Egitto, di soldati egizi e di romani, comandati da Iulios !

Dunque, la visita di Cleopatra ha solo valore di un interesse economico ed amministrativo: la regina cerca di estorcere più denaro possibile ad Erode e Malco, tramite i suoi dioichetai impegnati nella transazione delle terre  e nelle dichiarazioni di affittuario da parte di Erode, a cui conviene pagare 200 talenti lui e 200 Malco piuttosto che consegnare in mani straniere i territori giudaici  e nabatei, dati da Antonio alla regina.

Forse nel viaggio di ritorno, Erode accompagna  Cleopatra, facendola  scendere a Gerico e la ospita al palazzo asmoneo e le dà l’opportunità di vedere di persona la ricchezza e bellezza del bacino del Giordano e del Mar Morto, propagandati per il balsamo, i fanghi curativi,  le acque calde e le palme. Dopo averla  scortata con onore fino al confine con l’Egitto, manda corrieri ad Antonio per notificare di aver compiuto il suo dovere di suddito.

Il triumviro, persuaso da Artavaste II, consultati i piani di Cesare, decide ora di seguirli, dopo aver  attraversato l’Armenia  e di congiungersi sull’altopiano di Erzer (attuale Erzurum) con le truppe di Canidio e con quelle degli alleati per verificare effettivamente la grandezza del suo esercito imponente e per fare una grandiosa parata militare della potenza dell’impero romano tanto da sbalordire anche i popoli confinanti, i Battri ed Indi, e far tremare tutta l’Asia  (Plutarco, Antonio, 37,4).

Il viaggio dell’esercito è ancora unitario in quanto secondo Dione Cassio (ibidem, 25,4) Plutarco (Antonio, 38,2), (Velleio Patercolo, St., II 82) il triumviro  porta  su trecento carri le macchine necessarie per gli assedi,  fra le quali un ariete lungo ottanta piedi sotto il comando di Oppio Staziano, che rallenta la marcia ed assedia la capitale dove risiedono i figli e le mogli del re.

Lo storico greco mostra che Antonio ora asseconda il re di Armenia che lo ha persuaso a passare per il suo Regno e fare un tragitto di 8000 stadi  circa 1480 km,  per aiutarlo contro il suo omonimo re di Media Atropatene.

Plutarco nel mostrare la rassegna evidenzia l’apporto di Artavaste II  (un contingente iniziale di 6000 cavalieri, – poi 16000 – e  7000 fanti ) ed infine elenca 60000 legionari romani  e 10000  cavalieri  iberici e  celti inquadrati coi romani mentre degli altri popoli  rileva auxilia  di 30000 uomini, compresi i cavalieri e truppe leggere (ibidem, 3-4)

Un esercito così imponente mai è schierato da Roma in Oriente, sull’altopiano, posto  tra l’ Armenia e la Media! Velleio Patercolo (St. II, 82) dice le stesse cose  e parla di 13 legioni condotte attraverso l’Armenia e la Media per attaccare la Parthia!

Nel tragitto di attraversamento dell’Armenia, a marce forzate, durato quasi 30 giorni, in luoghi impervi e disagevoli,  non è facile il vettovagliamento,  nonostante i soccorsi inviati  gratuitamente dal re, che vede le violenze dei militari verso il suo popolo.

Antonio non è attento al malumore delle popolazioni aramaiche e alla situazione difficile di Artavaste II, – che ha permesso  all’esercito romano il passaggio per odio verso il re di Media – e non ha neanche consiglieri aramaici di fiducia, che traducano bene i messaggi e tanto meno può fidarsi dei mercanti e trapeziti giudaici del suo seguito,  anche loro aramaici infidi che lo finanziano perché sono Methoroi, cioè uomini, ellenisti di doppio passaporto,  che cercano il loro interesse finanziario, al confine tra due stati ed hanno banchi per il cambio di monete.

Perciò per il re armeno è conveniente  allontanare l’esercito dalle sue terre.

Da qui il consiglio dell’armeno  di saccheggiare la Media  e punire il suo re, a lui nemico: si sarebbe liberato dei romani e avrebbe sconfitto il re vicino, guadagnando territori per la corona!.

