Da L’altra lingua l’altra storia (Demian, 1995), capitolo sesto L’altra Italia p.101: Abbiamo accettato di essere dei culturali e così ci siamo confinati nella posizione, che ci attribuivano coloro che si dichiaravano o consideravano se stessi dei politici (E. Vittorini, Menabo).
Ma, ora diciamo Basta! Siamo tutti politici !(Ibidem, La nuova Italia democratica del Duemila, p.122).
Ho sempre saputo che accanto alla domus giulio-claudia ci sono i migliori retori ellenistici e ho proclamato giustamente Gaio Caligola sublime, interprete perfetto dell’ opera del Peri upsous, coeva.
Ho anche affermato che Flavi e Antonini con i loro letterati hanno combattuto una mostruosa battaglia diplomatica e propagandistica impossibile contro la grandiosità, eccezionalità, superiorità della famiglia giulio-claudia e contro il suo patrimonio culturale: ogni battaglia era persa. Solo la maldicenza aveva qualche risultato: la deformazione della figura di Tiberio, l’invenzione della pazzia di Caligola, della seminfermità di Claudio, dell’istrionicità di Nerone potevano alleggerire la sconfitta del confronto (Cfr. A. Filipponi, Caligola il sublime, Cattedrale 2008).
I letterati flavi, quelli antonini e quelli severiani, hanno tre modi diversi di confrontarsi e di paragonarsi, secondo, comunque, una propria logica di consacrazione ufficiale, in relazione ai rispettivi tempi di scrittura.
Cerchiamo, quindi, di fare un lavoro storico (e storiografico) serio, su queste tre famiglie al fine di definire oggettivamente, per quanto è possibile, secondo logica tuzioristica, il reale apporto della domus giulio-claudia rispetto alla Res publica, nella situazione successiva alla battaglia di Azio…
Il problema del passaggio dalla Costituzione repubblicana a quella Augusta/monarchica l’abbiano esaminato in tanti altri lavori (Giudaismo romano, Caligola il sublime, ecc) e lo abbiamo valutato come fenomeno necessario ed utile anche per equiparare la cultura occidentale a quella orientale, secondo un progetto. realizzato prima da Giulio Cesare e poi da Ottaviano Augusto…
I flavi, secondo noi, sfruttano il soterismo orientale, consacrando il numen di Vespasiano, come Serapide in Egitto, che riporta definitivamente la pace dopo il fatale 69, ripristinando con le truppe di Tiberio Alessandro, di Gaio Muciano e di Antonio Primo il kosmos, turbato dalla fine della casata giulio-claudia e finito nel caos di una lotta fratricida tra Galba, Otone e Vitellio.
Il regnare di Vespasiano e dei suoi figli, dopo la domus augusta, non è cosa facile: bisogna giustificare il diritto di successione al potere di una famiglia non fortunata, ma meritevole dell‘imperium per elezione divina.
Il ventisettennio flavio di regime (69-96 d. C.) è secondo la volontà degli dei, che hanno punito gli eccessi della domus dominante e hanno premiato la domus sabina, conservatrice, occidentale, vincitrice della guerra giudaica e della guerra civile, capace di riportare l’ordine e la pace in Occidente con gli eserciti orientali: è una coniuratio orientale opposta a quella occidentale di Ottaviano, come una rivincita antoniana ed egizia!
Negli anni di guerra giudaica Vespasiano conosce il messianesimo, secondo la musar aramaica, volgarizzata ed ellenizzata poi da Giuseppe figlio di Mattatia, interprete, uomo di famiglia sommo sacerdotale da parte paterna (Cfr. Bios) e asmoneo da parte materna, fatto prigioniero ad Iotapata, come comandante, responsabile militare della Galilea.
Il Legatus romano apprende da lui il valore del Messia, allora propagato in terra giudaica e mesopotamica in una versione come venuta del Meshiah/ Christos o in altra altra, tipica gerosolomitana, come suo ritorno/ parousia, vittorioso, trionfale.
Giuseppe, pur formatosi aramaicamente secondo il pensiero degli esseni, pur seguace della setta farisaica e dell’asceta Banno, avendo già i germi dell’ellenizzazione sacerdotale propria dei sadducei, filoromani, educati da oltre due secoli alla paideia, tradisce il messianesimo aramaico poiché ben conosce la superiorità militare romana ( cfr. Discorso di Agrippa II, Guer. Giud., II, 345-404) mediante l’espediente sacerdotale della rivelazione e manifestazione del disegno divino: mentre i compagni si uccidono, sacrificando la vita in nome del martirio zelotico, lui, rabbi farisaico, con un altro, si consegna ai romani e a Vespasiano, predicendo un ambiguo Khresmos, attualizzato, secondo un ermhneuma personale,
Giuseppe Flavio in Guerra giudaica III, 401, infatti, scrive, rilevando l‘arcano divino: su Kaisar, Ouespasiane, kai autokratoor, su kai pais o sos autos. Desmei de me nun asphalesteron kai threi seautooi. Despoths men gar ou monon emou su, Kaisar, alla kai ghs kai thalasshs kai pantos anthoopoon genous. Egoo d’epi kai timoorian deomai phrouras meizonos ei kataskhediazoo kai theou./ tu, Vespasiano, sarai Cesare e imperatore, tu e tuo figlio. Fammi ora legare ancora più forte e custodiscimi per te stesso, perché tu, o Cesare, non sei soltanto il mio padrone, ma il padrone anche della terra, del mare e di tutto il genere degli uomini ed io chiedo di essere punito con una prigionia più rigorosa se sto scherzando anche con Dio.
Il sommo sacerdote, secondo V. Ussani (Rendiconti Pontificia Accademia Archeologica,X 1934 p.157 sgg. e volume II p.665) nel fare la conta, sbaglia per ingannare i compagni di Iotapata, come risulta anche in Traduzione slava (cfr. Eisler).
Vespasiano è, dunque, l’eletto del theos di Israele, che ha un piano divino e lo manifesta a Giuseppe, destinato al martirio, in sogno, stanco della strage degli amici, a cui dà virtù profetica: E’ un‘elezione doppia -quella dell’ermeneuta e quella del legatus neroniano- da parte del Theos upsistos/Shaddai, chresth/utile per l’universalismo romano e per l’etnos giudaico, che deve accettare la superiorità militare e la nuova oikonomia divina, che con la nike/vittoria sancisce il diritto dei vincitori sui vinti, in una superiore imperscrutabile visione della storia.
Il legatus neroniano non deve credere di avere davanti un aichmalooton/prigioniero, ma un aggelos /nunzio di cose maggiori /meizonoon, in quanto inviato in anticipo da Dio / upo theou propempomenos, conscio dell’applicazione della legge mosaica, che impone il martirio del comandante: la notizia è un segreto per il dux, che lo estende anche al figlio Tito e ad altri due ufficiali.
Si è nel mysterium, nell’ area sacrale di un’epiphania segreta!
Giuseppe, prima della rivelazione, fa tre domande: 1. Mi mandi a Nerone?! 2. Perché /Ti gar? seguono nel testo puntini … 3. Quelli successori dopo Nerone resteranno fino a quando?/ oi meta Nerona mechri sou diadochoi menousin;
Il testo è corrotto ed incerta la posizione di mechri sou, per cui non è facile stabilire una reale datazione, possibile, se si pensa che subito dopo Iotapata, Vespasiano trasferisce, dopo due giorni, l’esercito a Tolemaide, dopo un’altra giornata di marcia (solo 15 km dividono le due città!) e si stabilisce a Cesarea Marittima, dove arriva a seguito di altri 3 o 4 giorni di marcia, essendo le due località abbastanza distanti.
