Mastrejà

“Maggiore del desiderio di bere del vitello, il desiderio della vacca di allattare ” rabbi Aqivà (Talmud, Pesachim)
Maggiore di essere amato, è la voglia  di amare; maggiore dell’anelito di ricercare  è quello di insegnare.
Chi  ha imparato facendo, deve tramandare  ciò che  ha visto fruttifero nel corso del suo lavoro: non è missione, né imperativo categorico, è una necessitas di vita: l’uomo, divenuto sapiente, grazie al sàpere, all’ aver fatto esperienza e aver provato  e riprovato la cosa fatta, sperimentandola, la ripropone ai figli, ai discepoli, come conquista, come possibilità esistenziale, come tentativo  realizzato in precisa situazione,  da utilizzare in caso di somiglianza e di situazioni similari, secondo un orientamento  generalizzato, mai vincolante in toto.

E’ una necessità per chi ha operato come essere vivente  e deve ancora operare perché ancora vivente,  non solo per mostrare il suo percorso di uomo irripetibile ed unico, ma anche per dare ad un altro un orientamento, dare un punto  verso dove dirigersi, senza tracciare l’iter, che è costruzione personale di ogni individuo razionale, che deve cercare il proprio indirizzo e la propria via metodologicamente con propri mezzi, a seconda delle sue potenzialità, qualità, possibilità reali in situazioni concrete.
E’ un sistema, una methodos,  per essere felice, lavorando e creando un paradeisos  tanto da far  dire a chi guarda: Dikaios moi dokeis .. eudaimon einai: agathos gar on anhr eudaimoneis (mi sembra giusto che tu sia felice: infatti tu sei felice perché sei un uomo buono– Senofonte, Economico, 4.25-).
Una methodos non razionale, non logica, ma patetica, nutrita dal silenzio e  da esso sgorgata come parola, divina espressione di una naturalità e di una giustizia connessa con la sublimità.
E’ un modo, inoltre,  di incontrarsi paritariamente tra due, (padre e figlio, maestro e discepolo  emittente e ricevente)  in una comunicazione reale, non autoritaria, forse solo autorevole, empaticamente proficua, che risulta  testimonianza autentica  di vita senza magistero, di una testimonianza di vita,  come trasmissione di testimone in una gara  di corsa a staffetta in un percorso infinito di storia umana.
Mastreja’ è un infinito di un verbo dialettale, apocopato, che significa  fare qualcosa per vivere, senza impegno, dilettandosi in costruzioni  più o meno artistiche, secondo criteri senili tramandati dalla tradizione italiana agricola ed artigiana, a scopo solo di passare tempo per non pensare, per non deprimersi, nell’ozio, per non vivere di soli ricordi, per non morire impaurito e  per sfuggire alla petulanza e alla compassione altrui.
Mastreja’ risulta, perciò, un’attività senile  improduttiva, all’apparenza, ma  tale da dare diletto e svago al vecchio, che libera la sua inventiva e crea qualcosa di nuovo, di tipico, evidenziando il proprio estro.
Come attività Mastreìa’ è anche una necessitas, imposizione divina all’uomo  che deve  riscattarsi da colpe congenite e purificarsi: spingere in alto in eterno un masso destinato a precipitare secondo il mito di Sisifo, è segno della non funzione dell’uomo sulla terra e del suo puerile ( anche se senile) impegno
Rilevare questo è sapere, fare esperienza dell’essere nulla come unico fare-poiein umano, possibile, per arrivare alla ricerca contemplativa,  come esercizio spirituale
Mastreià è la storia di un ex insegnante di liceo che si ritira in campagna e a tempo perso lavora una o due ore al giorno come muratore e come contadino.
In trenta anni il professore compie un’opera  degna di essere vista, come espressione della sua volontà di fare qualcosa, di lasciare un segno del suo esserci stato in quella  specifica parte del Piceno, da lui segnata razionalmente:  lasciare una bava di lumaca è sempre un segno, seppure breve, di passaggio sulla terra  di un vivente in un kosmos.
Anche la striscia argentata da lumaca diventa  un’espressione momentanea di autenticità!
Il doppio decalogo, a conclusione,  è in sintesi il proclama verbale del vecchio sapiente,  che riassume la sua azione e manda un nuovo Kerugma, un messaggio diverso di vita, quasi  un’alternativa religiosa.   Un’ altra via… per la Vita. 
