Enthousiasmòs

Enthousiasmòs comunicativo
Funzione emotiva e sua utilizzazione pratica

Situazione
Passeggiando, un mattino, con un conoscente, parlo con lui (uomo di cultura) con  enthousiasmos di Caligola il sublime,  opera storica da presentare all’Auditorium della nostra città ad un pubblico.
Dico enfaticamente che, pur essendo uno storico, un linguista conosciuto per titoli e corsi fatti sulla semantica, autore di libri più o meno noti, non ho avuto, comunque, a 70 anni, una vera pubblicazione!.
Anzi mi rammarico che i tre volumi di Storia, intitolati  Giudaismo romano non hanno  ancora speranza di pubblicazione e che i romanzi (Mastreià, scritto nel 1994 e specie L’etermo e il regno, opera costruita secondo  le regole più sofisticate della narrativa, scritta nel 1999) sono ancora nel cassetto, e specialmente soffro al pensiero di non dover vedere pubblicati Traduzione Note e Commenti di 35 libri di Filone e di 20 Libri di Antichià Giudaiche di Giuseppe Flavio,  ed un libro di Stromateis di Clemente Alessandrino, frutto di un lavoro quarantennale.

Ho mostrato, facendo il punto situazionale,  il mio status di sofferenza!.

L’altro, improvvisamente, mi apostrofa mostrando segni di agitazione, nervosamente: Tu vivi male!

Come fai sentire uno, se parli della tua genialità e grandezza?

Come tratti l’altro?.
Rispondo che lui è in equivoco e che in effetti sto mandando un messaggio su una personale frustrazione e delusione, in relazione all’età senile.
Aggiungo che la comunicazione ha un altro circuito e che  l’informazione centrale è sulla mia sofferenza, non sulla mia genialità, anche se ho piena coscienza della mia alta preparazione e della mole di lavoro fatto, di cui ho detto soltanto una parte.

Tutto è vano, anzi lui mi consiglia di riesaminare la fettuccia del mio parlato e di pensare alla “reazione” dell’altro, messo in condizione di inferiorità.
Mi scuso dicendo che sempre parlo ed ho parlato così entusiasticamente quando sono sul piano emotivo e che distinguo tra i piani comunicativi, ed aggiungo che sono un maestro di comunicazione, che ha insegnato le tecniche della comunicazione (di cui sono prova  Leggiamo insieme… Ungaretti e l’Altra lingua l’altra storia) per decenni, avendo fatto corsi per insegnanti di scuola elementare e media  ed a avendo abilitato, con incarico ministeriale,  centinaia di professori  (anche)  in lingua latina già nel 1976.

Al sentire il sintagma  maestro di comunicazione ancor di più il signore si è innervosito  e, visto il turbamento,  decido di non dire altro.

Mi sono allontanato, dopo i saluti, triste, ripensando ad un collega che, anni fa, in piazza Matteotti, si mise a urlare quando, volendo parlare alla pari con me di letterarietà, improvvisamente, non riuscendo a capire la  terminologia tecnica linguistica   e il sistema semantico, se ne era andato, imprecando, lasciandomi di stucco, urlando: io non capisco i termini! Tu stronchi l’altro!

Altri ricordi
Ed ho ripensato a tanti altri episodi, capitatimi a scuola, con colleghi, con  genitori e con alunni, nel corso della mia lunga attività scolastica, agli inizi dell’anno, a causa del lavoro linguistico e del diverso modo di insegnare.
Neanche voglio ricordare gli scontri durissimi con i presidi,  del tutto incapaci di seguire una lezione tecnica e desiderosi di impormi di spiegare come gli altri insegnanti, secondo i  programmi: io dicevo solo che, avendo un metodo, seguivo la mia strada e che volevo lavorare in pace e poi, a momento opportuno, avrebbero giudicato dai risultati. 
Dall’esame di tanti situazioni simili, capitatemi ad ogni inizio di anno scolastico,  io avevo cercato, dopo lunghe meditazioni, delle strategie di difesa, invitando i genitori degli alunni ad incontri in una saletta di un bar, per spiegare il metodo, le sue strutture significative, gli obiettivi e le finalità e il sistema valutativo, pagando le spese di consumazione per tutti.
Ma, nonostante ciò, una (o due famiglie), contestando il metodo, andava dal preside, da cui ero richiamato a fare scuola secondo norma.
Convinto di operare per il bene degli alunni e vedendo i risultati, sempre, avevo concluso, esaminando la situazione,  che l’errore era nello spostare il punto dalla ricevenza all’ emittenza.
Infatti ritengo ancora che il ricevente crede chi parla simile a sé e perciò interpreta il suo pensiero secondo le sue strutture culturali  in quanto emotivamente va oltre il messaggio, in una confusione della funzione emotiva dell’emittente con quella conativa del destinatario.
Perciò dicevo a colleghi e a genitori che, come non si  sentivano offesi da un ingegnere che, avendo  fatto  il progetto, approvato,  in fase di realizzazione, non ammetteva interferenze e suggerimenti strutturali, così non dovevano giudicare me che, in corso di lavoro,  non volevo intromissioni, ma desideravo  lavorare  serenamente e che, comunque,  avrei accettato critiche solo dopo le valutazioni finali, ad anno scolastico terminato.
Anzi aggiungevo, ridendo, che  quando il vecchio contadino in campagna mi spiegava come si potava, facendo esempi,  io, da dilettante, ascoltavo quanto diceva e cercavo di imparare, imitando i tagli magistrali  da lui fatti, e ne  lodavo la bravura.

