Ossequio servile/upourgia e Vangelo di Marco

Il termine upourgia/ossequio servile può sottendere nel suo significato l’idea di un gruppo di letterati che lavora ad un fine? Faccio questa domanda perché seguo le sue traduzioni e note  di Antichità giudaiche e specificamente  chiedo: cosa significa, upourgia  per Giuseppe Flavio? Vorrei capirlo bene per  chiarirlo anche ai miei amici, Andrea e Marcello.

In Antichità GIudaiche (XVI, 185.187), amico mio, lo scrittore mette in paragone la sua opera con quella di Nicola di Damasco, usando i termini historia e upourgia.

In Flavio, autore giudaico, ellenizzato, historia vale narrare toledot generazioni  ed è utile agli altri, mentre upourgeia è un servitium/ministerium compiacente o ossequio servile, affettato, in quanto deriva da upourgeoo/rendo un servizio assistendo qualcuno, riverendolo perché  ha carica pubblica e potere politico. Nel nostro caso  si tratta di Nicola di Damasco – autore in seguito  di  Storia Universale (144 libri)  che  scrive encomi e panegirici per Erode, suo datore di lavoro e signore benefattore, amico stretto di Ottaviano Augusto, imperatore e di Marco Agrippa, suo genero, i cui figli sono delfini imperiali destinati alla successione, dominatori di un imperium di oltre 3.300.000 km quadrati.

Ti aggiungo che Flavio, parlando della profanazione della  tomba di Davide, avvenuta intorno al 16/5 a.C., mostra il sistema di contraffazione delle notizie da parte di Nicola di Damasco – Ibidem, 182-86 -, che è degno di compatimento perché  favorisce il re, tradendo la verità.

Infatti  dice che il Damasceno  afferma  che Erode non entra nella tomba, per difenderlo dalle accuse in quanto vive a corte e scrive a suo favore per fargli piacere  ed essergli utile: per Nicola è una norma trattare solo le cose che tornano ad onore del re e trasformare le azioni ingiuste  nell’opposto  oppure cancellandole  con la più accurata  attenzione! Secondo Flavio,  lo scrittore greco dà un colorito di rispettabilità  all’uccisione di Mariamne e dei suoi figli, fatti morire crudelmente per suo ordine: la donna viene accusata falsamente di licenziosità  e i figli di tradimento; ogni opera del re, se giusta, è lodata eccessivamente, se malvagia, è difesa con eccessivo zelo!

Dunque, professore, Flavio dice che lui fa vera storia  per educare gli altri e che Nicola, invece, ha le caratteristiche del cortigiano, che loda il re giudaico (e poi  l’imperatore romano) per un utile personale.

Bene. Hai capito!

Ora ti  aggiungo  e preciso  che Flavio  già sotto Vespasiano e poi sotto i suoi figli ha svolto, anche lui, una funzione  upourgica – come quella di Nicola per Erode prima e poi per Augusto -, in quanto come profeta, dopo che è stato fatto prigioniero ad Iotapata, ha vaticinato, quando ancora regna Nerone, il dux vincitore  come un sooter, come  colui che salva  il mondo romano dalla guerra civile e lo ricompone socio-economicamente su una base culturale diversa di principato da quella gentilizia giulio-claudia, dopo la tempesta burrascosa del 69 d.C.. In un ventennio l’autore ebraico, fedele alla stirpe erodiana e a quella dei flavi, avendo avuto ricompense, onori e potere tanto da poter scrivere Guerra giudaica come espressione deferente, ambigua,  di un popolo  vinto, ma grato all’imperatore per la nuova condizione ebraica ellenistica, disgiunta da quella aramaica, taciuta e nascosta, nell’ecumene romano, si è mantenuto così fino quasi alla fine dell‘imperium di Domiziano, quando la situazione politica  cambia radicalmente per l’azione senatoria antiflavia.

Cambia, perciò, anche l’animus di Giuseppe Flavio l’ebreo Iosef ben  Mattatia, storico ufficiale di corte, uomo di famiglia eccelsa sacerdotale, imparentata con gli asmonei e con gli stessi erodiani (cfr. Bios/Autobiografia, Introduzione, traduzione e note di Elvra  Migliario, Bur, 1994).

