Il sistema industriale

 

Noi italiani (il sistema industriale)

 

Noi italiani <<viviamo>> da più di un secolo nel sistema industriale: all’Italia paleoindustriale della fine Ottocento, decadente, progressista e modernizzata in specifiche zone, corrisponde oggi un’Italia che sempre di più cerca di industrializzarsi uniformemente.

L’Italia, a partire dal dopoguerra, ha conosciuto un processo di industrializzazione diffusa che ha interessato soprattutto quelle aree geografiche non appartenenti al cosiddetto <<triangolo industriale>> (il Nord-ovest), dando vita ad una notevole diversità strutturale e territoriale dovuta alla presenza di molteplici specializzazioni localizzate, spesso definite distretti industriali. Queste realtà si costituiscono di reti locali di svariate piccole e medie imprese, dotate di specifiche competente necessarie alla produzione di prodotti finiti o semilavorati unici nello scenario non solo nazionale ma anche globale. Mentre nel “Bel Paese” sono ancora oggi pochi i “pilastri” industriali, ossia aziende di grandi dimensioni, l’economia italiana si poggia soprattutto sulle medie imprese più strutturate (“colonne”), ossia su sistemi specializzati  di produzione efficienti e flessibili in grado di competere con il gigante cinese, uno dei principali elementi di maggiore instabilità.

Ora, tutti noi siamo <<industriali>> in quanto partecipi dei processi industriali, integrati organicamente ed armonicamente  nelle strutture del sistema, caratterizzato dall’organizzazione. Il sistema industriale opera attraverso l’organizzazione per una produzione dei beni necessari e superflui, in una ricerca per l’eliminazione della <<povertà agricola>> dopo il progressivo annientamento del <<sentimentale>> lavoro individuale artigiano inefficiente e improduttivo, capace solo di un sostentamento vitale. Ne deriva la bassa propensione delle nuove generazioni ad occuparsi di attività produttive artigianali perché considerate poco remunerative o prestigiose, con il rischio concreto di disperdere tutte quelle competenze professionali artigianali “secolari” che sono linfa di tutti gli agglomerati industriali italiani.

Uno stato articolato per la produzione efficiente grazie alla tecnica, alla scienza e alla comunicazione computerizzata e digitalizzata, è capace di fare istantaneamente situazioni, punti situazionali, interazioni per una decisionalità manageriale, statisticamente significativa e non equivoca.

La contemporanea presenza, però, in una nazione industrializzata, di una massa ancora operante con una logica mista (industrializzata ed agricola) o ancora del tutto agricola comporta una costituzione di un sistema ambiguo <<governativo>>, che opera a due livelli: uno in sede internazionale ed europea, uno in sede interna e regionale.

Da qui infine il processo élitario di gruppi di italiani industrializzati, manageriali e cosmopoliti dominati grazie ad un potere governativo, loro espressione, che impedisce un effettivo miglioramento della base, grazie ad una continua affermazione della propria auctoritas, aumentata anche per il successo e l’alonatura dei mass media servili, dell’apparato religioso cointeressato e per la deficienza stessa popolare.

Da qui da una parte il rilievo internazionale del prodotto <<Made in Italy>> e da un’altra la difficile e caotica amministrazione, che deve <<fare i conti>> con la realtà. Inoltre la coscienza di essere <<partecipi>> della cultura industriale comporta da parte dell’integrato una volontà di affermazione della propria superiorità sull’altro, sulla base della produzione e del successo, che esaltano l’individuo in senso superomistico ed estetico, in un disprezzo della massa.

In questo modo i nuovi borghesi, formanti l’élite si sentono diversi, superiori, divini rispetto agli altri (connotati da ritmi comuni di vita e da una normale morale) in relazione al volume di affari, alla grandiosità di piani e progetti, alla gestione di milioni, alla tecnica operativa, specialistica (poiché credono ottimale la specializzazione strutturale) che permette e favorisce l’esplicazione di una vita inimitabile e la realizzazione di ogni velleità.

La <<cultura>> industriale, dunque, differenzia, distingue e cataloga gli italiani: l’élite tende ad isolarsi a coagularsi in <<sette massoniche>> a vari livelli o ad organizzarsi in circoli esclusivi, in un tentativo di strutturazione di una nuova <<nobiltà>> crematistica.

