Giacomo e Paolo

Cosa predicò Giacomo (Jakob, fratello di Jehoshua, in greco Iakobos ), dopo la morte del Meshiah  e cosa Paolo (Shaul di Tarso, in greco Paulos)?
Ritengo che il pensiero di Giacomo e del Regno dei Cieli sia stato cancellato, dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme  da giudei ellenisti  che, nel periodo Flavio, prendono le distanze dallo zelotismo e dal messianesimo giudaico, a seguito del decreto del sinedrio di Alessandria, che, a malincuore, è costretto, per la propria incolumità, a consegnare i nazirei, condannandoli a morte.
Il nuovo imperatore, Vespasiano, ha creato la sua fortuna dalla sconfitta giudaica e tutta la cultura romano-ellenistica inneggia alla vittoria, dopo il trionfo sulla Ioudaea capta.

In tale clima di euforia, le sinagoghe romane partecipano alla festa e celano ogni forma di resistenza all’impero romano, rinnegano anche Jehoshua, zelota, qadosh, fondatore del Malkut ha shemaim, timorose di una qualsiasi ritorsione: è ancora recente la indiscriminata repressione claudiana e ancora di più quella neroniana, per non parlare delle punizioni subìte sotto Caligola, Seiano e Tiberio.
In ambiente flavio, a Roma, dunque, si organizza col vangelo di Marco una risposta giudaica ellenistica, cristiana, utile alla comunità (Christos è khrhstos, non zelotes integralista antiromano) e con essa si crea la base della buona bugia bella del cristianesimo: si fanno tagli della verità storica, si eliminano i segni dello zelotismo, si cambia la struttura stessa della legge mosaica, si innova sul sabato  con la santificazione della domenica (dopo un periodo di celebrazione della cena eucaristica tra la fine del sabato e il giorno iniziale  della settimana) e quel che è più grave, si cerca di mascherare l’intervento, preoccupati solo di non lasciare ombra della revisione (cosa che, comunque, viene fatta per gradi nei 27 anni flavi, poi nel II secolo e nel III e marcatamente nel IV secolo, a seguito della impostazione storiografica di Eusebio, in epoca costantiniana, ed infine in quella teodosiana, con Girolamo sotto papa Damaso, divenuta quasi definitiva sotto Teodosio II) .
Marco è un nome latino che condensa un gruppo di ellenisti, abili retoricamente, tanto da essere semplici ed elementari così potenti linguisticamente da apparire analfabeti o appena alfabetizzati – quel gar (infatti) lasciato come appendice dimostrativa e con quei concettucci, popolari e concreti, propri della sapienza giudaica, quasi da apologhi fedriani,  ne è segno e spia-.
Marco, sulla base dei logia di Matteo, interpretati e riordinati, scrive Euaggelion Jhesou Christou uiou Theou, un vangelo utile conveniente (Khrhston).
L’inizio è connesso con una dimostrazione della divinità, congiunta con l’eliminazione dei dati umani e zelotici, mentre vengono rarefatti quelli familiari e patri e, talora, perfino annullati, per arrivare a far dire ad un centurione romano, a crocifissione avvenuta, Alethoos outos o anthropos uios theou hn! (veramente quest’uomo era figlio di Dio! ).
L’assunto, quindi, è scoperto ed è chiaro: è probabile che tale impostazione sia stata ritoccata varie volte nel corso dei primi tre secoli. Paolo (un altro nome latino!) ha come base il vangelo di Marco.
Rintracciare, invece, il pensiero di Giacomo è arduo, ma si può fare leggendo parallelamente i testi degli oppositori,  animati dalla stessa fede, specie di Paolo e di Luca  da una parte, e di Marco dall’altra e talora di Matteo stesso, tutti uomini connessi con il sistema capitalistico oniade, alessandrino.
Questi sono legati al  vero sommo sacerdozio di Onia III e sono  fedeli ai figli di Onia IV, che aveva fondato il tempio di Leontopoli, col permesso dei Lagidi, ed aveva così manifestato la sua non accettazione del sacerdozio di Menelao e poi di Alcimo.