Il vero errore strategico di Antonio è questo:  a  settembre/ottobre le regioni sono quasi sempre innevate e lui ancora a fine agosto deve assediare Praaspa, la capitale meda dopo aver imposto ai soldati marce forzate per altri10 giorni, dopo 8000 stadi già percorsi, non ben vettovagliati.

A lui sarebbe stato conveniente svernare comodamente in Armenia  dividendo le spese  tra  i questori romani  coi fondi dell’ erario  e con l’aiuto finanziario dei re socii  (tra cui Cleopatra) e  dello stesso Artavaste, che avrebbe avuto il compito maggiore di rifornire  i soldati accampati  nei castra invernali (Cfr. Erode Basileus): a primavera la marcia verso la capitale meda sarebbe stata un trionfo, data la lentezza del reclutamento del parthi in quella stagione, non sempre mite e dopo il riposo dei soldati.

Gli storici ottavianei, che influenzano  Plutarco e Dione Cassio, invece rilevano che ci sia  fretta in Antonio che, avendo desiderio passionale di Cleopatra, vuole svernare in Egitto!

E’ un giudizio estremamente negativo per un condottiero di esercito come Antonio, a volte impulsivo, ma di norma prudens, abile a sfruttare le situazioni, coadiuvato da altri duces del suo consilium principis!

Comunque, Antonio, dopo la decisione di aiutare Artavaste II contro l’altro Artavaste, rilevando  due tempi diversi nella marcia dei suoi soldati, divide l’esercito in due colonne, l’una maggiore condotta da lui procede verso Nord-ovest   e poi scende a sud  verso Praaspa  (cfr. Plutarco ibidem e Dione Cassio ibidem) , mentre l’altra  segue a distanza perché trasporta  trascinando le machinae per gli assedi,  sotto il comando di Oppio Staziano, protetta dal re Polemone e da altre truppe ausiliarie.

I due corpi militari fanno due marce  parallele,  senza veri collegamenti, se non tramite corrieri,  lenti necessariamente nella comunicazione in relazione alle diverse condizioni di cammino e alla speditezza di marcia del primo che giunge a Praaspa e l’assedia. Col passare dei giorni le distanze tra i due corpi aumentano.

Accortosi di ciò, il re medo senza neanche attendere l’aiuto di Fraate, che sta ancora convincendo ì capi del suo esercito ad allungare i tempi di milizia a causa della presenza dell’esercito invasore,  attacca il  corpo lento  con le salmerie, le macchine da guerra,  annientando due legioni romane  (Velleio Patercolo, St., II,82; Cassio Dione  St. Rom., XLIX, 25,2),

Il re Artavaste II non è lontano dal luogo e potrebbe intervenire, invece assiste  alla pioggia di frecce, da cui è tempestato l’esercito romano, impegnato a trascinare carri e salmerie e machinae (Cassio Dione, ibidem, 25,5).

Il re, visto l’eccidio romano, preferisce tornare al suo paese,  senza neanche avvertire Antonio!.

Questi, avuta la notizia,  lascia l’assedio di Praaspa, cerca di aiutare i suoi col grosso dell’esercito, ma arriva tardi, constata la morte dei legionari, l’incendio delle machinae e la prigionia di re Polemone,  preso e non ucciso, a scopo di riscatto.

Secondo Plutarco i barbari, inorgogliti per il successo, disprezzano ora i romani ed accerchiano l’accampamento, convinti di poterlo al mattino  depredare, e, perciò, aumentano il numero fino a 40.000 cavalieri.

Antonio, visto il concentramento dei Parthi congiunti con i Medi, raduna l’esercito: inizialmente intende presentarsi con segni del lutto,  poi arringa i soldati, vestito della porpora propria del comandante,  esorta nobilmente al combattimento e conclude il suo discorso col dire che il cielo punisca lui e conceda salvezza e vittoria all’esercito in caso di sconfitta.