La sostanziale differenza di Nord, Centro e Sud, oltre alle ataviche divisioni nell’ambito nazionale e regionale e perfino in quello provinciale e comunale, eredità cristiano-medievale, rivelava la mancanza assoluta di una cultura unitaria ed autorizzava da una parte la costituzione di una classe unitaria di governanti democratici, capaci di manovrare ogni forma di governo con ogni mezzo, sulla base di un’apparente paritarietà, seppure secondo un ordine gerarchico e valori interni propri di una società verticistica.

La massa dei governati costituita dalla quasi totalità degli italiani, diversi a seconda delle aree geografiche e dominanti, in relazione ai contesti, o da una tradizione cristiana o da una nuova fede socialista-comunista, cementati da una comune matrice agricola, comprende globalmente due plebi: una, più vasta e disarticolata, più confusa costituente un vero calderone manovrato e agitato dalla chiesa cattolica, sua padrona da secoli, ancora feudale e perciò condizionata dalla presenza dell’aristocrazia, nonostante la vittoria della repubblica, la fine della monarchia e l’uguaglianza costituzionale, è priva di valore politico, manovrabile come un corpo molle e gelatinoso, plasmabile al momento del voto; l’altra, dislocata nelle città del Nord e nelle località più grandi dell’Italia centrale, militante e per la nuova forza dell’ideologia sociale e per il più recente indottrinamento, rossa, esegue fedelmente le direttive del partito che fa da tramite con la potenza sovietica, oppositrice dell’altra filo-americana.

La morfologia dell’Italia, l’atavica contrapposizione Nord-Sud con le specifiche peculiarità regionali, hanno determinato e permesso un doppio indottrinamento in relazione ai due schieramenti, costituitesi dopo le seconda guerra mondiale, quello democratico cristiano e quello comunista.

Mentre le élites di governanti, sulla base di una costituzione antifascista, di base liberale, con qualche segno di socialismo utopico, governano e si logorano in una lotta per un ricambio e per un’alternanza impossibile, date le connessioni militari e politiche con gli Usa, attenti a non creare una nuova Corea o Vietnam, la massa, pur suddividendosi in due schieramenti opposti, in relazione non ad una cultura, ma ad una maggiore o minore esperienza in senso corporativistico e sindacale, pur subendo i bombardamenti più o meno occulti delle due propagande, pur addestrata ed istruita da una Televisione di stato occidentalizzata, forte della propria tradizione contadina, pagano-cristiana, non si è integrata nel sistema industrializzato, né è stata supina di fronte agli indottrinamenti comunisti.

E’ sorta una nuova Italia, certamente contraddittoria e irrazionalistica, di strutture cittadine, con sovrastrutture anglosassoni e sovietiche, sincreticamente acquisite, apparentemente signorile, ma ancora effettivamente agricola e paesana, attiva e operosa, anche se è dotata di operatività concreta: il processo formativo di un popolo, però, è iniziato, nonostante i condizionamenti estranei alla nostra cultura: la sua storia ora è da scrivere da “adulti”: l’Italiano prima non aveva storia, ma vedeva la storia di gruppi, di governanti, indifferente e rassegnato al suo destino comunitario anonimo.

La massa agricola, drammaticamente posta di fronte ad avvenimenti e situazioni tragiche, non è rimasta passiva, inerte, amorfa, ma, operando, si è spostata dalla sua secolare soggezione nei confronti della Chiesa e dell’aristocrazia e della borghesia, si è automaticamente disgiunta dalle élites di dominanti ed è riuscita a sviluppare, seppure infantilmente, la propria natura e a ritrovare l’originaria creatività latina contro ogni regola logica e contro le stesse direttive di uno stato assistenziale e “decadente”.