I figli di Onia  si opposero poi al sacerdozio asmoneo, illegittimo e  a quello erodiano, tipicamente sadduceo, ma non legittimo, convinti di essere i veri sommi sacerdoti d’Israele.
I dati, che si  rilevano, perciò,  da nemici ed avversari di Jehoshua e di Jakob, sono quelli di impostori che hanno  scritto un altro vangelo, mandando un altro messaggio,  diverso da quello originario del Regno dei Cieli-
Le informazioni sono probabili e possibili, non certamente sicure: io opero da storico, ricerco là dove mi sembra opportuno ricercare, indago per conoscere qualcosa, non possiedo la verità.
Dopo anni di lavoro ho tirato alcuni conclusioni  non certamente definitive,  ma solo deduzioni conclusive sintetiche che hanno valore di  parziali risultanze di studi settoriali.
Dalla lettura delle risultanze si cerca di  enucleare l’altra storia, quella cancellata, quella di Jakob, fratello di Jehoshua.
Dopo la morte di Jehoshua in croce, il giudaismo zelotico ne riconosceva il martirio, lo annoverava tra i suoi grandi e secondo la tradizione, il morto  veniva compianto come giusto,  santificato, celebrato nelle ricorrenze fissate,  e rimpianto.
La sua azione antiromana  era un caposaldo  come quella di Ezechia, di Giuda di Sarifeo e di Mattia  di Margaloto, di Giuda il gaulanita, di Giovanni Battista e  di altri giovani martiri che avevano preferito la morte alla vita in difesa della Legge: la sua giustizia era entrata nella storia del suo popolo: la storia di Jehoshua era già  la storia di un ribelle di Roma che aveva pagato con la vita il suo crimen di lesa maestà nei confronti di Tiberio, datore di imperium,  che però aveva illuso e deluso il popolo in quanto era stato atteso come Messia, era stato accolto, accettato, seguito in tutta la sua impresa antiromana.
Era morto, ucciso dai romani.
Era morto  ma non era stato dimenticato: anzi la sua celebrazione ora aveva un’altra logica ed un altro significato in senso apocalittico.
La resurrezione, secondo molti, però, e l’apparizione ad alcuni cambiavano i rapporti consueti e tradizionali di celebrazione:  cominciò a serpeggiare la leggenda di un suo ritorno per compiere l’opera incompleta della redenzione del suo popolo, aumentata giorno dopo giorno  perché propagata  segretamente,  tramite le vie proprie  dello zelotismo clandestino.
Il nuovo euaggelion aveva come punti centrali la crocifissione  e la resurrezione, che sottendevano l’idea di una necessarietà di  morte del Messia per la redenzione definitiva del giudaismo, secondo la logica escatologica ed apocalittica, sviluppatasi sulla scia del Siracide, della lotta antisiriaca prima, e poi antiasmonea ed infine antiromana con le impostazioni farisaiche ed esseniche.
Jakob/Iakobos /Giacomo, che ha visto suo fratello, risorto, predica questo vangelo e lo testimonia con la sua vita da giusto che fa opere  e non dice parole di fede pura, anche se è contemplativo e spirituale (cfr. Lettera di Giacomo, 2,24-26).
Egli è a capo della  comunità (chiesa) di Gerusalemme,  e sembra svolgere un sacerdozio essenico, seguito dal popolo, costituito dal clero medio basso,  dal ceto operaio, mentre sorge ad Antiochia un’altra comunità che predica un altro euaggelion secondo un’altra interpretazione di crocifissione e di risurrezione e che assume per i seguaci di Christos il nome di Khristianoi.
Jakob ha una sua interpretazione  della venuta e della morte di Jehoshua, in relazione allo zelotismo  e alla tradizione patria, secondo la propria funzione di padre e di baluardo del popolo.
Gli Atti degli apostoli fanno comparire Jakob inopportunamente dopo la morte di Giacomo, fratello di Giovanni di Zebedeo, detto il maggiore, e lo indicano come capo della comunità gerosolomitana insieme con Pietro e Giovanni, creando confusione poiché c’è un altro parente di Gesù, Giacomo di Cleopha, apostolo detto il minore.