Al di là della precisa datazione della profezia, avvenuta, comunque, prima della morte di Nerone (8 giugno 68), forse quando Vespasiano è a Cesarea nel mese di luglio del 67 (Iotapata è presa dopo circa 47 giorni di assedio, il 1 Luglio!) la notizia ha grande valore, in quanto rivela quanto accade esattamente, due anni dopo, il 1 luglio del 69, la consacrazione del dux ad autokratoor a Berito e poi ad Antiochia.
Per il momento un dux, prudens, come Vespasiano, essendo la situazione incerta dopo la morte di Nerone, invia Tito a rendere omaggio a Galba per avere disposizioni sulla guerra in Giudea, accompagnato dal re Agrippa II e da sua sorella Berenice, con la quale già sembra convivere.
In Acaia i due sanno dell’uccisione di Galba (dopo soli sette mesi e sette giorni di regno), e dell’acclamazione a imperatore del suo rivale Otone su nomina dei pretoriani e quindi dell’elezione successiva di Vitellio ad opera delle truppe germaniche.
Agrippa decide di proseguire perRoma, senza preoccuparsi del cambiamento intervenuto, mentre Tito, richiamato dal padre, meglio informato sulla situazione da suo fratello, Flavio Sabino – che è a Roma come praefectus urbi dal 56 d.C. fino alla morte nel dicembre del 69 ad opera di Vitellio, in modo quasi ininterrotto- torna in Siria e lo raggiunge a Cesarea, ancora incerto sulla accettazione della designazione imperiale dei militari siriani e giudaici.
I due, padre e figlio, col loro consilium di legati, decidono di sospendere le operazioni militari contro i Giudei, in attesa di conoscere gli sviluppi della guerra civile a Roma.
Nonostante la reticenza/aposioophsis, Vespasiano, alla fine, accetta l’elezione ad imperatore solo dopo la proclamazione delle truppe di Egitto di Giulio Tiberio Alessandro, governatore e figlio dell’alabarca Giulio Alessandro, concordi con quelle di Siria e con quelle di Mesia.
Il successivo trasferimento da Antiochia ad Alessandria, dopo aver spedito in Italia, via terra, le truppe di Antonio Primo e quelle di Muciano contro Vitellio, è in relazione ad una logistica impostazione militare, di supporto alla guerra civile tra Oriente ed Occidente, dopo la fine di Otone.
Conosciuta la morte di Vitellio a seguito della sconfitta di Bedriaco nel dicembre del 69 e poi dei tafferugli, verificatisi a Roma contro Flavio Sabino e Domiziano, suo figlio, Vespasiano assume di fatto il potere assoluto in Alessandria, intenzionato a tornare a Roma agli inizi della primavera.
Dopo aver inviato Tito con nuove truppe alla conquista di Gerusalemme, veleggia per Roma, dove entra i primi di maggio del 70, poco prima della distruzione del Tempio.
Il Messia, dunque, venuto dall’Oriente a salvare il mondo romano dalla catastrofe, ad invertire la rotta assolutistica neroniana, a riportare la libertas democratica, a ripristinare l’accordo tra potere regnante e senato, è Vespasiano.
Flavio mostra con i fatti che che Vespasiano è il redentore e pacificatore del mondo, non il Messia proclamato dai saggi di Israele (VI,312).
Si parla di un Khrhsmos amphibolos/ un’ambigua profezia, trovata nelle sacre scritture, che predice la venuta di uno proveniente dal paese giudaico, destinato a comandare il mondo (arcsei ths oikoumenhs).
Per Flavio, dunque, i suoi connazionali ebraici – che riferiscono tale notizia al messianesimo – si sbagliano perché il Theos ha stabilito nella sua oikonomia l’egemonia di Vespasiano, acclamato imperatore in Oriente, riconosciuto ora in Occidente e stanziato a Roma.
Flavio giustifica la fuga del Dio verso Occidente riprendendo l’idea del ritorno in Occidente di Dioniso con Ottaviano, collegando la fortuna di Ottaviano, poi Augusto, con quella di Vespasiano Soothr.
Egli rettifica che l’adventus augusti, cioè di un imperatore, riferito a Vespasiano, è voluto da Dio , che ha eletto Roma come sede, destinando alla distruzione il tempio di Gerusalemme, non più suo luogo sacro e l’abbandono definitivo della stirpe giudaica, non più erede, essendosi scambiato il cleronomos: Esaù (il pagano) e non Giacobbe/Irael (il vedente) è il legittimo erede! Roma è la nuova Gerusalemme!
L’opera del Regime di Giuseppe Flavio, (Guerra Giudaica, in 7 libri), pubblicata nel 74, è come un manifesto del governo legittimo in contrapposizione a quanti interpretano male la profezia. portando a rovina e allo sterminio la loro patria: la sua opera tende a mostrare come Roma sia l’ eletta al dominio universale e che la domus Flavia è la depositaria del Cleronomos.
L’astuto sacerdote, tradendo, è cosciente di ciò che vuole dimostrare in senso giudaico-ellenistico, avendo intenzione di comunicare anche a giudei romani quanto già scritto in aramaico per i barbari mesopotamici ebraici senza la retorica greca, solo secondo acribeia e ricerca dell’alhtheia: suo skopos iniziale è collaborare per salvare il salvabile – così da impedire la distruzione del tempio, bollare la stoltezza correligionaria (prefazione Guerra Giud., I, 1-3; VII,455)- e poi per accettare la volontà divina di abbandonare il popolo eletto definitivamente.
In effetti Giuseppe di Mattatia non è il profeta -lo è Johanan ben Zaccai, fuggito da Gerusalemme, il cui vaticinio come venuta o ritorno del Signore è collegabile con l’attesa dei cristiani poi di Antiochia -.
Giuseppe, ora divenuto liberto Flavio, invece, si fa garante del vaticinio riferito pubblicamente dopo solo il 1 luglio del 69, essendo desideroso di esaltare la grandezza dell‘imperator e il suo orgoglio patriottico nazionalistico in una volontà di rispetto per la verità storica, in opposizione alla storiografia greca, biasimata perché genere misto di retorica e poesia (Contra Apionem, 1,26 sgg.), teso all‘effetto (logoon dunamis).
E’ chiaro che gli storici successivi, Tacito (Historiae I,10,3, II,1,2, V 13,2) e anche Svetonio (Vespasiano, 4-9 ed infine Cassio Dione, St.Rom., LXXVI,1,4) dipendono in gran parte da Flavio.
La domus flavia è stata mostrata, dunque, in Guerra giudaica come una dinastia plebea, sabina, proveniente da Cotilia, rispetto a quella popularis cesariana e claudia aristocratica, che ha un gravis dux di 60 anni e due giovani di grande avvenire, come Tito e Domiziano, nota come rispettosa del senato e della sua auctoritas tradizionale, in linea con le rivendicazioni precedenti d’epoca caligoliana e poi neroniana, contraria all’assolutismo imperiale.
Il momento flavio risulta una rivalutazione in senso senatorio e sembra dare rilievo al ceto equestre, determinando una rivoluzione nel sistema di rapporto tra corte e cittadino.
La corte premia lo scrittore, servile, lo promuove nelle cariche amministrative, che diventa segretario, distinto a seconda delle funzioni svolte …
L’indirizzo flavio, favorevole al ceto equestre, determina uno stravolgimento della stessa storiografia in quanto vengono fuori funzionari amministrativi e militari nuovi con un ampliamento di potere a scapito della classe senatoria aristocratica, detentrice, fino ad allora, del potere della storiografia, annalistica.