Cambia anche il suo team scriptorio, costituito da decine di schiavi  e liberti che fanno parte della sua familia, ellenisti, letterati e filosofi, di origine alessandrina, probabilmente, che traduce il suo pensiero sacerdotale, rendendolo piacevole retoricamente, stravolgendo la sua stessa volontà  di verità e di morale, tradendo di fatto quanto detto  in Ant. giud., XVI, 187, in una professione di emet/alhtheia sincerità e di giustizia (katharoos kai dikaioos) propria dello scrittore ebraico.

Professore, sono due modi di scrivere che esprimono anche due culture diverse, una laica e pagana  ed una sacerdotale, che a volte si sovrappongono e si mescolano  nella volontà di fondere  dulce  et utile/bonum!

Marco, per me, Upourgia risulta segno linguistico prezioso per comprendere la metanoia di Giuseppe Flavio sotto Domiziano e quella stessa  del suo gruppo  di letterati,  di cui non si conoscono i nomi. Tieni presente, inoltre, che gli ebrei romani ora sono in estrema ansia per la situazione instabile della patria a causa degli aramaici integralisti in lotta coi romani, che hanno intensificato la loro azione repressiva  in Giudea e in Galilea  ed hanno lentamente distrutto con la politica italica flavia lo strapotere alessandrino commerciale e trapezitario, favorendo di fatto la riconciliazione tra la grande finanza ebraico-ellenistica mediterranea e le correnti aramaiche – cfr. Frontone e gli antonini e Il II secolo d.C: il trionfo della retorica, del paradosso e della bugia –.

La tradizione cristiana accenna solo a Paulus e al suo gruppo di scribae, trascurando ogni altro fenomeno – specie quello naturale del loimos peste  antonina, sfruttata dagli Apologisti e dai Padri della  chiesa   al fine di mostrare la pratica cristiana della metanoia e della peripeteia, che sancisce la vittoria degli ultimi sui primi – indicando il modo di scrivere e il sistema storiografico, senza mostrare le cause effettive  cfr. Lo “storico” Cristiano.

Un pontefice come papa Ratzinger, conoscitore  anche di autori bizantini come Costantino Porfirogenito e Fozio, conosce sicuramente il sistema scrittorio giudaico ellenistico, specie quello del didaskaleion alessandrino, sotto i papi  Demetrio, Eraclio ed Dionisio, dove funzionavano scuole di scritture, di copiatura e di rilegatura di biblia, sotto la guida di maestri scrittori coadiuvanti  Panteno, Clemente ed Origene, già adottato, da autori precristiani come Aristobulo,  Giasone di Cirene e anche da scrittori viventi a corte presso i re ellenistici di Macedonia, Pergamo, Siria ed Egitto, come si può rilevare da Polibio.

Non è pensabile che papa Benedetto XVI non conosca i discorsi di Nicola di Damasco, quello di Alessandro e di Antipatro, figli di Erode o la lettera di Erode Agrippa I a Caligola di Filone, e il discorso di Antipatro figlio di Salome o quello di Giulio Erode Agrippa II al popolo, tipici della historia prammatica, simili a a quelli di Tito Livio e di Tacito, lo storico di Annalesopus rhetoricum maxime.

Come non mettere in relazione tanta perizia tecnica lessico-grammo-sintattica  con la massima imperizia e il peggior scrittore greco, che è il cosiddetto Marco, un levita, la cui formazione  linguistica  e letteraria non è quella di un figlio di Erode o di Salome, educati a Roma  da maestri  simili a quelli della domus augusta o delle casate nobile romane di opposizione al principato, nemmeno degno di essere definito un koomogrammateus/scritturale di un paese giudaico, un principiante che sa usare con un elementare lessico il solo enunciato semplice o quello composto, iniziando quasi sempre il suo modesto pensiero con kai, usato più di 100 volte o con gar: al Papa sarebbe bastato vedere il frammento manoscritto 137 (Oxyrynchus papyrus) del secolo II d.C.!