Si sa che nelle comunità zelotiche vigeva il principio dinastico: Menahem, figlio di Giuda lo rivendica  con successo, Jakob è considerato successore legittimo del fratello.
Jakob, dunque, pur non credente inizialmente nel fratello, divenuto fedele seguace, dopo la morte e resurrezione  di Jehoshua, riconosciuto  messia venuto, è il capo indiscusso della comunità.
Per Jakob meshiah non ha lo stesso valore di Christos  in quanto ha significato giudaico, palestinese, popolare e sottende una rivoluzione politica contro Roma,  voluta da Dio,  che ha eletto il  popolo giudaico destinato non solo alla indipendenza e alla autonomia, ma alla supremazia sugli altri popoli.
Christos traduce Meshiah ma diventa con Iesous e Kurios un nome ellenistico, ed ha funzione di cognome tra i pagani, convertiti da Paolo, timorati della legge,  che lo spogliano di ogni connotazione giudaica  e prescindono dalla sua humanitas e dalla sua opera terrena, attirati anche dal capitalismo giudaico alla compartecipazione agli utili, senza l’obbligo della circoncisione: era un’altra  via, scismatica, di vivere la propria fede con una tipica ameicsia, che equivocamente sottendeva un sistema ellenistico  di vaga filantropia, ben confuso con quello ebraico,che ne veniva snaturato. Oltre a questo c’è già una differenziazione  a partire dal nome di Jehoshua Meshiah in lingua aramaica e di Jesous Christos in lingua koiné, in quanto l’identificazione di Gesù in uno dei due modi è segno di distinzione  tra le due comunità e risulta carica  di nuove concezioni sulla base della interpretazione  di crocifissione e di resurrezione e in relazione ai luoghi di propagazione, rispetto alla comunità di Gerusalemme o di Antiochia.
Inoltre le due confessioni  sottendono  sistemi di vita opposti: i naziroi quello  agricolo, riluttanti a fare proselitismo, gli altri quello commerciale e trapezitario, desiderosi di accogliere anche i pagani incirconcisi e propensi a snaturarsi nel tentativo di integrazione dei nuovi venuti, a mettere insieme Mosé e Gesù,  a divinizzare Gesù sulla base della figura mosaica  del re, nomotheta, gran sacerdote e profeta (cfr. Vita di Mosé  fine III Libro) .
La staurosis  divenne simbolo di un martirio nobilitante  il giusto Jehoshua, la sua famiglia e i giudei suoi seguaci  perché  il Meshiah era morto da oppositore,  conforme alle regole dello zelotismo  e del Regno dei Cieli  ed Jakob ebbe il culto  della croce (stauros)  che rievocava la morte del fratello, martire ad opera dei romani.
Paolo, invece, deve spiegare la crocifissione ai pagani e agli ellenisti, che vedevano  in essa la punizione di un crimen contro l’impero: egli usa skandalon della croce  creando una metafora, di difficile lettura, per i gentili conformati al Kosmos imperiale, per spiegare con questo strano sintagma  la  verità della necessarietà della venuta e della morte di Gesù, un uomo dio, (come Romolo, come Teseo e come Prometeo) anche se crocifisso  come ribelle di Roma.
Cercare di spiegare questo è una pazzia,  basata sulla trappola della croce.
Ora, dunque, per Jakob è facile dare speranza a quelli che hanno ancora  la speranza di essere liberati  e redenti, mentre per Paolo, è complicato spiegare anche agli ellenisti ed ancor di più ai pagani  che Cristo crocifisso è il redentore del mondo in quanto Dio, figlio incarnato, logos eterno,  venuto per amore sulla terra, per togliere il peccato originale e riscattare col suo sangue  l’umanità.
Ma proprio da questa insania innovativa, connessa  al muthos Paolo colpisce il bersaglio del successo ed enfaticamente ed emotivamente attira i pagani in crisi ideologica e i giudei turbati e vilipesi per la sconfitta militare.