Ha rinnegato per prima cosa la linea del Risorgimento liberale, unitario, centralizzato e nazionalistico: essa non ha mai fatto parte di nessuna deliberazione, straniera in patria, senza voto, perché povera ed analfabeta, perfino nei plebisciti: nella provincia di Ascoli Piceno votarono solo alcune centinaia  di borghesi ed aristocratici. Poi ha rifiutato la logica della I guerra mondiale e quindi si è agitata convulsamente nel corso della I crisi postbellica, in una ripresa dei movimenti popolari della fine dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento, in cui siciliani e lombardi, specificamente, evidenziarono il loro disagio e la loro rabbia. Infine ha misconosciuto una parte del fascismo, erede della politica liberale militaristica ed imperialistica, colpevole della entrata in guerra nella II mondiale e successivamente ha mostrato passiva indifferenza e alle propagande e alle irrazionalistiche imprese partigiane e dei fascisti, in una dignitosa attesa della liberazione alleata.

Per ultimo, in un clima di palingenesi e di entusiasmo rinnovativo, nei decantati booms iniziali industriali, libera dalla paura della guerra, col lavoro ha ricostruito l’Italia, in un’incrollabile dedizione alla fatica, gratificata per la prima volta da possibili guadagni, nonostante gli stessi tradimenti dei sindacati, che in un certo senso, raccolsero la fiducia popolare.

E’, comunque, un processo inconscio, non razionalizzato, proprio di un ragazzo sincretico e/o operativo concreto, ma ormai teso verso le strutture operativo-formali dell‘adultismo: le reazioni inconsulte e violente di una minoranza antiparlamentare, espressione avanzata dell’anima popolare rivoluzionaria in un primo tempo, e le inchieste dei giudici poi, sono chiari segni di un inizio di lettura razionalizzata e critica di un popolo in cerca di una propria essenza ed anima, anche se in modi non ancora sistemici.

In questa ricerca la massa è stata ostacolata continuamente dai governanti che, filoamericani, hanno anglosassonizzato la nostra scuola, seguendo paradigmi linguistici, letterari e culturali di un popolo di diversa civiltà, separando così i padri dai figli in una smania di industrializzare, di tecnicizzare e di dare competenze strutturali e funzionali, senza la visione sistemica e l’impostazione metodologica, creando “bastardi”, ambiziosi e desiderosi di immediati successi, degeneri da decondizionare per una positiva riconversione italiana, mediterranea ed europea.

Nella scuola, però, oggi è possibile leggere anche i segni di un’impostazione comunista, che ha comportato non una paritarietà, né una eguaglianza, ma solo un appiattimento con un livellamento di quelli che hanno la stessa base, in senso impersonale ed ha creato un punto di consenso per le democrazie totalitarie, nella uniformità ed unitarietà dei dogmatismi oppositivi, in una cultura massificata antiborghese, proletaria, autorizzante solo gerarchie burocratiche.

Ora nella scuola si sono verificati due processi e per di più antitetici: l’uno tendente ad uniformare la scuola in una volontà rossa di democratizzare e di livellare il popolo italiano, servendosi di una lingua manzoniana, standardizzata e propagandata con le immagini televisive, letteraria, e quindi non popolare, contrapposta alla varietà linguistica dialettale della provincia italiana; l’altro diretto ad una ricerca linguistica in direzione anglosassone, in un progressivo inserimento nella comunità europea. Mentre il primo bloccava l’originalità e significatività dialettale, che costituiva la molteplicità e tipicità delle differenze non solo etniche delle nostre zone, in una perdita di identità paesano-provinciale, unico segno di distinzione di una massa, di origine medievale, confusamente costituitasi in epoca comunale, custode delle proprie tradizioni e gelosa della propria unità vernacolare, caratterizzante ogni elemento del gruppo, impedente il sorgere della personalità e ogni manifestazione non comunitaria, l’altro accettando il codice linguistico inglese in tutti gli ordini di scuola (dalle elementari alle medie superiori) autorizza un’altrettanto graduale riduzione ed eliminazione del latino dalle medie inferiori e superiori, secondo parametri funzionali industriali, in un allontanamento dalla nostra tradizione linguistica.

I due indirizzi apparentemente positivi, sulla carta legittimi e propri di una scuola moderna, risultano, invece, (data la pluralità contestuale italiana, le differenze e diversità sostanziali tra i cittadini, non studiati anamnesticamente, né radiografati nella loro singolarità, né esaminati nella varietà istituzionale) del tutto negativi ed illegittimi perché impediscono la formazione della persona e della personalità individuale e quindi annullano ogni processo educativo e formativo, il fine stesso dell’istituto scolastico.