Perciò i flavi, sfruttando il filone della valutazione negativa della domus dominante, dopo il saccheggio degli archivi giulio-claudi, inclinano a riportare in auge i letterati che rimpiangono la Libertas democratica, specie nella trattazione del tema delle guerre civili: viene fatta una revisione con soppressione dei testi filogiulio-claudi e con esaltazione di quelli ostili repubblicani, che denigrano ogni figura imperiale, esaminata nel suo tipico aspetto negativo, ad eccezione di Giulio Cesare e di Giulio Cesare Ottaviano Augusto. Vengono amplificate e propagandate le spintrie di Tiberio e le pazzie di Caligola, derisi la mente svampita e il vizio del gioco di Claudio, la teatralità tragica di Nerone col matricidio e uxoricidio, con l’incendio di Roma.
Nonostante la parodia della domus, le predizioni di un futuro regno in Gerusalemme (nonnulli nominatim regnum Hierosolymorum. Svetonio, Nerone, XI), Nerone è l’incubo dei flavi ( Svetonio, Nerone LVII e Domiziano, XIV) perché presente nella memoria popolare – che lo crede vivo- tanto che Domiziano, avendo timori di congiure, fa uccidere il segretario Epafrodito considerato in adipiscenda morte manu eius adiutus , aiutante con le proprie mani a dare la morte all’imperatore, come reo di lesa maestà!
In questo clima revisionistico Aulo Cremuzio Cordo è il simbolo dell’opposizione alla domus Giulio Claudia, magistralmente ripreso come denuncia di orientamento senatorio da parte di Tacito.
Gli annales di Cordo, suicida, processato e condannato sotto Tiberio ad opera di Elio Seiano, sono una dimostrazione del sentimento repubblicano, che inneggiano all’ultimo dei Repubblicani, Cassio, e alla morte di Cicerone.
Eppure, anche se conservati per breve tempo sotto Caligola, non ci sono tramandati come esempio di storiografia repubblicana, perché non utili ai fini flavi ed antonini.
I Flavi riprendono e tramandono invece la parabola della vita umana di Seneca il Vecchio scrittore di Historiae (Ab initio bellorum civilium) che, dopo aver mostrato l’inizio regale di Roma come infanzia e puerizia sotto i re, l’adolescenza nel periodo della prima repubblica mostra la sua maggiore età, erudita, al momento del preferire l’obbedienza più alle leggi che ai re. Si fa l’elogio della maturità repubblicana secondo la stesse direttive di Panezio e di Polibio nell’epoca della conquista mediterranea, mentre si condannano le divisioni e le guerre civili del periodo graccano, poi di Mario e di Silla, di Cesare e Pompeo e di Ottaviano ed Antonio, e si rilevano il logorio e lo sfinimento senile delle genuine forze repubblicane.
Il sorgere dell’impero è considerato momento di senile decadenza in quanto lo stato, indebolito, non sa reggersi da solo ma ha bisogno di regnanti.
Da qui la sottesa denuncia politica di Seneca padre, del rimpianto della libertà sotto il principato di Augusto, Tiberio e Caligola, contrassegnato da violente congiure, tipiche dell’animus aristocratico.
Non è da escludere un antimperialismo in Fenestella (autore di Annales ) e in Aufidio Basso, le cui Historiae, nonostante l’epicureismo, presentano venature di pensiero filosenatorio…
La coscienza di Roma caput mundi, divina, implicita in questi scrittori repubblicani, risulta un’accusa contro i giulio-claudi che, invece, hanno seguito l’indirizzo della basileia ellenistica e hanno divinizzato il princeps al fine di uniformare ed assimilare l’autokrator dotato di potestas tribunitia e dell’exousia/Imperium proconsulare con l’assolutismo regio orientale di Diodoro Siculo e di Dionisio di Alicarnasso, Nicola di Damasco, che preferiscono il modello seleucide e lagide.
I flavi, inoltre, dando rilievo a questa letteratura di opposizione conservano, comunque, quella che, pur censurata, è in voga nel periodo Giulio-claudio (Velleio Patercolo, Valerio Massimo e Pompeo Trogo)…
Infine i flavi riprendono le monografie di Lucio Vitellio e di Domizio Corbulone e sviluppano le biografie di Seneca per il padre e di Plinio il vecchio per l’amico Pomponio Secondo, in cui è palese una volontà senatoria di rendere sacra la memoria dei martiri della libertà repubblicana (Catone uticense, Trasea Peto, Elvidio Prisco), in una celebrazione degli esitus illustrium virorum.
Perfino inglobano i memorialisti e gli automemorialisti della casata Giulio-claudia, come Tiberio, Claudio, Agrippina Minor per rilevarne i difetti dalla loro rappresentazione stessa di vita quotidiana, in relazione agli interessi economici, alla geografia del Kosmos romano e alla loro testimonianza diretta, biasimata.
Giuseppe Flavio è un giudeo ellenizzato, che sintetizza tutto questo fenomeno letterario in Guerra giudaica, opera utile inizialmente per il principato…
Se i flavi combattono una battaglia contro la precedente dinastia, per avere consensus popolare, senza riuscirci – Nerone è creduto ancora vivo e pronto a riprendere il potere e le fonti dicono che ricompare varie volte in epoca flavia- , gli antonini, dopo essersi opposti a Domiziano – congiunto col despoths divino Caligola e con lo stesso Nerone- iniziano una propaganda basata sulla omissione di dati in senso stilistico frontoniano, in una condanna dell’ultimo Domiziano, connessa con l’opera di Antichità Giudaica e Bios e Contro Apione dello stesso autore giudaico, che cambia registro ed inclina verso un’altra revisione storica, che confluisce nel filone della scuola di Frontone, tipica della seconda sofistica, risultando, da una parte, apologia dell’antichità giudaica e, da un’altra ricerca del ruolo elitario nel Kosmos romano dell’ esautorato sacerdozio ebraico…
Domiziano, seguendo l’esempio caligoliano dei procuratores e trascurando i patres, avidi amministratori, ripristina il ministero del fisco (a rationibus) – assumendo prima Claudio poi Fortunato Attico e registrando le finanze – quello ab epistulis della corrispondenza epistolare, affidato a Titinio Capitone, un vero segretario con funzioni politiche sia estere che interne, quello a cognitionibus con un incaricato ai processi, quello a libellis (Entello) utile per le petizioni, quello a studiis per la cura degli archivi.
Domiziano rimane ambiguo a lungo con l’utilizzo, sporadico, del senato, destituito nei suoi poteri, fino al 94, mantenuta attiva la tassa annua di due dracme come fiscus iudaicus, per i giudei e per giudeo-cristiani e per i timorati della legge, condannati a morte Flavio Clemente, suo cugino, ed Acilio Glabione, ex console, inclini a seguire costumi ebraici, esiliando avversari e filosofi…
L’opera di Giuseppe Flavio diventa così emblematica del nuovo corso storico in cui tacere è una norma per non parlare del presente, poi sfruttata dai frontoniani, mentre si esalta l’elitarismo sacerdotale che, pur sconfitto, cerca di mantenere intatto il suo sacro prestigio.
Il non parlare, come omissione sottesa e voluta, diventa silenzio sulla politica in quanto esemplare deterrente, non degno di imitazione, per un Plutarco che, pur lodando la grande natura/Megalopsuchia del soggetto, caratterizza il personaggio, controverso e passionale, nella parabola del declino morale, oggetto di odio e di amore.
