Antonio e i gladiatori
La fides dei Gladiatori
Antonio è un dux generoso, che ricompensa chiunque gli faccia qualcosa, specie i valorosi, ma, dopo Azio, abbandona tutti e tutti lo tradiscono: non gli giovano affatto gli atti di magnanimità e di munificenza.
Un esempio ce lo mostra Plutarco (Antonio,66,7-9), al momento della fuga stessa da Azio, quando è intenzionato a rifugiarsi in Libia e si imbarca su una nave mercantile che trasporta denaro, suppellettili, regali di gran valore in argento e in oro e dà tutto come bene comune agli amici, invitandoli a prendere quelle ricchezze e a salvarsi.
L’ autore aggiunge che, viste le loro lacrime e la non volontà distaccarsi da lui, scrive al suo intendente a Corinto, di nome Teofilo, figlio di Ipparco, che già è diventato amico di Ottaviano, di dare loro sicurezza e di nasconderli in attesa degli eventi.
Plutarco- ibidem,68,1 –dice anche che all’ora decima cessa la battaglia e che lui è già in fuga e che lascia, seguendo Cleopatra e le sue sessanta navi intatte, i suoi soldati a morire che, comunque, seguitano a combattere ancora, mentre le grandi navi sono in fiamme e 5000 sono i morti.
Eppure, secondo Plutarco (Ibidem, 61), aveva non meno di 500 navi da guerra di cui parecchie poliremi a otto e a dieci, adorne in modo superbo e fastoso, un esercito che contava 100.000 fanti e 12-000 cavalieri, che combattevano con lui, ai suoi ordini sono gli alleati Bocco di Libia, Tarcondemo della Cilicia superiore, Filadelfo di Paflagonia, Archelao di Cappadocia, Mitridate di Commagene, Sasala di Tracia … mentre si limitavano a mandare un esercito Polemone dal Ponto, Malco dall’Arabia, Erode di Giudea, Aminta re di Licaonia e di Galazia ed anche un corpo ausiliario era inviato dal re di Media.
Antonio, avendo subito da Cleopatra la volontà di una battaglia navale e autorizzata la sua presenza, data la grandezza della flotta egizia, assecondando i cortigiani sia alessandrini che romani, ne paga le conseguenze disastrose, in quanto la guerra civile non è mai piacevole. I romani poi sono stanchi di tante guerre fratricide: in un periodo di neanche cinquanta anni hanno combattuto fra loro, con Mario e Silla, con Cesare e Pompeo, ed ora con Ottaviano ed Antonio. Quindi, appena conosciuto il vincitore, tutti saltano sul carro del trionfatore.
Antonio fugge, dunque, seguendo Cleopatra, dimostrando, secondo Plutarco (Antonio,66.7) chiaramente di non comportarsi né come capo, né da uomo e di non esser in grado di agire razionalmente, ma –come disse qualcuno, scherzando che l’anima dell’innamorato vive in un corpo altrui- di farsi trascinare da quella donna come se fosse unito a lei e si muovesse con lei.
Lo storico aggiunge: Antonio, appena vide allontanarsi la sua nave, dimentico di tutto, tradendo ed abbandonando coloro che combattevano e morivano per lui, si trasferì su una quinquireme , accompagnato solo dal siro Alexa e da Scellio e seguì colei che già l’aveva rovinato e avrebbe finito di rovinarlo.
La condanna dell’autore è quella di tutti i romani, che non vedono più un dux, ma un uomo passionale, istupidito da una straniera, e che concordi, occidentali ed orientali, ora decidono si seguire Giulio Cesare Ottaviano e la sua propaganda antiegizia, che mette in secondo ordine la sua guerra contro il figlio legittimo di Cesare e marca l’indecenza del comportamento del cognato fedifrago, imperator traditore delle proprie truppe.
In effetti Antonio ha lasciato in Macedonia inattive 19 legioni di fanteria invitte e 12.000 cavalieri ed ha comandato a Canidio (Plutarco, ibidem 67) di ritirarsi in fretta attraverso la Macedonia verso l’Asia.
Antonio, mentre fugge e resta muto a lungo sulla prua della nave diretta in Libia, non ha contatti con nessuno e quindi non riceve dispacci sul comportamento dei re asiatici, che defezionano (i primi sono Deitaro ed Aminta!), a catena (ibidem, 63): non può sapere che tutto il suo assetto orientale è cambiato e che già Ottaviano sta ristrutturando l’area con nuovi ordini.