Lo storico greco così scrive: il giorno dopo,  i romani  escono dai castra ed avanzano, dopo essersi meglio protetti  e i parthi che li assalirono  si imbatterono in una grossa sorpresa. Credevano infatti di andare a saccheggiare  e  fare bottino  non a combattere, perciò,  avvolti in un nugolo di proiettili, in cospetto dei romani, forti, freschi e pieni di slancio, nuovamente persero il coraggio. Tuttavia, mentre i romani erano costretti a scendere dal pendio di alcune alture  li assalirono e li  bersagliarono di frecce. Allora tra i soldati romani quelli armati di grandi scudi, voltisi verso la fronte, chiusero all’interno, al riparo, gli armati alla leggera e piegatisi su un ginocchio, misero davanti a sé gli scudi sopra di loro e gli altri  di seguito fecero lo stesso. I Parthi ritenendo che il piegare il ginocchio da parte dei romani  significasse stanchezza e sfinimento deposero gli archi  ed afferrate le picche ingaggiarono il combattimento corpo a corpo. Allora i romani  lanciando  tutti insieme l’urlo di guerra balzarono in piedi all’improvviso  e colpendo con i giavellotti  che tenevano in mano i primi tra i nemici,  li uccisero e volsero in fuga tutti gli altri.

Di questa tecnica della testuggine parla diffusamente Dione Cassio, St rom. XLIX,30, al fine di mostrare la superiorità tattica romana.

Antonio riprende l’assedio di Praaspa,  che risulta vano per il valore degli assediati e  per la grandezza delle mura da una parte,  per la mancanza dei mezzi di sfondamento e per la necessità di fare terrapieni con  alberi da tagliare, da un’altra,  considerata anche la fatica della ricerca di vettovaglie  e il trasporto, pagato con molte morti.

In tale situazione si allenta la disciplina ed allora Antonio ricorre  alle  decimazioni (Cassio Dione, Ibidem, 27;  Plutarco, Antonio39).

Cassio Dione  chiude il discorso: to te sumpan poliorkein dokoon ta toon poliorkoumenoon epaskhen / credeva di essere assediante ed invece pativa le sofferenze degli assediati.

Plutarco insiste nel mostrare il tentativo di Antonio di fare  una battaglia campale e risolvere subito la guerra ma i Parthi, convinti della superiorità militare romana, fanno scorrerie veloci ed imprevedibili con la cavalleria leggera e con gli arcieri, impedendo, però, ai romani di schierare i frombolieri per loro nemici micidiali.

Nelle poche scaramucce il triumviro prevale facilmente ma non infligge una sconfitta con strage di nemici, che si sottraggono allo scontro diretto e  sfruttano la conoscenza dei luoghi, subendo perdite molto limitate e nascondendosi in zone sicure (Plutarco, Ibidem,39).

Gli storici mostrano che Antonio comincia a temere la fame, i latrocini all’interno dei castra e la diserzione: Infatti Antonio prevedeva la fame in quanto non si poteva più andare  a raccogliere vettovaglie senza avere molti morti e feriti (Plutarco, ibidem,40,39) mentre per il fenomeno dei ladri sono sufficienti le punizioni  da parte dei decurioni e centurioni e per le diserzioni  basta la visione dei disertori crivellati da frecce dai Parthi, che dissuadono i romani dalla fuga.

Siccome la guerra è dura per i due eserciti Fraate libera da questa situazione senza scampo Antonio perché,  da una parte, teme la defezione dei suoi uomini – che non  sono abituati a  combattere nella stagione invernale in quanto  sanno che in zona il clima si irrigidisce e che dopo il 21 settembre/hdh tou aeros sunidtamenou  metà phthinopoorinhn ishmerian (Plutarco, ibidem,40) iniziano le nevicate – e da un’altra rileva danni ed incendi  per la città recati o dai romani  o dagli alleati: la decisione del re dei re  allora  è quella di  inviare messaggeri per una trattativa, che sarebbe sfociata in una tregua /spondh.

Comunque, a detta di Dione Cassio, (Ibidem,27,4 ) il re riceve i messaggeri su un trono d’oro facendo risuonare la corda dell’arco, inveisce contro i romani  e alla fine thn eirhnen, an ge parakhrema apostratopedeusoontai  doosein upeskheto/ prometteva che, se avessero tolto subito l’assedio, avrebbe concesso la pace.

Al di là dell’ostentazione di potenza di Fraate IV nella trattativa, i Parthi hanno piena coscienza della superiorità tattico-strategica militare  e disciplinare dell’esercito romano e perciò cercano un trattato di pace.