D’altra parte Svetonio e Tacito, mettendo in contrasto la magnanimità, registrata come immoderata, con l’ars hanno due comportamenti nei confronti delle opere, rimanendo legati più o meno a Plinio il giovane…
Svetonio, poi, collegato con Septicio Claro, prefetto del pretorio cade in disgrazia (Historia Augusta . Sparziano, Hadrianus ,11,3 Septicio Claro praefecto praetorio et Suetonio Tranquillo epistularum a magistro multisque aliiis – a studiis et a bybliotechis- quod apud Sabinam uxorem in usu eius familiarius se tunc egerant, quam reverentia domus aulicae postulabat, successores dedit- Adrianus -), ma la sua opera rimane filoantonina…
Ci sembra che E. Cizek (Structures et Idéologie dans le vies des douze Césars de Suetone, Bucarest -Paris 1977, p.178) abbia colto il reale senso della storiografia svetoniana e quella di opposizione degli antonini, rilevata in un bibliotecario, ducenarius,( ben pagato) raccomandato da Plinio il giovane, a cui non piace il sistema giulio-claudio e che ha ripugnanza delle personalità di Caligola e di Nerone e non ha cuore il modello di principato da essi esaltato, contrastante col senato.
Infatti Svetonio segue la direzione del senato e della concordia ordinum come adesione alle tendenze moderate dei senatori, da un lato, e dei cavalieri dall’altro, realizzabili e compatibili nel quadro di una monarchia moderata.
Ne consegue che Svetonio, nonostante la sua ammirazione per le theorie politiche ciceroniane, vedendo il principato di Domiziano, secondo l’impostazione divina caligoliana e neroniana, diventa fautore di una monarchia rinsaldata, che, senza curare la libertas , si mostra attenta a non ledere i diritti e gli interessi dei senatori, specie conservatori.
Tacito va oltre lo sforzo politico culturale della tradizione senatoria in quanto, rilevato il cambio di fisionomia senatorio, costituito prevalentemente da esponenti della borghesia italica e provinciale (specie gallo-ispana ed africana), aliena dalle esibizioni di grandiosità e stravaganze precedenti ed ancorata invece ad ideali di austerità e moralità, ben disposta a collaborare col principato, non più ferocemente autocratico, dopo la parentesi dell’ultimo Domiziano, si uniforma al gusto letterario della corte imperiale, che detta le norme in quanto unico centro reale di di elaborazione culturale. Tacito è l’emblema di una corte burocratizzata dalla presenza nei ruoli chiave amministrativi di personaggi dell’ordine equestre e di funzionari tecnici, già collaboratori flavi, la cui politica è mantenuta anche sotto i primi antonini: perseguitare i filosofi ancora legata alla libertas e favorire una letteratura classicistica, politicamente neutrale (come quella di Plinio il vecchio e di Quintiliano), assicurando prosperità economica e tranquillità interna.
Traiano appare il garante di tale politica, e, anche se governa in maniera monarchica, si mostra come princeps nei rapporti col senato tanto che al momento dell’ ascesa di Adriano, non esiste opposizione interna, anche perché nessuno, se non i funzionari di corte conoscono esattamente gli esiti della politica estera, delle imprese militari, tutte alonate secondo la propaganda africana antonina, asiatica…
Bisogna anche marcare il fatto di una massificazione della letteratura sotto la nuova sofistica e rilevare come la società benestante sia consumatrice di prodotti letterari, tramite romanzi, letture di poesie e tramite le recitationes nei cenacoli, specie di Roma e delle metropoli dell’impero, insomma, fare un punto sul fenomeno di una letteratura di intrattenimento…
Il fenomeno di dare munera come cariche amministrative e militari è tipico degli Antonini e poi anche dei Severi ed è congiunto con il panegirico del sovrano, giusto come amministratore, perfetto ed invincibile come dux, divino e paterno in ogni azione…
I nuovi sofisti imitano il modello di Frontone, che comunque, non vuole creare una metodologia sull’eloquenza, ma piuttosto aver rilievo su propri discepoli, che non sono solo rhetores eloquenti ma sono governatori e perfino imperatori.
D’altra parte anche lui fa carriera politica (triumviro capitale, questore in Sicilia, edile della plebe e pretore, consul suffectus e proconsole -nominale-di Asia), sfruttando anche il panegyrikos ,(panegyris vale adunanza popolare festiva) – il logos tenuto di fronte all’okhlos per celebrare la iustitia e il merito del sovrano-, come ogni altro sofista dell’epoca latino e greco, come Apuleio che, però, ha carica municipale a Cartagine, come Erode Attico che è consul designatus nel 143 ed altri.
Secondo noi Frontone, come uomo e come oratore, essendo molto legato alla parola, ha perfettamente coscienza della sottensione nel significante non solo di significato ma anche della referenza, avendo una vera e propria area di significazione in un ben preciso contesto, in una proiezione semantica, connessa con la reale pratica di vita, in specifica situazione: è un linguista ante litteram, nonostante l’accentuata enfasi e il sofisticato gioco retorico.
Frontone non è un letterato che gioca, comunque, retoricamente col termine, vuoto, ma ha significato come sostanza concettuale e res, in quanto pratica concreta di vita, essendo il primo tra i latini a rilevare il rapporto profondo tra res e verba e a privilegiare il factum come verum, gli acta come sicure parole.
Si tenga presente che la formazione letteraria e culturale di Frontone avviene in Alessandria, dove si fa esercizio retorico tecnico sia sul valore reale che su quello esegetico del testo greco di Omero!
Ad Alessandria lo scrittore completa i suoi studi tanto che, quando si trasferisce nei primi anni dell’impero di Adriano a Roma, diventa subito il più celebre avvocato ed oratore, un maestro di eloquenza capace di comprare i costosissimi Giardini di Mecenate ed è notato nel 138 dall’imperatore – che gli affida M. Annio Vero, futuro Marco Aurelio-, e nel 143 da Antonino il Pio, che gli dà l’incarico di precettore di L. Ceonio Commodo, il futuro Lucio Vero.
Egli risulta l‘artefice di una nuova retorica che deve sorprendere il lettore-ascoltatore, attraverso l’inatteso, attirare l’interlocutore allibito e vinto dall’ars del maestro, che è seguito ed amato.
Nessun discepolo invidia il maestro, che sa amabilmente mostrare i signa del suo insegnamento, tecnico, frutto di molto lavoro, che si traduce in opus sulla base di precisi acta, di cui i verba sono come vessilli /Vexilla indicatori, bandiere da seguire ed amare, come il vessillifero.
La nuova arte oratoria, comunque, non è un prodotto popularis ma è una teknh rivolta ad un pubblico dotto, capace di intendere i riferimenti letterari e arcaici del retore che la pratica, abile a suscitare ekplessis e a commuovere e portare all’empatheia.
L‘uso proprio dei termini, la perizia nella strutturazione tecnica della frase, il ricorso ai lemmi arcaici, ben esaminati nella loro radice ellenica o latina, grazie all’abilità etimologica e filologica, sono segni di una accurata ricerca dell’ enunciato comunicativo, formulato dopo lungo studio, in modo funzionale perfetto in ogni singola parte, al fine di sorprendere l’altro e di attirarlo non solo al proprio pensiero ma al rispetto reciproco e all’amore, tramite una reale reciproca comunicazione tra paritari, che possono stabilire un rapporto comune di vita.