Paolo capisce che è assurdo quanto dice per i gentili che hanno solo alcuni esempi in Prometeo, Osiride, Dioniso, di Dei salvatori e benefattori/soteres ed euergetai.
Nonostante questo, con la sua predicazione assurda tende ad arrivare ad una dimostrazione irrazionale ma patetica e credibile  per chi non è saggio, in una condanna della saggezza e della razionalità stessa: la verità è possesso degli incolti grazie a Dio che rovescia la sua grazia sui piccoli e non sui superbi: Dio, ineffabile, si concede solo alle creature deboli, stupide.
Paolo ha coscienza di aver davanti un fruitore, incolto, che beve la sua verità, segue la sua logica non razionale, fiducioso in Dio,  che apre la mente e che educa il suo popolo di insipienti.
Egli ha bisogno di un’idea geniale, di qualcosa di veramente  sublime, che metta insieme, in modo sincretistico, cultura pagana e cultura giudaica, formule filosofiche platoneggianti e formule pregnostiche giudaiche.
Per prima cosa, però, deve fare entrare il fruitore del suo messaggio in un’ottica mitica e in una logica mistica rovesciando i criteri di saggezza  in relazione alla fede, da fariseo, conformemente ai libri sapienziali: chi crede  comprende, non chi è saggio; non capisce chi non crede, anche se saggio, perché è Dio che stravolge la ragione e il piano umano:  è Dio che elegge e sceglie il suo fedele e che guida nella scoperta della verità; l’uomo è passivo soggetto di una  lettura che avviene in Dio per Dio e con Dio.
In questa ottica irrazionalistica Paolo cerca, oltretutto, la sua funzione di apostolo, lui beniaminita , imparentato con gli erodiani, ricco emporos  tarsense, capace di coordinare uomini grazie anche alla sua civitas romana!.
Irrazionalismo e romanitas sono elementi fondanti del pensiero paolino (cfr.  A. Filipponi, Jehoshua o Jesous?, Maroni, 2003)!
Paolo, di proprio, non ha neppure un suo carisma perché non è apostolo né discepolo di Jehoshua, né ha o ha avuto investitura da qualche apostolo né dal capo della comunità e quindi gli è necessaria una investitura divina, essendo privo di una qualsiasi altra terrena: la caduta da cavallo, la visione di Cristo, la cecità sono segni della sua vocazione e della sua nuova fede.
Da questa sincresi e da questa esigenza funzionale dipende il fascino del  pensiero di Paolo.
Jakob, invece, una volta stabilito che Jehoshua è risorto  ed è stato visto da molti, riaccende la fiamma della speranza  in una nuova rivoluzione, da preparare (cfr Regola della guerra In Manoscritti di Qumran -a cura di Luigi Moraldi- Tea,1996).
Ha solo fede nel ritorno del fratello,  destinato a tornare con poteri straordinari e divini per capitanare l’impresa e per  completare la sua missione, interrotta dalla morte.
Senza entrare in merito a questa lettura della resurrezione, Jakob  sa cosa fare e come comportarsi: attendere il ritorno del fratello in modo penitenziale e militare  secondo le regole escatologiche.
Egli sa che Dio ha voluto la morte, ha risvegliato il fratello dai morti (anastasis toon nekroon), facendolo risorgere: egli ha fede che Dio lo farà trionfare per dare la vittoria al suo popolo: questo disegno è fissato ab aeterno  ed è scritto nella sacra scrittura.
Nella Bibbia ci sono i segni della morte e della resurrezione di Jehoshua, del suo ritorno e della sua vittoria finale: bisogna solo leggerli ed interpretarli.
Certamente ci fu tra il 37 e 62, in quel venticinquennio  un lungo lavoro scritturale  tale da giustificare la morte in croce e la resurrezione  con un discorso allegorico (dia symbolon)  di tipo filoniano: certamente ci furono uomini incaricati di questa lettura in lingua ebraico-aramaica: i terapeuti, uomini che specificamente in Alessandria erano contemplativi,  dediti alla ermeneutica, come il maskil  essenico,  ebbero (forse?),  questo incarico (Cfr. Vita contemplativa, traduzione, commento e note, opera non edita,  angelofilipponi.com )
La morte come la sua resurrezione,  quindi, era stata giustificata  secondo la scrittura (toioutos men  o bios, toiauth de kai h theleuth… dià ton ieron grammaton mnhmoneuetai, Ibidem): Jehoshua  doveva essere martirizzato per i peccati di Israel, ma aveva ancora  un compito, quello del ritorno trionfante.