Dicevo pure  che quando un muratore, qualificato  di prima,  mi mostrava come si faceva la volta di un arco, da mezza cucchiara cercavo di rifare, lavorando a lungo, sulla base del suo modello,  in modo da  impadronirmi  con l’esercizio delle sue indicazioni esemplari e  gli ero grato per l’insegnamento tecnico  ricevuto.

Di norma invitavo  i genitori  ( ben acculturati) a seguire il corso delle lezioni dai quaderni dei figli e a studiare insieme a loro  le tecniche linguistiche, aiutandoli negli esercizi, e a  tenere presente la valutazione di base da me fatta, all’ingresso al Liceo.
A volte, spazientito, dicevo concordando parzialmente  con Schopenhauer, (Der handschriftliche Nachlass, vol.I p.186) (pur dissentendo dalle sue  forme estremamente settarie, proprie di un classico,  contrarie  alla mia natura, comunista, impostata in senso paritario): “la miserabilità dei più costringe i pochi uomini geniali o meritevoli di atteggiarsi come se ignorassero essi stessi il proprio valore e che di conseguenza non sapessero distinguere la mancanza di valore degli altri, solo a questa condizione la massa è disposta a sopportare i meriti. Da questa necessità ora si è fatta una virtù che si chiama modestia. E’ un’ipocrisia  che viene scusata dall’altrui miserabilità, la quale vuole essere trattata con riguardo”.

Valutazione del fatto
Ho sofferto per qualche  minuto per quanto mi è successo di nuovo (a distanza di anni) dopo che, uscito dalla scuola e ritiratomi in campagna, mi sono tenuto a debita distanza dagli altri, pur seguitando a scrivere e a lavorare secondo le tecniche linguistiche.  L’episodio mi ha turbato  per la presunta invasione di campo, non tanto per l’attacco contro la mia persona, considerata fanatica, offesa già subita, regolare per un profano: ormai sono stabile contro le interpretazioni altrui, invecchiato in questi fraintendimenti specie di colleghi che, non conoscendo la potenza e  la ricchezza del linguaggio, usano il lessico confondendo i piani e non hanno competenza referenziale.
Persone di ben altra cultura si sono offese, confrontandosi con me, col mio linguaggio, con le risultanze tecniche, espressione conclusiva  formulata di un lungo lavoro!
Sono cosciente, però, che le risultanze del lavoro, nonostante i  frutti non copiosi,  sono notevoli: alcuni alunni hanno, dopo anni, ben interiorizzato le lezioni; altri, pur avendo un buon ricordo dei lavori lessicali, morfosintattici e semantici, non sanno operare conformemente, non essendosi esercitati; pochi sono quelli rimasti immuni dal metodo proposto, in quanto per natura afunzionali ed irrazionali.
Rifarei esattamente quanto ho fatto, ma cercherei forse una maggiore cooperazione coi colleghi, dopo un confronto pacato con le presidenze: comunque, mi dicono i colleghi che ciò anche oggi non sarebbe possibile, nonostante la funzione nuova dei dirigenti in quanto si  è acuito il problema della comunicazione tra gli insegnanti (in gara tra loro  per la cooperazione, pagata, col preside e col consiglio di Istituto)  e si è moltiplicata  la difficoltà di comunicazione tra docente e discente.
Ritengo, comunque, che non sia facile valutare un lavoro continuo e costante, metodico  di quaranta anni e che normale sia l’equivoco.
E nei confronti degli altri, specie degli alunni, ho cercato di capire il perché dicono quel che dicono e fanno quel che fanno, esaminando attentamente con metodo, lingua ed azioni, stando lontano, distaccato come se fossi estraneo, in una posizione neutrale, di estrema razionalità e di alto tecnicismo.
Questa posizione di estraneità e di razionalismo, concluso il periodo di lavoro scolastico, aveva determinato un ritiro dalla vita cittadina e dalla politica quotidiana: avevo stabilito la strategia della solitudine e del lavoro in silenzio, senza confronti.
Un ritiro superbo,  potrebbe dire qualcuno.
Una nuova forma di  giudizio da parte di uno che professa l’epoché (astensione o sospensione  di giudizio), potrebbe aggiungere un altro.
Ma, comunque,  di norma, nonostante le condizioni di disagio, superando i contrasti, dialogando con la classe e con alcuni colleghi, avevo capito la differenza delle risposte dei singoli insegnanti, genitori ed alunni e le avevo classificate dopo lunghi esami, al fine di una “Lezione”  positiva e formativa.
E così avevo formulato un criterio operativo in caso di insegnante “geniale” che mandava un messaggio  nuovo, coinvolgente  in modo entusiastico, dando dei precisi preavvertimenti, utili ai fini didattici, in un tentativo di formare un linguaggio univoco per un fruttifero lavoro.