Il verbum è vitale, la parola è viva, verbum è factum: con Frontone si è operata la sintesi di parola-opera, di logos- praxis!
La scuola frontoniana equivale a principato elettivo, a classe dirigente imperiale, ad un cenacolo imperante, senza l’equivoco della parola e senza l’invidia popularis: Frontone è la tromba imperiale. o meglio l’eloquenza è la tromba dell’imperatore.
E’ questo il miracolo antonino e frontoniano!
Cerchiamo di capire leggendo l’epistolario libro II, 1-30 con le risposte del discepolo Lucio Vero, impegnato nell’impresa parthica, tenendo presente che Frontone vuole mostrare la funzionalità dell’eloquenza e del suo metodo, e la validità del principato antonino, evidenziando la sua perizia nell’esercizio e la sua professionalità di formatore ed implicitamente facendo il panegirico della sua ars e di sé uomo ed artista, cortigiano.
Frontone, dopo un incipit tipico della reticenza cortigiana, dice: penserai forse che io elogi ora le tue virtù belliche, le tue imprese e i tuoi piani militari. A questi fatti, per quanto bellissimi, ottimi ed importantissimi verso lo stato e l’impero del popolo romano, io nel godere di imprese tanto grandi, prendo quella parte di letizia che spetta a me come agli altri. Invece dalla tua eloquenza, che tu mostrasti nelle lettere scritte al senato io, hic/ qui, traggo il mio trionfo.
Lo scrittore partecipa alle imprese come ogni altro uomo, prendendo quella porzione di piacere propria di ogni romano, ma ha coscienza di trionfare proprio per le lettere scritte al senato secondo la sua precettistica di eloquenza, convinto di aver ricevuto (anadiplosi di recepi) e di aver e tenere (habeo et teneo) omnem abs te cumulatam parem gratiam (iperbato) una ricompensa adeguata da te e sovrabbondante tanto da poter uscire di vita con gioia avendo percepito un prezzo grande per l’opera avendo lasciato un gran monumento ad eterna gloria personale –magno operae meae pretio percepto magnoque monumento ad aeternam gloriam relicto-.
Si rilevi la struttura dei due ablativi assoluti, disposti secondo parallelismo simmetrico, in iperbato, con anadiplosi di magno con variante nel primo membro di pretio, anticipato da operae mae, e nel secondo membro ad aeternam gloriam, posticipato rispetto a monumento!.
La conclusione, dopo aver evidenziato la sua gratitudine personale e il suo trionfo, serve a mostrare ulteriormente la sua funzione magistrale resa chiaramente con la positio princeps di magistrum separato da tuum dal me, in un collegamento dell’io e tu (poliptoto sotteso di tuum) con anafora di aut in quanto tutti sanno o pensano o credono a voi: tutto è sempre al suo giusto posto, secondo regola e secondo verità conformemente alla morale del principato antonino!.
Frontone, anche se il testo è mutilo, sembra mostrare che come rhetor abbia insegnato, cogliendo il fiore della sapienza (carpo florem sapientiae) in quanto vestigator atque indagator atque exercitator per Lucio Vero, che segue col fratello l’eloquenza, con cui domina i sudditi, servendosi della lecsitheeria/ caccia alla parola.
Il retore mostra, poi, che ai figli dei re è destinato dal grembo materno il potere in quanto ottengono l’impero per mano della levatrice (opstetricis manu imperium adipiscuntur cfr. ibidem. 5) volendo significare che la monarchia ereditaria (quella arcaica romana, quella giulio-claudia e quella flavia) trasmette il trono in relazione al locus paternus o alla fortuna secondo il nitrito dei cavalli (Dario tra i Persiani ), o il volo degli avvoltoi ( Romolo e Remo tra i cives arcaici).
Nel principato elettivo, invece, anche se il potere può essere tolto con inganni e congiure e quindi trasferito, l‘eloquenza, come base formativa, rimane e non può essere trasferita ad altri.
Infatti il retore aggiunge che il potere antonino è adottivo ed ha la tromba come vessillo in quanto Dio tonante come Zeus affinché col fragore delle nubi e col rombo delle tempeste, quali voci divine, protegga dal disprezzo il suo altissimo impero (ibidem 11) e poi ne tesse le lodi, in un’assimilazione dell‘imperator con l’eloquenza: igitur si verum imperatorem generis humani quaeritis, eloquentia vestra imperat, eloquentia mentibus dominatur: ea metum incutit, amorem conciliat, industriam excitat, inpudentiam extinguit, virtutem cohortatur, vitia confutat, suadet, mulcet, docet, consolatur.(ibidem 12)
Ora, per Frontone, Marco Aurelio e Lucio Vero devono omettere eloquentiam ed imperare con la tromba, devono cioè conquistare l’Armenia e fare la guerra parthica.
Come propagandare la guerra parthica?!
Per prima cosa fare la situazione, poi capire il problema, infine intervenire militarmente in modo da avere una soluzione definitiva, oscurando i meriti di ogni precedente condottiero e tacendo di quelli, che recentemente hanno fatto l’impresa.
Perciò Frontone, che pur ha scritto De bello parthico, commissionatogli da Lucio Vero, capito qual è il problema, sottende ogni antefatto, consapevole che, se i romani fossero rimasti fermi alle imprese di Lucullo e Pompeo ed avessero posto il confine all’Eufrate, la Parthia non sarebbe stato un problema in quanto la monarchia arsacide, lacerata al suo interno da un assetto feudale, perché confederazione di stati autonomi retti dal re dei re- alla cui morte avvengono periodicamente stragi di pretendenti in relazione al costituirsi di fazioni- si sarebbe gradualmente, naturalmente estinta.
Certamente sa che la volontà di conquista militare di Licinio Crasso -che pensa alla ricchezza delle vie per la Cina e per l’India -e la sua sconfitta a Carre hanno determinato una reazione nazionalistica, diventata quasi un puntiglio militaristico da parte del Senato, desideroso di affermare la supremazia militare in Oriente, grazie anche al dominio navale di gran parte del Mediterraneo.
Perciò, non gli sono sconosciuti i piani di invasione di Cesare prima e quelli di Antonio che, in più riprese, compie un’impresa fortunata tramite il legatus Ventidio Basso e le altre due direttamente, con alterne vicende, cercando di imporre i diritti del militarismo ai Parthi, che si difendono, avendo anche loro una tradizione militare, forgiatasi nel lungo periodo di lotte antiseleucidi.
Non ignora che il fenomeno parthico è fuso con quello giudaico, in quanto gli ebrei hanno una consanguineità etnica e una stessa lingua aramaica, comune con i parthi transeufrasici: attaccare la Parthia significa essere in guerra con i Giudei, che sono ambigui in relazione ad una pars aramaica e ad una filoromano-ellenistica mediterranea!.
Sa bene che i giulio-claudi, che conoscono la situazione e la zona oltre l’Eufrate, fanno una politica di diplomazia, basata su trattati, accontentandosi di avere ostaggi, sicuri della lenta e progressiva fine stessa dell’impero parthico.
Su tutta questa intrigata situazione Frontone tace e rileva non giustamente la mancanza di una propaganda effettiva in Roma repubblicana, connessa con un commendator capace di fare propagazione culturale tanto da sminuire l’impresa di Ventidio Basso vincitore a Gindaro nel 38 a.C. ( cfr. Erode Basileus ), il cui trionfo ha bisogno di un’orazione di Sallustio, presa in prestito e di un Cocceio Nerva, un poeta elegiaco, neoterico, che commendavit facta in senatu verbis rogaticiis raccomandò in senato le imprese con parole raccogliticce, come voti raccolti da un rogator/ scrutatore.