Jakob, dunque, nell’attesa della parousia /ritorno deve preparare i suoi con la penitenza, con le armi e lui, l‘oblias, è l’esempio vivente  della giustizia  ebraica, segno di vittoria sui Goyim (pagani), colui che conosce quale sia la porta di Gesù, la retta via (cfr. Regola della Comunità in Manoscritti di Qumran, cit).
Egli come sommo pontefice, essenico, mostra la via  secondo le formula giudaica Hesed- Zedek (pietas-caritas), opponendosi anche in modo armato, con i sicari, ai sadducei, a Paolo, agli erodiani divenendo il simbolo dell’opposizione giusta,  armata, alla Romanitas, risultando causa indiretta della distruzione del Tempio.
Diversa è la posizione di Paolo  che, essendo vissuto  a Tarso, in ambiente pagano, è buon conoscitore di riti mistici,  tipici della città della Cilicia,  ha piena coscienza del culto di Osiride,  della sua risurrezione e del regno dei morti, ma ha anche un buona conoscenza del sistema pregnostico giudaico e dei sistemi ermeneutici ellenistici, derivati dal commento della lettura della Bibbia, tradotta dai Settanta (eretica per gli aramaici).
Ora Paolo, giudeo ellenista, beniaminita, filoromano in quanto appartenente alla classe dei protoi gerosolomitani,  pur sapendo di predicare  la resurrezione di uno  che è stato crocifisso  dai romani come ribelle,  trasfigura Gesù in Jesous Christos Kurios  e lo deifica in modo geniale, conforme, comunque, alla lezione sincretistica giudaica ellenistica.
Come?
Egli è cittadino romano, e come tale, aspira ad una congiunzione con il Kosmos  ellenistico come creatura, parte della physis, in armonia col tutto.
Da giudeo, sa che l’uomo in quanto creatura, figlio di Adamo, fasciato di carne, è atomo di male vivente in una zona tenebrosa  di male, il mondo dominato dagli arconti.
Sa anche  che al di sopra  del mondo esiste  la zona della luce  in cui dominano le forze divine del bene,  da cui promanano in modi diversi e in forme differenti  eoni, entità, divine intermedie, più o meno portatrici di luce, in relazione  alla vicinanza con l’Uno.
L’umanità vive nella zona del male, ma Dio ab aeterno ha stabilito la sua redenzione mediante l’incarnazione storica  nella persona di Gesù, uomo-dio, morto in croce.
La sua crocifissione non è un evento compiuto dai romani su un ribelle, solo, ma  uccisione di un essere divino, che si è vestito di misere forme umane, in modo da non farsi riconoscere dagli arconti della terra.
Questi, che conoscevano Gesù come essere divino e che sapevano di una sua venuta terrena e quindi della sua missione di uomo destinato ad essere ucciso per redimere  il mondo dal suo peccato originario, dovevano impedirne la realizzazione.
Gli arconti, ingannati dall’humanitas, lo uccisero, facendo verificare la redenzione, cioè la vittoria delle forze del bene sul male, della luce sulle tenebre:una storia come quella di Codro re ateniese! Una storia carica di significati allegorici!
Per Paolo, quindi, Dio invia un preesistente essere divino che, crocifisso  dagli arconti, ingannati dalla apparenza mortale ed umana di Gesù, opera, grazie al suo sangue sparso per tutti gli uomini, la redenzione.
Così l’umanità, sia circoncisa che incirconsisa, è salva grazie alla morte in croce di Gesù Cristo, questo essere  preesistente divino incarnato, il cui sangue redime  l’uomo dalla colpa originale: lo skandalon della croce diventa simbolo stesso della redenzione di ogni uomo.