Antonio, dunque, nonostante  tanti problemi logistici e qualche episodio bellico disastroso, ha imposto la potenza del militarismo romano, che ha impressionato con le manovre della fanteria, capace di passare attraverso i territori indenne, nonostante il netto predominio della cavalleria parthica, il clima, la fame e la non conoscenza dei luoghi.  

Plutarco (ibidem 40)  e Dione  (ibidem) spesso citano che contingenti parthici, ammirati si affiancano ai legionari  con gli archi tenuti in mano, volti all’ingiù,  per lodare il valore dei romani, riconoscendone la superiore forza nell‘arte della guerra  e dichiarando lo stupore dello stesso loro re.

Ottaviano Augusto nel 20 a.C., pur dopo preparativi militari, si accorda con lo stesso Fraate IV  e, grazie alla diplomazia, senza fare alcuna parata militare,  ottiene le insegne sottratte a Crasso e figli del re come ostaggi contro il parere della nobiltà partha: tanto rispetto si  è meritato Antonio col suo esercito e con le sue vittorie sul campo!

Augusto impone anche nel trattato la clausola che ai romani spetta l’elezione del re  della Armenia Maior, come riconoscimento del diritto romano sull‘intera area: nel 2 d.C.  Gaio Cesare, inviato per sostenere Ariobarzane con una grande armata e con molti consiglieri militari, data la giovane età del principe,  impone di nuovo tale diritto al trasgressore Fraate V, che si ritira  dalla zona contesa (Cfr Velleio Patercolo, St. II,102 1-3).

Perciò, Antonio, non ritiene di dover parlare di sconfitta e tanto meno di essere umile nei confronti dei Parthi (come pensa Floro che parla di immensa vanitas hominis che, per desiderio di titoli, ha vilipeso il nomen romano, senza un disegno e senza nemmeno l’ombra di una dichiarazione di guerra, come se anche la furberia rientrasse nell’arte di un comandante, Epit.II,10,2).

Antonio, invece, inizia la ritirata, a causa della malasorte  – anche Giulio  Cesare sarebbe stato in tale situazione incapace di cambiare gli eventi col quel clima, in quei luoghi, dopo la defezione di Artavaste!-, con la volontà segreta  di punire il traditore, che,  comunque, viene trattato con benevolenza, come se nulla avesse fatto di contrario ai romani.

La concomitanza di fame, di sete, di malattie, di mancanza di viveri,  la necessità di attraversare regioni sconosciute e il pericolo di subire agguati dei nemici (cfr. Plutarco, ibidem 46-47; Dione Cassio, Ibidem, 28), l’ insicurezza delle guide ( sia del Mardo che dell’ex legionario di Crasso, che di Mitridate, cugino di Monese), la non conoscenza della lingua  aramaica, diversa perfino dall’armeno, che confonde le indicazioni, sono indizio  non di una cattiva gestione dell’impresa ma di fatali coincidenze  per  un dux  di norma fiducioso verso gli altri, magnanimo, tollerante, in sostanza, comunque, prudens.

Poi la provvidenziale mutata situazione politica, dopo la frattura fra il re medo e Fraate per la divisione  delle spoglie romane in loro possesso  mette in evidenza l’animo invitto del dux romano, pronto a tornare in Armenia, là dove è stato costretto per salvare il salvabile a  riverire Artavaste, a lisciarlo e a vederlo in relazione con i Parthi e con le spie di Ottaviano.

Il ritratto che ne fa Plutarco è di un grande dux,  amato dai  milites, di cui tesse un elogio dopo una battaglia persa,  volendo mostrare l’adottamento della strategia di marcia a formazione quadrata come dimostrazione della capacità di cambiare in corsa le strategie, per proteggere non solo la retroguardia, ma anche i fianchi, grazie al rafforzamento dei lanciatori di giavellotti e di frombolieri.

Lo storico  (ibidem,43,3-4) – oltre a mostrare la grande umanità e la dedizione cameratesca verso i soldati, a cui è vicino, specie ai feriti che chiamano il dux col titolo  di imperator –  aggiunge un elogio dei milites e del comandante, anche se sconfitto: nessun altro comandante di quei tempi  è riuscito a raccogliere un esercito più brillante del suo,  per coraggio, resistenza alle fatiche  ed ardore giovanile. Il  rispetto, che dimostravano verso il comandante, l’obbedienza e l’affetto e la concordia di tutti, illustri e sconosciuti,  capi e soldati semplici nel  preferire la stima e il favore di Antonio alla salvezza della propria vita,  non furono superati nemmeno  dai romani di una volta.