Frontone per magnificare la sua epoca sminuisce l’eloquenza di epoca ciceroniana repubblicana nel corso del Trionfo del legatus piceno, tacendo circa la grande cultura alessandrina cesariana!
Sa, quindi, che l’uso è alessandrino e che già esiste un apparato cesariano che poi sarà ottavianeo ed antoniano proprio dei populares!
Frontone tace, ma conosce il significato e il valore della propaganda augusta/sebasth, di cui non parla poiché è desideroso di esaltare l’eloquenza della sua epoca.
Secondo il retore, dopo il passaggio dalle magistrature annuali a Cesare e poi ad Ottaviano e a Tiberio, lo stato non ha avuto uomini capaci di eloquio degni di un imperator!.
Infatti Tiberio ne conservò qualche residuo ormai languente, però, e in via di estinzione/ non nihil reliquiarium iam et vietarum et tabescentium … superfuisse (ibidem 13). Gli imperatori che seguirono fino a Vespasiano non furono meno spregevoli per le parole di quanto fossero disgustosi per costumi e deprecabili per i delitti (ibidem).
Frontone si chiede: non avevano imparato (non dedicerant) l’eloquio, ergo, cur imperabant? / dunque, perché comandavano?
Sembra dire che non si possa comandare coi gesti come gli attori (ut istriones) né a cenni come i muti (ut muti) né per interprete come i barbari (ut barbari)! Per lui non sono imperatores quelli che non sanno parlare con parole proprie!
L’ oratore aggiunge: Gli imperatori romani fino a Cocceio Nerva, che adotta Traiano, non sono in grado di rivolgersi con un discorso al popolo o al senato, né di comporre un editto, né un’epistola con parole proprie Frontone, precisando i termini impero – che non esprime solo potere ma anche comando, in quanto la forza dell’autorità si esercita comandando e vietando -ed imperatore – che è chi sa elogiare il ben fatto e biasimare il mal fatto e sa esortare al valore e distogliere dall’errore- conclude il suo discorso dimostrando che gli imperatores, che delirano in preda ad una malattia e che comandano con parole non proprie, sono flauti, muti, se non c’è il fiato di un altro.
Così si ragiona in epoca antonina!
Seguiamo (per capire meglio) il parlare di Lucio Vero che chiede al suo maestro di scrivere storia secondo metodo, sul De bello Parthico anche se noi sappiamo che l’imperatore nella sua richiesta segue lo schema della lettera di Cicerone a Lucceio (Ad familiares 5,12) e della lettera di Plinio a Tacito (7,33).
Lucio Vero ha la stessa coscienz nei confronti di Frontone, di quella che ha Plinio verso Tacito, convinto di presagire che le Storie del maestro saranno immortali (historias tuas immortales futuras).
Dunque, l’imperatore parla dapprima della documentazione da inviare al maestro per farlo entrare in merito al problema, necessaria, comprese le sue disposizioni e le pitture e il suo diario sui costumi degli uomini e sui sentimenti/ mores hominum et sensum eorum, insomma, tutto il materiale consistente in un fregio continuo su un volumen che si srotola a mò di colonna coclide, con mappe topografiche.
L’imperatore, dopo aver precisato di non trascurare le sue orazioni al senato, le arringhe ai soldati e i colloqui coi barbari /sermones cum barbaris, servilmente, aggiunge: quod si me quoque voles aliquem commentarium facere, designa mihi qualem velis faciam et, ut iubes, faciam/che se vorrai anche che io faccio un diario, dimmi cosa vuoi che io faccia ed io farò come comandi!
Inoltre dice, scusandosi di passargli avanti, mentre mostra i suoi effettivi desideri: una sola cosa voglio, non certo insegnare, io discepolo al mio maestro, ma suggerire al tuo giudizio. Fermati a lungo sulle cause e sui primi episodi di guerra ed anche su ciò che in nostra assenza è stato fatto male / unam rem volo, non quidem demonstrare discipulus magistro, sed existimandum dare. Circa causas ed initia belli diu commoraberis etiam ea que nobis absentibus male gesta sunt.
Aggiunge:arriverai senza fretta a trattare delle mie imprese. Ritengo necessario inoltre che risulti chiaro come i Parthi, prima del mio arrivo ci fossero superiori, in modo che sia ben evidente ciò che io ho fatto/Tarde ad nostra venies. Porro necessarium puto quanto ante meum adventum superiores Parthi fuerint, dilucere ut quantum nos egerimus appareat.
Conclude, portando l’esempio di Tucidide: vedrai tu stesso che sia opportuno condensare, come fece Tucidide per le vicende dei cinquanta anni, anche se dovrai rifarti un pò indietro, senza però dare a quei fatti l’ampiezza che darai ai miei/An igitur debeas, quo modo penthkontaetian Thoukudidhs explicuit, illa omnia corripere, an vero paulo altius dicere, nec tamen ita ut mox nostra dispandere, ipse despicies.
In definitiva l’ imperatore dice al suo maestro, alternando l’io privato al noi imperiale: insumma meae res gestae tantae sunt, quantae sunt scilicet, quoiquoi modi sunt, tantae autem videbuntur, quantas tu eas videri voles/ insomma le mie imprese sono naturalmente quel che sono, di qualunque entità siano, però, appariranno grandi quanto tu vorrai che appaiano.
Quanta potenza la scrittura di Frontone ha nel II secolo! quanto valore ha la cultura letteraria!.
Cambia la storia!?
La campagna parthica di Traiano prima e quella di Lucio Vero, non s certamente superiore a quella di Antonio (e del Legatus Ventidio Basso), risultano invece un trionfo, perfino la ritirata di Quieto ed Adriano -che salvarono il salvabile, quando l’imperatore era malato e destinato a morte- un’impresa eccezionale la conquista di Ctesifonte e della vicina Seleucia, essendo taciuti i retroscena, i morti, le disavventure, i tradimenti. le tragedie militari, gli incendi!
La cultura di corte propaganda univocamente quanto è necessario per il buon nome di Roma e del suo imperatore, magnificati quando si vince una scaramuccia, messo sotto silenzio quanto di negativo accada!.
ll II secolo è davvero il secolo della mistificazione ed amplificazione, della manipolazione di fatti e del silenzio del dissenso, mentre le arti, concordi, celebrano ognuna secondo i propri canoni, la grandezza imperiale antonina! ( Cfr E .Havelock e J.Hershbell, Arte e comunicazione nel mondo antico, Laterza 1981).
La celebrazione ufficiale, con riti protocollari, si ripercuote sui viaggi degli imperatori, seguiti da folle immense festanti che acclamano e che propagandano il nomen imperiale, sublimato.
Il viaggio di Lucio Vero, che assume il comando dell’Impresa Parthica nel 162 e poi il suo stanziamento ad Antiochia con gli spostamenti a Laodicea e a Dafne, a primavera e in estate, è trionfale in ogni porto, in ogni città, in cui si giunge, come anche quello di Marco Aurelio lungo le strade d’Italia, per arrivare a Brindisi con Faustina e la figlia Lucilla, che deve raggiungere il suo sposo ad Efeso.
Un evento memoriale è il matrimonio ad Efeso, all’arrivo di Lucilla che si sposa con Lucio Vero, anche lui giunto col suo corteo principesco.