Avvertimenti
Chi, dotato di enthousiasmos, comunica la propria scoperta, con metodo, deve sapere che necessariamente va incontro a tre  situazioni differenti, a causa della  recezione imperfetta dei fruitori, connessa con la loro personale cultura e sensibilità, perché il messaggio  viene recepito, di norma, in  modi diversi, riducibili, comunque,  genericamente a tre casi.
Necessita inizialmente,  perciò, un lavoro sulla funzione fàtica in modo da rettificare gli inconvenienti circa il canale per la migliore utilizzazione del messaggio, ma soprattutto è opportuno conoscere bene la funzione metalinguistica la quale  presiede all’ esame e all’analisi di ogni termine della fettuccia comunicativa e che appaia i due codici (quello dell’emittente e quello del destinatario), dopo una perfetta decodificazione e denotazione, in situazione, in relazione al contesto.

I Caso.
Se si comunica la propria esperienza sul piano emotivo, l’altro che ascolta, invece di partecipare e porsi sul piano dell’emittente, sentendo la superiorità del messaggio e del parlante, si prostra ponendosi in una condizione di estrema inferiorità, a seguito del paragone che istituisce tra il mondo di chi parla e il proprio mondo e lentamente, tutto preso dalla coscienza  della propria (presunta) meschinità, si deprime, non segue, distoglie l’attenzione, e giunge ad un assenteismo apatico.
Ne deriva che  con soggetti simili, già condizionati da autoritarismo  paternalistico, è opportuno schematizzare (specie se si trasmette cultura) il discorso, senza enthousiasmos, facendo la lezione scheletrica, quasi matematica, basata su un solo termine, scritto alla lavagna in modo impersonale, come  mero trasmettitore di sapere.
Date le coordinate contestuali per la collocazione del termine, spiegatolo etimologicamente in quanto già situato nel sistema ordinato della propria  progettazione e programmazione scolastica,  come struttura minima, e quindi letto nel sistema generale operativo, vengono aggiunti  altri quattro termini, utili ai fini della spiegazione di quello di base,  facendo per ognuno la stessa decodificazione  in senso denotativo e connotativo, in modo da aggiungere altri particolari a quanto già espresso, in un ampliamento dell’area culturale del termine in oggetto, come dati aggiuntivi di varia natura secondo un processo tipico dei campi semantici e della famiglia lessicale per ottenere una vasta area semantica,  per una operazione di semantizzazione.
Fatta poi l’espansione ad ogni singolo termine, con altri quattro nuclei, fissati con un solo termine ciascuno, fatta la  decodificazione allo stesso modo, l’alunno deve tirare le risultanze alla fine del discorso  e dare una risposta personale con una  propria formulazione finale, da utilizzare per il prosieguo della comunicazione.
L’alunno così è coinvolto in modo tecnico nelle operazioni di lavoro in quanto deve presentare una personale formulazione di quanto ha compreso, avendo lo schema dei 21 termini (nominalizzati) scritti alla lavagna in modo sintetico-riassuntivo.
Si evita in questo modo la risposta emotiva (in quanto non ci sono confronti ideologici) e si coinvolge ogni allievo  effettivamente nel lavoro.