Inoltre in un quadro di obbligatorietà scolastica e di logica antiselettiva, la scuola produce uno sterminato numero di diplomati e laureati, privi però non solo dei fondamentali requisiti e strumenti linguistici, semantici e culturali, ma anche inabili sul piano formale e decisionale oltre che operativo, perché sforniti di tecniche di razionalizzazione, pur elementare, in quanto per anni impostati mnemonicamente.

La mancanza di un metodo “epistemico”, in grado di guidarli a sintesi (dopo un lungo lavoro di analisi) e di dare coordinate critiche e situazionali e quindi di autorizzare una prassi conseguente, comporta una vacuità e superficialità sincretica, a cominciare dalla lettura e dalla comprensione di un testo: i nostri figli hanno una spaventosa povertà lessicale, una deficienza morso-sintattica e un vuoto referenziale e forse sanno pure “fare”, dato l’intuito mediterraneo, ma certamente non sanno parlare né leggere, tanto meno scrivere, operazione complessa di alta composizione, né (quel che è più grave) ascoltare, data la superficialità e la spocchia, oltre alla mancanza di rispetto, avendo perso nel corso scolastico quelle abilità di base, che invece dovevano essere potenziate.

Il ruolo italiano in un’Europa federata, privilegiata la politica interna, può essere rilevante se viene chiarita definitivamente la situazione economico-sociale-politica, se viene dato credito ad una massa-popolo, dopo il ridimensionamento dei “governanti”, come espressione nazionale, unitaria, nonostante le differenze, senza il nazionalismo, che è in effetti una forma più retoricamente sostenuta dal paesano campanilismo.

Cosa possa fare la massa, eterogenea, ma cementata da tanti mali comuni e da una rabbia contro l’immoralità dei governanti, non è facile dirlo: comunque, cercheremo di spiegarlo lentamente, per gradi.

Per prima cosa bisogna comprendere il termine “massa”, che indica “l’azione di comprimere con le mani” dalla radice greca “mag”- comune a massein (impastare), a mágeiros (cuoco) a magos (mago), a maza (focaccia di orzo con acqua ed olio) a maktra (madia) -, ma che assume un altro significato collaterale, da mansus (casa colonica, fondo agricolo medievale) tramite il latino massa (pasta per fare il pane), per metonimia, quello di “moltitudine di lavoratori, compattata da una comunanza di origine e di vita, legata ad una stessa attività, in modo indistinto”.

Semanticamente “massa” oscilla tra un significato originario di “impasto di farina o di altro con acqua ed olio, uniforme ed omogeneo, lievitato di madia” implicante “impastatori” o “magi” (con le sottese aree semantiche) e quello di “essere animati, fusi insieme, svolgenti mansiones in un manso,  simili a bestiame, quasi cosa patronale nel contesto di villa romana”. Il suo significato generale quindi, presenta due caratteristiche: quella della confusione magmatica di elementi ammassati  e di materiali compressi, della stessa natura (e quindi di uomini-cosa, quasi attrezzi agricoli) e quella della presenza del mágeiros/magos, manipolatore e mistificatore che “ammassa” e che ha capacità di comprensione e di condizionamento. Il termine, assunto dal cristianesimo (S.Paolo – Rom, 9,21) che lo mette in relazione col genitivo “luti” (di fango), diventa metafora del “mondo”, contaminato dall’influenza diabolica e quindi “peccaminoso”, assumendo un valore collettivo umano negativo di massa di peccatori.

Il significato di massa cristiano, connesso con quello di moltitudine di servi, del periodo tardo-latino, fissati nel manso, assume nel Medioevo valore di “gruppo amorfo, compatto ed omogeneo per caratteristiche comuni negative dei costituenti”, collettivisticamente valutato dalla Chiesa, come corpo unico incontrollabile, data la razionalità comportamentale.

L’uso di “masse” durante la rivoluzione francese è fatto solo per indicare il “levarsi in massa” del popolo, in modo compatto e solidale, anche se smodato e disorganico. Il significato di “massa” attuale è derivato dall’Ottocento, che indica una maggioranza di popolo, disordinata, non organizzata, che ha pulsioni univoche primordiali, disprezzata, nonostante la lezione naturalista e marxiana.