Eppure siamo nel clima di una campagna militare, condotta per legatos , il cui dux subito risulta vincitore in Armenia e prende il titolo di Armeniacus , dopo la presa di Artaxata e l’insediamento del nuovo re della zona, Giulio Soemo, ex console romano, di origine forse giudaica, costretto in quanto tributario, al vettovagliamento e alle spese di viaggio dell’esercito diretto verso la Parthia prima e poi verso la Media.
E’ facile la manipolazione delle notizie nel secondo secolo, essendo unico il centro di diffusione, quello intorno al Princeps, costituito da una corte viaggiante, fastosa e dai monumenti disseminati nell’impero (come quelli di Gerasa, ricostruita da Adriano con teatro, ippodromo, con la piazza ovale, colonnata ecc.)
Frontone può giocare sulle notizie del governatore di Cappadocia, Sedacio Severiano, suicida dopo la sconfitta subita dai Parthi, che mettono in fuga anche il governatore di Siria.
Lucio Vero, uomo prestante, raffinato e dissoluto, secondo la Historia Augusta, non si sposta dalla Siria e riceve solo notizie dell’andamento della spedizione ben condotta Avidio Cassio, dux dell III legione gallica, che penetra in Mesopotamia e giunge fino a Ctesifonte e a Seleucia, città poste sulle due sponde del Tigri e le brucia, determinando reazioni militari incontrollabili e una peste che sconvolgerà per anni la regione.
Lucio Vero, ogni mese, ha relazioni sulla situazione da corrieri che informano, mostrando anche le carte che segnalano il cammino dell’esercito e del dux , che si allontana dalla zona meridionale malarica e pestilenziale e che procede verso la Media , riportando notevoli successi.
Dunque, Frontone deve solo narrare, da lontano, i fatti come imprese di Lucio Vero , dopo i disastri dei precedenti condottieri, da condividere con Marco Aurelio e giustificare il titolo di Parthicus maximus, mostrando il merito del suo discepolo, come se fosse stato lui il dux e non Avidio Cassio e gli altri legati che vincono realmente scampando non solo ai nemici ma anche alla febbre malarica, alle dissenterie e alla peste.!
La sua ars, comunque, non è vuota espressione o sibillina affermazione, ma è un complesso armonioso, che sottende la manifestazione di una maturità professionale come tipica conquista di un animo raffinato, sensibile ed affabile, philostorgos, desideroso di una reale comunicazione, con l’altro, educato secondo lo stesso sistema di erudizione linguistica, già di per se stesso separato dal popolo, il cui linguaggio è quello elementare della pratica quotidianità.
Il retore ha di mira solo chi può ascoltare e non guarda nessun altro, specie se non fruitore del suo banchetto verbale ,e che poi sappia comunicare ad un altro suo simile per creare un alone di consenso!
La simplicitas frontoniana con la delicatezza dei sentimenti è espressione di artificialità tecnica ma anche di una comunicazione nobiliare, superiore, tra eletti, destinati alla guida del popolo, come del clero tra i propri eletti rispetto al vulgus, non fruitore.
Ritengo giusto quanto afferma A. Garzetti- L’impero da Tiberio agli antonini, Bologna 1960, p.470- che cioè la corte di Antonino il Pio è lo specchio limpido di un ambiente in cui si esplicano semplicità di tratto e sincerità dei rapporti e che Frontone rileva nel suo Epistolario il nuovo atteggiamento verso la natura, gli uomini e le cose osservate, secondo un lusus dilettevole e piacevole, quasi di esercitazione artificiosa, non privo, comunque, di sentimenti familiari, fraterni per Quadrato, paterni per Grazia, moglie di Aufidio Vittorino, unica figlia superstite delle sei, nate.
Che cosa significa?
Significa che la Nuova sofistica avendo in comune un lessico, un linguaggio e un frasario selettivo in senso arcaico e repubblicano, concilia il logos arcaico e repubblicano con la pracsis quotidiana ed invia un reale messaggio unitario e chrhstos per la cerchia di lettori di quel contesto di corte, che è un gruppo dirigente a tutti i livelli da quelli amministrativi a quelli militari e municipali, che fa la storia dell’impero, sotto ogni forma culturale.
Non è, dunque, un fenomeno letterario di astratta eloquenza, tipico di una corte decadente, che invece risulta un crogiuolo, in cui si fonde materiale diverso per lingua, razza e costume e moralità e cultura, dove si forma un sistema tecnico-scientifico non staccato dall’arcaicità repubblicana, che può apparire superficiale ed estremamente affettato e mieloso, mentre è di fatto un permanente strumento di ricerca della reale situazione, tramite il gioco verbale sia greco che latino, le due anime dell’impero tendenti ad un unicum linguistico secondo i gusti dell’uditorio (auditores oblectare ).
I letterati ( prosatori poeti, giuristi, storici, geografi, sacerdoti, ierofanti) si uniformano veramente allo stesso codice, anche se trattano temi ed interessi diversi ed anche se le loro ispirazioni tendono a fini diversi: ispanici, afri, galli, italici, achei, siriaci, asiatici , egizi, ebrei, sacerdoti di divinità orientali, hanno il culto del nomen di Roma e del suo numen e coniugano il verbo latino in una volontà di costituzione di una comune patria, dove regna la pace col benessere economico, assicurata dal principato elettivo antonino.
I panegirici dei tanti autori non esprimono enfaticamente solo consenso al principato, ma risultano manifesti dell’ideologia del momento specifico traianeo, adrianeo ed antonino in genere come invito diretto al principe a seguitare nella via di intesa e collaborazione senatoria diventando espressione formale dell’impero esercitato dalla burocrazia amministrativa identificata nell’imperatore, che è garante dello stato con le sue campagne militari coi suoi provvedimenti verso i cittadini, con la sua semplicità di vita e familiare, coi tentativi di migliorare le condizioni sociali.
Ogni letterato rispetta il campo delle competenze specifiche altrui ed opera serenamente e concordemente con gli altri per il bene della communitas romana: già nel II secolo esiste una theoria delle élites, che poi sarà ecclesiale e pontificale romana, che ha il principato sugli altri esseri umani, secondo una volontà Divina creatrice, per elezione genetica, logico-razionale, rispetto alla massa di bruti da dominare.
Frontone scrive cinque libri lettere per Marco Aurelio discepolo, e quattro per Marco Aurelio imperatore e due per Lucio Vero imperatore.,mandando un unico messaggio utile per la formazione dell’imperator /autocrator, nobile modello per l’humanitas romana di qualsiasi razza nelle diverse latitudini.
Marco Aurelio, invece, scrittore di Eis auton, usando la lingua greca e non il latino già entra in dissenso col suo maestro, che ha scelto la lingua ciceroniana per il suo messaggio ecumenico cattolico, nonostante la perfetta conoscenza della koinh e diventa equivoco nella sua opera sia come regolatore del Kosmos che come uomo alla ricerca di se stesso, secondo i canoni socratico-platonici e secondo l’etica posidoniana stoica, senza l’utilitarismo aristotelico: vuole essere voce debole di flauto non tromba.
La voce imperiale deve essere “tromba”, cioè dare ordini validi per tutti, uniformemente sudditi, come fa la tromba per l’esercito, non può essere flauto, strumento flebile e delicato, non utile per un imperatore, la cui auctoritas non può essere scalfita neppure dalla apparenza modesta di fronte al popolo e al senato, che hanno bisogno del sostegno della forza insita nel tono imperioso.
Il consiglio di Frontone è quello non di comandare con le parole non proprie e deboli come flauti, ma con la potenza dell’ elocutio, come tromba militare, che porta ad impetus vittoriosi in ogni senso.