In questo modo, secondo formule pregnostiche, di tipo farisaico, connesse con l’escatologia,  fusa con forme mistico-misteriche, trasforma Jehoshua meshiah in Gesù Christos  divino salvatore dell’umanità.
Paolo sapendo quanto sia diverso il suo messaggio da quello di Jakob, capisce che non ha possibilità di immettersi nel seno della Havurat di Gerusalemme (Cfr. Regola della Comunità,Ibidem)  ed essere uno dell‘edah ebraica (cfr Regola dell’ Assemblea ibidem)  ed inventa la sua missione di invia.to  direttamente da Dio, che gli ha rivelato il Figlio, il logos.
Da qui l’anatema di Jakob e di tutti quelli, che sono zelanti della fede e che hanno una logica giudaica: essi considerano il vangelo di Paolo un falso vangelo e, da aramaici, condannano Paolo come menzognero.
Da qui le tante accuse a Paolo di uomo di  menzogna (come Erode); da qui  le tante sofferenze, i rischi di vita,  le fustigazioni, la lapidazione e le tribolazioni proprie di un eretico  in un sistema chiuso come quello giudaico, valutate  come segno di predilezione e di elezione di Dio da colui che  subisce i mali e che giunge impudentemente  perfino ad assimilarsi a Christos.
Da qui anche la sua spasmodica ricerca di una accettazione o di un riconoscimento sempre negato, del suo messaggio: la sua stessa autoinvestitura  di Apostolo delle genti, riservata a Pietro è sconfessata da Jakob, che, prima,  lo richiama pubblicamente, poi lo manda via da Gerusalemme. ed infine, dopo il concilio  gerosolomitano  poiché Paolo non ha obbedito alla regola della circoncisione  per i proseliti pagani, lo fa arrestare  e in un certo senso lo toglie di mezzo privandolo della possibilità di attività missionaria (cfr. Angelo Filipponi, Jehoshua o Jesous?, cit.) e lo fa perfino lapidare a Listra.
Jakob e i giudei puri sono per Paolo i lupi rapaci, che egli teme,  prima di andare a Gerusalemme: questi ne impediscono l’azione e lo perseguitano, per cui i romani lo salvano dai nemici e lo portano in giudizio.
Paolo, essendo civis romano, si appella all’imperatore ma resta in prigione in attesa di giudizio definitivo e non può fare proselitismo effettivo (che d’altra parte era  stato vietato da Claudio nel 41-cfr Lettera agli Alessandrini).
Jakob fino alla morte nel 62 dilata il suo vangelo  nelle comunità di tipo aramaico ed anche in Alessandria: lo scoppio della guerra e i tragici eventi della distruzione del tempio e della sconfitta militare  condanneranno il suo vangelo  e renderanno vana l’attesa del ritorno di Jehoshua.
Per gli integralisti basileici e nazirei, per gli hasidim, la speranza della  parousia muore con la sconfitta, ma non è del tutto estinta perché cova ancora sotto le ceneri fino alla rivolta di Shimon bar Kokba (134-135),  mentre dalla sconfitta uscirà ingigantita l’idea  singolare di Paolo: la sua dottrina del corpo mistico della chiesa,  del Kosmos cristiano, lo scandalo della croce  come salvezza e redenzione di ogni uomo, la speranza di una vita eterna  come cleronomos, eredità per il fedele, saranno i capisaldi di una nuova dottrina, che sarà vincente proprio quando si staccherà del tutto dai vincoli della tradizione  giudaica, dalla realtà zelotica e dal Malkuth e sarà Cristiana, derivante solo, di nome, da Christos.
E soprattutto quando il capitalismo oniade sarà stroncato, il cristianesimo ricostruirà la rete commerciale trapezitaria giudaica   secondo una nuova tzedaquah e tarsha, come agape e tokos, mantenendo l’organizzazione e la tecnica  bancaria, favorito dalla mistione di giudaismo e paganesimo, dalla  sincresi,  in cui scompaiono le diverse  matrici, secondo la fratellanza.