Dunque, lo storico mostra poi le cause che determinano un  sentimento  così generale verso un uomo: La nobiltà della stirpe, la sua capacità oratoria, la semplicità, la liberalità  e la larghezza nel fare doni, l’inclinazione a scherzare e a conversare con tutti.

 Ed infine conclude dicendo che in quella triste occasione il dux partecipa alle pene e sofferenze degli infortunati  fornendo ciò di cui ognuno ha bisogno, facendo sì che malati e feriti abbiano più animo dei sani.

Sembra che gli storici, al di là delle lettura generale dell’impresa parthica antoniana secondo l’angolazione di parte,  abbiano, comunque, in comune un giudizio positivo sulla conduzione della campagna.

Il triumviro sarebbe passato indenne, pur nel mare di imprevisti e la concentrata forza della sorte, se non avesse dovuto fare un intervento correttivo per evitare il peggio nell’ occasione di un’impresa inizialmente riuscita, da lui accordata, ad  un valoroso tribuno, Flavio Gallo che, avendo chiesto molti veliti della retroguardia ed alcuni cavalieri dell’avanguardia,  resiste con un’altra tattica ai nemici!

Il tribuno,  secondo Plutarco (Ibidem,42,4 ) dopo 4 giorni di scaramucce  senza vinti e vincitori, nonostante il continuo ripiego dei cavalieri romani,  al quinto giorno respinse i nemici che attaccavano,  senza però ripiegare poco a poco, come si faceva prima, verso la fanteria e senza ritirarsi, ma rimanendo fermo, impegnandosi nella mischia in modo troppo audace: sa bene che così facendo può essere accerchiato!

I comandanti della retroguardia, vedendolo ormai staccato dal resto dell’esercito, mandano a chiamarlo ma Gallo non obbedisce, anzi apostrofa il questore Tizio che afferra le insegne  e le volge indietro e lo rimprovera perché porta  al massacro molti uomini valorosi costringendo  il questore  a ritirarsi e obbligando i suoi a rimanere fermi.

Il tribuno è un valoroso che conosce i piani di Antonio e la sua volontà di  trascinare i Parthi ad una battaglia campale.

Infatti, essendo, come previsto, preso alle spalle  dai cavalieri  parthi  e medi, riuniti, chiamati i rinforzi,  spera di essere liberato dal grosso dell’esercito e di fare una strage dei nemici, grazie all’urto di tutto l’esercito romano.

Invece accade che i capi della fanteria, tra cui era anche Canidio, che poteva moltissimo presso Antonio commettessero allora un grave errore. Infatti, mentre era necessario andare in soccorso con l’intero esercito , mandarono invece o pochi soldati per volta, inviandone di nuovo altri  quando i precedenti erano sconfitti. Non si accorsero che sarebbe mancato poco alla completa sconfitta e disfatta di tutto l’esercito se Antonio in persona in tutta fretta non fosse accorso a far fronte con le truppe  dell’avanguardia. Spingendo subito la terza legione  in mezzo ai fuggitivi contro i nemici arrestò il loro ulteriore inseguimento (Plutarco,ibidem,6,7,8).

Secondo Plutarco (Ibidem,43).  Non c’è concordia nel numero dei morti  tra gli storici!: morirono non meno di  tremila romani  e furono portati  in tenda 5000 feriti, tra cui Gallo che  era stato crivellato da frecce.

Gli uomini, comunque, hanno fiducia somma in Antonio che senza badare a fatica né alla mancanza d’acqua, né a malattie, derivate da acqua inquinata o malsana,  consapevole che all’Arasse termina l’inseguimento parthico,  fa passare l’esercito  lungo zone montane  per evitare agguati.

Dopo cinque giorni da questa battaglia Antonio raggiunge finalmente  l’Arasse,  facendo fare marce, specie quella in cui, in una sola notte,  percorre 240 stadi oltre 44 km.!