Il valore di “maggioranza compatta ostile, cementata dalla storia stessa e da una comunione di vita e di lingua volgare, opposta ad una minoranza dominante” si chiarisce lentamente nella seconda metà del secolo: “uomo di massa” è la definizione di popolano temerario, capace di osare di uscire nell’anonimato plebeo e di opporsi alle classi egemoni e quindi diventa sinonimo di “uomo pazzo”, infido e pericoloso: per estensione anche il significato di massa assume le stesse connotazioni.

Sono invece della prima metà del Novecento i significati di “cultura di massa”, intesa da intellettuali fascisti come “collettivistica tradizione popolare medievale”, volgare rispetto all’ideale nazionalistico liberal-fascista, poi corretta democraticamente “come comune tradizione culturale italiana”.

Tra gli anni Trenta e Sessanta del Novecento ebbe ampia diffusione un’espressione, “Società di massa”, per indicare una società nella quale la maggioranza della popolazione è coinvolta nella produzione su vasta scala, nella distribuzione e nel consumo dei beni e dei servizi; nonché nella vita politica, nella vita culturale, attraverso l’uso dei mezzi di comunicazione di massa.

Lo stesso “mass-media”, termine adottato da sociologi americani, indica i mezzi di comunicazione , e sottende la volontà di pochi “persuasori occulti”, capaci di determinare sofisticamente il pensiero e il comportamento di molti, in quanto abili dialetticamente e retoricamente, consci di una superiorità culturale rispetto alle masse attardate, padroni (o servi di padroni) degli strumenti di propaganda.

Ora la storia non ha registrato la presenza di “masse”, ma di “gentes” perché ha considerato solo coloro che hanno modificato e trasformato i sistemi vigenti, come degni di essere tramandati o come individui o come gruppi etnici dominanti: ha seguito ad alonato i vincitori; ha ricordato appena i vinti oppositori.

Perciò “massa” ha assunto realmente valore nella cultura occidentale solo in questi ultimi tempi come “gruppo grande”, in un conscio recupero delle radice mag/meg, come contenitore, da cui far uscire il “piccolo gruppo”, delegato e nazionale, capace di fare effettivamente la storia, tramite il voto e non è stata più “carne da macello” d esporre in prima fila nella guerra, “igiene del mondo”.

La massa, pur sul piano di una generica paritarietà personale di tutti i cittadini di uno stato, è diventata preziosa per politici, per intellettuali, per industriali, per la religione, perché è essa che determina il successo, anche se irrazionalmente: è cambiato, quindi,  l’atteggiamento dei fruitori, che ora in modi diversi  e con forme proprie cercano, corteggiano, circuiscono machiavellicamente.

La massa dei cafoni, specie centrali e meridionali, cantata da Silone (che aveva compreso l’esatto valore di massa e forse anche il significato stesso di cafone, derivato probabilmente dalla mistione di capus – cappone – e di caput – testa – nel senso di “rozzo testone anonimo, ingrassato come porco, anche se tenuto a stecchetto, taglieggiato e castrato dal potere aristocratico”) qualcosa aveva capito dalle ultime esperienze negative: la ricerca di una nuova forma di aggregazione è una prova, ma è anche una speranza per i fontamaresi.

Forse il fare autonomo di un popolo nasce dalla coscienza di una unicità di lessico e di “pensiero”, sulla base di una ricostruzione  (o costruzione) di un cittadino, libero, in un’Italia unita ed europea, affrancata da ogni militarismo, in una ricerca aperta ed infinita, dal momento dell’ingresso nella storia.

Andrea Grandoni

 

 

Grazie, Andrea. Grazie infinite per l’ amicizia e la stima!.

Andrea Grandoni  è uno dei miei più cari  e bravi alunni e collaboratori, che mi segue, mi aiuta e sostiene, come un figlio,   da quasi venti anni. E’ autore di un ottimo Romanzo storico, Giacomo il Giusto. La storia nascosta del fratello di Gesù  (Nep Edizioni, 2013 ).  E’ curatore di Filone In Flaccum (Una strage di Giudei in epoca caligoliana ) e.book  Narcissus 2011 e – oltre alla revisione di L’altra lingua l’altra storia   (Demian,1995), da cui è tratto il presente articolo- anche di  Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, III libro – Vita di Mosé- inedito.