Come non rimanere sorpresi dalla comparazione di tale testo marcino con quello di retori viventi a Roma,  educanti i migliori figli dell’aristocrazia, anche di opposizione al principato, come quelli del circolo di Pollione e quelli di Messala?

Non è possibile che un vescovo come Piero Rossano curatore del Vangelo di Marco (Bur , 1984), che  pur  rileva la povertà di vocaboli dell’evangelista e la sua non conoscenza della grammatica greca e  della sintassi, non veda la mano anche di un retore che, pur lasciando la struttura lessicale del sistema di eloquio marcino,  sa sfruttare  l’efficacia sul plethos e sa suscitare la meraviglia  popolare specie con  kai euthus/e subito?

Come può non aver rilevato una possibilità che qualcuno dopo il confronto tra  il modo di scrivere evangelico e quello di Flavio  (Guerra giudaica ed Antichità giudaica)  abbia scritto o tra le due opere o dopo gli ultimi 20 libri flaviani, con lo stesso sistema di un ebreo, non  ancora ben ellenizzato, stanziato a Roma per qualche tempo? È impossibile che non abbia rilevato la presenza di un scriptorium  christianum  nella stessa  domus flavia con uomini, intenti al lavoro dello scrivere retoricamente e che svolgono la loro funzione ministeriale, assistendo il dominus, impegnato nella scrittura specie di memorie, una normalità in una domus patrizia romana.

Un papa e un vescovo conoscono gli aneliti riformistici di uomini che nel 1957 si riuniscono alle catacombe di Domitilla – una flavia! – per un ritorno alla povertà evangelica per spogliarsi di ogni umano potere per rendere la chiesa veramente povera, umile, pia, ed, anche se oppressa, eroica, secondo le parole retoriche, dati l’anafora e il climax ascendente, del cardinale G.Battista Montini!

Lo scrittore romano-ellenistico non è mai solo nel lavoro, ma ha anche altri che collaborano e usano il suo linguaggio di base sincero ed imparziale, ma poi stravolto dalla retorica, diventa complicato, ambiguo, data la ricchezza di significato di ogni termine, esaminato e studiato: si teme la censura  della corte e dell’imperatore, che ha al suo servizio letterati che svolgono la funzione ministeriale, profumatamente pagata – si pensi a  Quintiliano! – appetita da ogni componente di uno scriptorium privato.

Non è,  quindi,  pensabile che non sappiano della costruzione a tavolino della figura umana di Gesù, figlio di Dio, propria di Marco, in epoca domizianea. Non lo possono dire, data la loro posizione di prelati, di clero  che ha in effetti inventato la favola bella del cristianesimo  e del Christos, su una radice ebraica di  storia di un giudeo, aramaico, di Galilea, di un messia crocifisso!

Bene professore. Perché lega ad upourgia Marco, un ex levita templare, seguace di Paolo e Barnaba, prima, e di Pietro poi, stabilitosi ad Aquileia,  per poi domiciliarsi, infine, ad Alessandria di Egitto?

A mio parere,  Marco, dopo il periodo romano con Pietro, può essere entrato in rapporto col team di Giuseppe Flavio, impegnato nella sua revisione storica  o di quello di Tito, che convive con Berenice: non so dire se prima o dopo l’avvento al trono del figlio di Vespasiano, ma ritengo possibile, specie dopo la fine del Tempio, l’aggregazione di ex leviti (cantori, portinai) e sacerdoti nell’ambiente romano,  a seguito della preghiera comune, specie nell’otium del sabato.

Come può giustificare questo?

Il dato più appariscente è la semplicità di linguaggio comune  che, però, ha un telos/scopo, già espresso nell’incipit Archh tou evangeliou Iesou Christou (uiou Theou) ,che viene ribadito ad opera di un centurione romano che  esclama  alla morte del Signore: alethoos outos o anthropos  uios theou hn!

Altro dato è quello dell’avvento della predicazione di Giovanni Battista secondo i versetti di  Isaia.

La bella notizia del profeta Isaia (40, 30) è confusa con le parole di Esodo (23, 20) e con quelle di Malachia: è una sugkrisis/combinazione operata da uomini letterati del tipo degli esseni, che hanno scopi apologetici e fanno confusioni che, specie dopo la morte dei Santi del Qumran, diventano utili quando si forma un clima antiebraico ad opera degli antonini, specie di Traiano intenzionato a combattere contro gli aramaici nabatei e poi contro i Parthi.