Marco Aurelio, credendo di crescere con la filosofia, dopo aver ricevuto la perfetta impostazione linguistica frontoniana, è costretto ad ammettere la grandezza del metodo del maestro , esperto non di parole ma di uomini e cose, mentre lui risulta astratto di fronte alla realtà sociale, civile militare e pur credendo di giungere all’alhtheia, neanche misura,nella sua intimistica ricerca, il baratro in cui precipita l’impero romano, non più stabile di fronte ai barbari, insicuro perfino al suo interno, culturalmente involuto dalla nascente religio christiana, economicamente distrutto sul piano commerciale dalle difficoltà di rapporti tra le partes, sia per le pestilenze, che per le penetrazioni barbariche lungo il Danubio , nel Ponto Eusino e nel Mare Eritreo ( fr. Volcazio Gallicano, un autore di Storia Augusta in Avidio Cassio 1,8 mostra le beffe degli avversari sull’imperatore, chiamato vecchiarella filosofa, mentre precisa le critiche dei cittadini migliori circa la conduzione dell’impero –Ibidem, 14,5-): c’è come una predizione circa la fine stessa della patria comune a causa della clementia imperiale, che risulta voce debole contro i disonesti, anche se condannati, flauto nella guerra contro i Quadi e Marcomanni, conquistatori.
L’inversione di marcia del Filosofo, che torna all’ovile frontoniano, non dà i frutti sperati perché l’imperatore è in una involuzione senile conservatrice, repubblicana, incapace di raccogliere le forze orientali e quelle occidentali in un sacrificio reale per una causa comune sia contro i barbari che contro l’ideologia dei christiani renitente alla leva, fedifraghi e convinti solo di far parte di un altro regno, pur godendo, da parassiti i vantaggi della protezione romana imperiale, specie ai confini.
L’imperatore non ha coscienza, neanche se ha il contributo della sua efficiente burocrazia, della situazione storica e della economia reale e dello sperpero finanziario delle province, non più controllate dal fisco imperiale, specie dopo la morte del fratello Lucio Vero, suo genero e dopo la rivolta di Avidio Cassio, a seguito dell’impossibilità di fronteggiare il pericolo danubiano e parthico, le convulsioni popolari giudaico-cristiane, le pestilenze, le epidemie e i cataclismi.
Morto Commodo, dopo la fase di transizione grave per l’impero p a causa della presenza di tanti imperatori, lo scontro si risolve con la vittoria di Settimio Severo su Didio Giuliano
Questi, alla morte di Pertinace con cui è già stato console, è nominato imperatore per aver offerto 25000 sesterzi ai pretoriani ( (Historia Augusta) riconosciuto dal senato, ma non dal popolo. La sua auctoritas è contestata dagli eserciti delle province di Britannia (Clodio Albino), della Siria (Pescennio Nigro) e dell’Illirico (Settimio Severo).
Questo ultimo avanza in Italia e Didio, già in dissenso coi pretoriani, pur avendo il supporto della flotta di Ravenna, pur avendo tentato di consociarsi con il pretendente avversario, è ucciso il 1 giugno del 193.
Settimio Severo, di Leptis Magna in Africa come i grandi retori (Apuleio Frontone, Minucio e Tertulliano) dell’epoca, ha subito l’entusiastica acclamazione della cultura che inneggia alla sua vittoria e crede in un ripristino della potenza imperiale sulla scia della precedente dinastia antonina, minimamente intaccata dalla politica di potenza e dall’assolutismo divino di Commodo, che ha tentato di arginare la grave crisi economica e finanziaria, ereditata dal padre insieme con le guerre con Quadi e Marcomanni, ormai dilaganti.
I frontoniani della novella sofistica sono concordi nel ritenere che i Severi, se innestati i sul ceppo del principato antonino e sullo stesso nomen, abbiano possibilità di creare una nuova dinastia, specie se benedetta dal sacerdozio della famiglia siriaca di Giulia Domna, dopo una riforma del corpo dei pretoriani, a seguito di un potenziamento del militarismo illirico-danubiano.
I retori, quindi, concordano nella conservazione della linea antonina, giustificando il potere dei Severi come dono degli dei ma anche come elezione di patroni protettori dell’imperium come Augusto dominus despoths agli inizi del principato: Giulia Domma Augusta e Mater castrorum diventa il simbolo di un dominatus con una religio di pietas sincretica, di cui il padre Giulio Bassiano, seguace del dio El Gabal, di Emesa, è il garante, mentre i l’imperatore è dominus e deus dei romani.
Neanche Bassiano Caracalla, che governa dal 198 al 217, dopo la ConstItutio antoniana con cui equipara i cives romani liberi e d elimina le differenze tra Honestiores ed Humiliores, pur con i gravi errori in politica estera data la sua volontà di emulazione di Alessandro Magno, riesce a scalfire il dominatus tipico dei severi-antonini specie dopo il miglioramento delle condizioni dell’esercito, pagato con un alto salario, nonostante l’ aggravamento della situazione finanziaria,- di cui l’antoniano è chiara espressione di un declassamento economico- crescente poi sotto Eliogabalo ( 217-222) ed Alessandro Severo (222-235) …
Non abbiamo affatto intenzione di mostrare il significato del valore del sistema dei Severi, che hanno necessitas di agganciarsi da una parte alla cultura romano-italica per un ritorno alle origini repubblicane e quindi alla domus giulio-claudia e a quella Flavia e da un’altra tenersi legati al sistema orientale asiatico e siriaco, che economicamente sostiene il peso dell’impero.
Personalmente, ai fini del presente lavoro, mi preme mostrare, senza trattare la retorica dell’epoca, specie quella dei Filostrato e dell’ambiente di corte,(cosa già fatta), il particolare modo di scrivere di Dione Cassio, che nel LII libro di Storia romana interrompe la narrazione annalistica consueta e si sofferma sull’anno 29 a.C. per esporre la relazione di un dibattito probabilmente svoltosi tra Ottaviano ed i suoi due migliori consiglieri, Agrippa e Mecenate.
Il tema è quello della forma di governo da adottare, dopo il ritorno dall’Egitto dove iI triumviro, ora unico e nikeths, ha lasciato i segni di una precisa regalità connessa con quella macedonica lagide e con quella faraonica.
Sembra che Dione voglia mostrare come, dopo la guerra civile, Ottaviano sia esemplare e per gli antonini e per i severi- anche loro a seguito di una guerra civile – come civis che decide di scegliere la forma monarchica secondo la precettistica di Mecenate e di scartare come inadeguata quella democratica, suggerita da Marco Agrippa, in un rifiuto del sistema tirannico, sebbene teso verso una soluzione di un accentramento autoritario personale.
Il lavoro di Dione è in relazione alla tragica situazione del dopo Commodo e alla giustificazione della monarchia di Settimio Severo prima e poi di Caracalla e di Alessandro Severo.
Il dominatus – Cfr. Dione Cassio, STor. Romana LXXVII, 18, 2; LXXVIII, 4, 2 3- come istituto, sottende che l’imperatore non è più un privato gestore dell’impero per conto del Senato, ma è unico e vero dominus,- che ha potere dal militarismo, la cui funzione nell’impero è socialmente attiva ed è legalizzata giuridicamente e religiosamente – e deus, secondo le sincresi della Novella sofistica, abilissima nel gioco retorico e filosofico, nel clima di una cultura ormai neoplatonica e gnostica, in cui cerca di trovare spazio l’apologia christiana alessandrina ed africana.