N.B
Niente di quello che ho scritto, detto e fatto è credibile: ciascuno di noi uomini  comprende in relazione alla propria logica e al proprio sistema di vita e perciò valuta e giudica immediatamente come non  accettabile il mio pensiero e la mia azione.
L’uomo ha bisogno di rapportare a se stesso l’altrui pensare e fare  e di confrontarlo con il proprio comportamento e col suo tipico pensiero.
Dalla misurazione soggettiva dipende l’accettazione e la negazione del sistema di vita altrui: ogni individuo ha grande stima di sé  e si pompa automaticamente  per vivere, e sopravvivere di fronte alle tante istanze della quotidianità e presenta un proprio status consueto  con un atteggiamento personale apparentemente neutro, ma in realtà pulsante di emotività.
Di fronte alla mia opera grandiosa o alla sola proposizione entusiastica della mia opera quasi tutti i soggetti  entrano in tilt interrompendo i circuiti mentali e si irrigidiscono in un muto ed ostinato  stato di rifiuto o di netto diniego con improvviso allontanamento o (raramente) con forme  di dileggio o di bonario sarcasmo, quasi mai si aprono ad ammirazione  affettuosa o  stupita.
Megalomania è la definizione comune immediata propria di chi non comprende la ricerca spasmodica di chi  è esercitato a  vivere in alto e a cercare  adrepebolon, a tentare di essere sublime.
Tanto maggiore è l’intelligenza dell’interlocutore tanto minore è la sua partecipazione alla mia scrittura, eloquio e pratica di vita: solo i semplici hanno qualche desiderio  istintivo di imitazione oppure voglia per breve tempo di leggere, sentire e vedere.
Perciò ,sono stato costretto a fuggire dagli altri  e ad essere solitario nel mio percorso sia di scrittore che di lavoratore, convinto di non poter mai avere discepoli, capaci di seguire la via indicata, ma solo alunni, data la mostruosità di lavoro richiesto  e  l’impegno di esercizio fisico e mentale  proposto.
Neanche poi la lettura di porzioni della mia opera quarantennale sia in cartaceo (libri pubblicati)  che in internet (sito), né le foto del lavoro di muratura  trentennale  e neppure la visione diretta di ogni singolo muro ed elemento murario determinano un cambiamento di opinione ed un ‘umana solidarietà,  con commozione.
Non è credibile per un uomo normale che un uomo abbia detto scritto e  fatto quanto  constatato di persona: la propria autostima cade di fronte al monumento della mia opera e diventa ostacolo alla normale lettura, quasi velo che, aggiunto ad invidia rabbiosa, chiude il rapporto comunicativo.
Per anni mi sono sorpreso  di  non poter trovare persone equilibrate,  decise a verificare e ad accogliere il messaggio sia teorico che pratico ed ho dovuto pensare che l’errore era solo dalla parte di chi comunica, non dal ricevente; mi sono posto sotto accusa ed esame nei primi mesi dello stato di solitudine e quindi sono stato distolto dal procedere nella  metodica salita  verso l’alto, tutto chiuso nella meditazione sulla difficoltà di comunicazione umana.
Perciò, ho ricordato ed esaminato le tante reazioni impulsive di interlocutori, davvero sproporzionate in situazione , dato lo stato confidenziale a volte, considerata l’amicizia altre volte, vista la paritarietà tra insegnanti.
Le reazioni, comunque, di fronte alla mia formulazione teorica e pratica  sono le più pazzesche possibili tanto da ritenerle  non verisimili: da  nervose accuse di volontà di predominio sugli altri a smarrimenti e capogiri di invidia, che si completano con enunciati di sbalordimento con malcelata sfiducia nel lavoro dell’altro, definito saputo e superbo  millantatore; da apostrofi  improvvise “a chi vuoi far credere di aver fatto da solo tutto questo?”,  ad attacchi isterici personali   difronte ad  uno che mostra senza enfasi il lavoro, come produzione di dilettantismo senile!
Ho dovuto registrare, nonostante la  anakoresis  e la stessa degradazione della persona, spesso  volutamente  mostrata come scimunita e pazza, a seguito della personale askesis,  perfino nella mia famiglia,  un’infinita gamma di giudizi: deficiente, stupido, matto, pazzo da legare sono gli epiteti più comuni.
Forse ogni uomo a modo suo si sente divino  e nessun altro, se non se stesso, può capire la divinità del suo essere .