È questo un momento  in cui il ricordo di Giovanni Battista, che arruolava truppe aramaiche antiromane,  predicando baptisma metanoias  eis aphesin amartioon/un battesimo di penitenza per la remissione dei peccati è krhstos/buono ed utile ai giudei, che si oppongono alle imprese traianee: la memoria di Giovanni risulta una chiamata alle armi quasi una crociata contro i romani, in nome di Gesù crocifisso, un martire aramaico.

Per lei, professore, dunque, il Vangelo originario greco, di Marco poteva essere un opuscoletto aggregante  giudei aramaici e  giudei ellenisti, impoveriti sotto il periodo flavio, desiderosi di novitates- staseis, in un recupero della loro comune  identità nazionale mesopotamica, in una rinnovata amicizia coi Parthi?

Amico,  accostare con un  linguaggio popolare  e semplice,  molto vicino alla  sensibilità barbarica aramaica, la figura di Gesù, martus crocifisso, alla massa mentre compie miracoli, con quel kai euthus   poteva risultare vincente nella propaganda  filoparthica  antitrainea, prima, ed antiadrianea, poi, nel clima di  meraviglia e  di stupore in cui si viveva la nuova antiromanità  in Giudea, in Siria, a  Cipro e in Cirenaica.

Quel linguaggio non doveva essere molto distante da quello iniziale greco di Paolo Tarsense e del  traditore Giuseppe Flavio – senza revisioni – tenuti dalla tradizione a non corrompersi con la filosofia ellenica – specie il secondo, anche lui a volte molto elementare nel lessico, solito a ricorrere a gar congiunzione  coordinativa esplicativa al posto della proposizione esplicita dichiarativa, introdotta da oti, epei, epeidh, a cambiare il discorso indiretto in diretto improvvisamente e ad abusare degli enunciati semplici o composti coordinati, spesso, per asindeto.

A questo sistema  sembra riferirsi Papia vescovo di Ierapolis,  che ammette che gli evangelisti scrissero,  a detta di Eusebio (St. Eccl., II, 39.15) come ricordavano, e che Marco, interprete di Pietro, pur essendo scrittore senza ordine, scrisse davvero ciò ricordava delle parole e delle azioni del Signore e che, comunque, non ci ingannò.

Anche Ireneo (Adversus Aereses, 1, 1)  parla di scrittura del vangelo di Marco dopo la morte di Paolo e di Pietro senza indicare il luogo e il preciso tempo: non si dovrebbe sbagliare, quindi, se si pensa alla fine del I secolo d.C.

Anche la tradizione latina con Tertulliano (Adversus Marcionem, 4, 5) sembra essere sulla stessa linea e propende per gli ultimi anni del secolo, anche se non parla espressamente del vangelo di Marco, ma parla dell’evangelista, che segue Paolo e poi  assiste Pietro (Quale Pietro?) negli ultimi anni.

Professore, per lei, dunque, il termine upourgia flaviano ha una ricchezza di significato immenso se lo si distacca da Erode e lo si sposta su Christos soothr, uomo-dio venuto a redimerci dal peccato di Adamo.

Marco, io ti conosco e penso che tu stia sorridendo di me,  che tiro il filo finché posso e lo  dilato come  voglio, lavorando come un Padre della Chiesa, che fa esegesi.

Non mi permetterei mai  di offenderla così!. Marco l’evangelista, comunque, manda davvero  un Messaggio su Gesù figlio di Dio, vincitore di Satana, uomo simile ad un goes/mago, che coi miracoli stupisce e sbalordisce il popolo  analfabeta giudaico,  un messia ucciso dai connazionali tramite i romani. E a questo aggiunge il paolino scandalo della croce che, congiunto alla memoria di un Gesù figlio di Dio, ucciso dai Romani, poteva davvero diventare propaganda antiromana ed eccitare la folla ad una nuova guerra contro Roma.

Marco, sei davvero mio discepolo?!