II Caso. Se l’emittente comunica e l’altro, ricevente,  specie se connotato da enthousiasmos, velleitario, non provato dalla costanza e continuità operativa, dal sacrificio ripetitivo esercitativo (o dotato di logicità non ben strutturata, o di intelligenza intuitiva o se mancante di effettive qualità intellettuali, ma ricco di astuzia) segue la logica del parlante  in un paragone diretto con sé, come in una sfida, e quando si sente soccombere, schiacciato dal sapere del parlante, in preda ad emozione, giudica negativamente, vuole impedire perfino  la parola, in un desiderio rabbioso di chiudere quella comunicazione,  avendo  rilevato, secondo i suoi parametri,  la “superbia”  dell’emittente,  misurato come  enthousiastikos (divenuto sinonimo di euforico e saputo e simili).
Soggetti siffatti, a tal punto, si  disinteressano del tutto del messaggio ed arrivano non ad un rapporto-incontro, ma ad un rapporto-scontro, in cui rivelano chiaramente il loro disagio, dimostrando che addebitano agli altri ciò che essi stessi hanno e mal giudicano per come sono loro stessi, incapaci di pensare che l’altro, che parla, possa essere diverso da loro (il bue dice cornuto all’asino, la puttana dice prostituta alla mamma di famiglia, ecc.).
Perciò nella fase esplosiva, tali persone  boicottano il parlante, volendolo isolare,  cercando di coinvolgere nella distrazione altri, diventando così  protagoniste secondo la propria natura di divergenti, con atteggiamenti puerili.
Se gli alunni di questa tipologia comprendono  che non si comunica mescolando le due funzioni e quindi si procede non col confronto e col giudizio  ma con l’ascolto e la registrazione mentale dei dati, in modo da capire  per prima cosa il messaggio altrui ,“divino” (comunque), perché nuovo, è possibile  mettere sullo stesso piano comunicativo i due agenti della comunicazione ed iniziare una vera collaborazione ed avere un reale rapporto comunicativo.
E’, comunque, un lungo processo di chiarificazione personale, di oggettiva presa di coscienza da parte del divergente, che  dall’esame oggettivo  del proprio smodato  procedere poetico, non logico,  registrato come frutto  del proprio intuito, da verificare, giunge anche lui a risultanze effettive sulla base di un lungo e paziente lavoro, guidato.
Capire che  ogni risultanza reale  è frutto di lavoro non di intuizione diventa il primo passo verso l’erudizione e la formazione culturale.
Il divergente  deve essere seguito, comunque,  nella sua divergenza, non ostacolato: di norma ha grandi potenzialità che, però, devono essere regolate, orientate e fatte confluire in relazione alla creatività del soggetto.
Nel corso della mia vita ho registrato pochi divergenti, ho preferito lasciarli stare, dando, però, loro abilità tecniche  di primo ordine, in modo da limitare la  loro aggressività, iniziale, ed attenuare l’enthousiasmos (enthousiao  vale sono ispirato da una divinità) e l’ euphoria (euphoreo  vale sono ferace) nella fase iniziale e naturalmente ho fatto lezione  tecnica  e funzionale non emotiva.
Solo in seguito ho eccitato lo stupore e il sano entusiasmo portando gli  alunni lentamente a fasi più alte per gradi: alunni di tale genere, ben guidati, sono ancora oggi i miei migliori allievi, estimatori e collaboratori.

III Caso.  Se l’emittente comunica e il ricevente dotato di enthousiamos, gradualmente sollecitato, ascolta desideroso di capire ulteriormente il messaggio, libero da pregiudizi e da condizionamenti  familiari, culturali e religiosi, conscio solo  di dover imparare  e fiducioso in chi parla,  segue il suo processo logico, decodificando seconda norma, e facendo  gli opportuni  esami morfosintattici, arriva alle stesse risultanze, senza interferire,  allora è possibile  un proficuo colloquio, che diventa  un rapporto, in cui la leadership verbale passa da un elemento all’altro, a turno, ambedue abilitati negli  stessi processi operativi.
Allora è possibile operare secondo paradigmi operativi, graduati a seconda delle situazioni e  delle intelligenze dei discenti: il rapporto, proficuo, favorisce anche la crescita del docente, in quanto  si è nell’ area dell’insegnamento-apprendimento.
La comunicazione è vera comunicazione, è rapporto, cioè un apporto continuo e reciproco, uno scambio di munera (doni) tra due cives paritari , che si modificano continuamente, progressivamente.