E pur entrato in Armenia, sorvegliato da un re infido,  il triumviro deve  contare morti perché molti si ammalano di idropisia e di dissenteria a causa dell’acqua bevuta malsana e delle erbe mangiate, nocive.

Ad Erzer, là dove ha fatto una trionfale parata, ora fa il computo generale della sua non fortunata impresa, una specie di consuntivo bellico:  per Plutarco (ibidem,50) mancavano 20.000 fanti,  4000 cavalieri  non tutti  uccisi dai nemici  ma più di metà morti per le malattie.  Avevano compiuto  da Fraata (Praaspa per Dione Cassio) un cammino di 27 giorni avevano vinti in 18  battaglie i Parthi, ma le vittorie non avevano portati risultati decisivi e stabili perché si erano limitati ad inseguimenti brevi ed incompiuti.  

Per Antonio, dux cesariano, abilitato  a  sconfiggere e  ad essere sconfitto, ora è il momento peggiore, quello della simulazione di fronte al re responsabile della non riuscita dell’impresa, al fine, però, della vittoria finale.

Antonio, dunque, ha capito  che  l’armeno Artavaste ha impedito di portare a termine l‘impresa: i suoi 16 mila cavalieri  sarebbero stati utili  a tenere a bada i parthi  che subito sarebbero tornati a casa,  mentre ora anche se  sconfitti seguitano a combattere contro il sistema  loro solito,  perché non ostacolati nella fuga e non inseguiti debitamente.

Il triumviro  intelligentemente, comunque,  va contro i l suo consilium che vuole la punizione immediata del re (Plutarco, ibidem 50) e la rimanda a data successiva.

Nel frattempo  non rinfaccia il tradimento, né abolisce  le consuete dimostrazioni  di cortesia  e di riguardo  verso di lui, ben sapendo di disporre di un esercito debole  e di essere senza risorse.

Anche Dione Cassio (ibidem, 31) dice avrebbe voluto punirlo ma gli usava riguardo e lo blandiva allo scopo di ricevere vettovaglie e denaro.

Anche  con questa strategia, seppure entro il territorio armeno, Antonio guida una  ritirata ordinata, resa difficile dall’inverno che è  duro, dalla neve  che cade ininterrottamente  e si accumula sulle alture, per cui il dux è provato ed addolorato di perdere in questo ultimo tragitto altri 8000 uomini.

Plutarco infatti aggiunge: All’arrivo sulla costa fenicia, tra Berito e Sidone, nella località di Villaggio bianco, si mise ad attendere  Cleopatra e poiché ella tardava  era agitato e  inquieto:  subito cominciò a bere  e ad ubriacarsi  e non riusciva a star fermo a tavola, ma si alzava mentre gli altri bevevano  e correva spesso a vedere se arrivava.

Antonio ha bisogno di tutto, di abiti, di viveri e  di denaro contante per pagare i milites.

Da qui la sua agitazione di animo, con ricorso all’ubriacatura, abituale in casi difficili, quando subentra la depressione, per uomini del sistema agricolo-militare.

Dione Cassio  aggiunge: gli giunse del denaro anche da Cleopatra: così poté dare agli opliti cento dracme a testa  e buona somma anche agli altri soldati. E poiché il denaro che gli era stato mandato  non bastava  provvide alle somme mancanti  coi propri fondi  assumendo il debito che si era assunto con Cleopatra.

Antonio ha al suo seguito trapezitai alessandrini che pagano con denaro liquido o promettono di darlo appena arrivati in Egitto,  se il dux  firma  cartulae di compromesso al fine di accedere ai depositi bancari alessandrini, con cambiali, diremmo oggi noi ( cfr. A Petrucci, Mensam exercere, Studio sull’impresa finanziaria romana,  Jovine 1991)..

Dione Cassio così conclude:  Cleopatra giunse, portando molte vesti e denaro per i soldati.

 Non è pensabile che  Erode ed Alessandra, vicini alla zona, non siano  accorsi, se non di persona, almeno con  delegati  che portano  soccorsi immediati di viveri e di abiti  e  di trapezitai  gerosolomitani con denaro liquido.

La notizia del ritorno di Antonio gira  in tutta la Siria con voci contraddittorie circa l’esito finale, ma con la sicurezza del passaggio di un esercito in ripiegamento con tutti gli acciacchi di una campagna militare.