Nonostante questo, i suoi milites seguitavano a combattere (ibidem 68) e lo rimpiangevano e lo attendevano, convinti che improvvisamente sarebbe riapparso loro da qualche parte e dimostrarono tanta fedeltà e tanto valore che neanche dopo che la sa fuga era resa nota, per sette giorni rimasero uniti senza badare a Cesare, che mandava messaggeri e solo alla fine, dopo che il loro generale Canidio, di notte, se ne andò ed abbandonò il campo, rimasti del tutto soli, traditi dai comandanti, passarono al vincitore.
In effetti P. Canidio lascia il posto di comando, dopo aver obbedito all’ordine di Antonio ma poi, saputa la notizia, notifica ai suoi legati e tribuni la realtà degli eventi, pur avendo iniziato la marcia attraverso la Macedonia verso l’Asia, e senza avvertire le truppe, si allontana e raggiunge il centro operativo di Ottaviano.
L’esercito di Antonio triumviro non esiste più, anche se ci sono sporadici gruppi di combattenti romani antoniani, secondo Cassio Dione (LI,1. 4-5).
Ottaviano raggiunse e sconfisse senza combattere il resto dell’esercito, che si stava dirigendo in Macedonia; altri reparti erano già fuggiti: di essi i soldati romani si recarono presso Antonio, gli alleati che avevano combattuto con lui tornarono alle loro case e non continuarono la guerra contro Ottaviano, ma se ne stettero quieti. Le altre popolazioni che già da tempo erano sotto il dominio di Roma, vennero ad accordi con lui, alcune subito, altre in seguito.
Ottaviano riorganizza la rete dei re dell’Asia, punendo alcuni col detronizzarli ed altri elevandoli al regno imponendo tributi e cambiando costituzione alle città antoniane.
Così scrive Cassio Dione ( ibidem, 2, 1-3): punì tutti i re, eccettuati Aminta ed Archelao, privandoli dei possedimenti che avevano ricevuto da Antonio. Tolse il regno a Filopatore, figlio di Tarcondimoto, a Licomede, re di una parte del Ponto cappadocico e ad Alessandro, fratello di Giamblico – poi fatto uccidere dopo averlo portato a Roma per il trionfo- e diede il suo regno ad un certo Medeio.
Per quanto riguarda i senatori, gli equites e i più ragguardevoli dei romani, molti, in quanto antoniani, furono puniti con l’obbligo di versare somme di denaro, altri furono uccisi, altri risparmiati, tra cui Sossio (Ibidem 4)
In questo clima di defezioni e di tradimenti, ancora di più sorprende la vicenda di uomini considerati la feccia del mondo romano, i gladiatori.
Questi risultano migliori di senatori, duces e re, superiori per affetto perfino ai milites regolari, desiderosi di onorare il munus l’incarico loro dato, risultando gli unici uomini di onore.
Dione Cassio (St.Rom. LI,7) ne parla più di ogni altro storico, compreso Giuseppe Flavio, che ne fa solo cenno con un riferimento ad Erode che aiuta Quinto Didio contro i gladiatori, dando il primo segno del tradimento del re giudaico (Ant. Giud., XV,195).
Il re giudaico filantoniano, contattato da messaggeri di Archelao e convinto da Alexa a tradire Antonio, per presentarsi al dominus assoluto dell ‘impero a Samo, porta le lettere di Quinto Didio, governatore di Siria, che notifica ad Ottaviano l’azione di Erode contro i gladiatori, antoniani.
Avendo sterminato la linea maschile degli asmonei aramaici, la raccomandazione di Didio è per Erode un’ancora ulteriore di salvezza: il re non sa che Ottaviano ha in grande considerazione la sua regalità a causa della necessitas di fare il tragitto tra Ascalona e Pelusio con l’esercito, a primavera, per l’invasione dell’Egitto e quindi ha bisogno di denaro, viveri e di acqua lungo il tragitto dovendo ripetere il percorso di Gabinio e di Antipatro e di Mitridate Pergameno, fautori e soccorritori di Giulio Cesare, impelagato in Alessandria.
Ottaviano, incorporate le truppe di Antonio nel suo esercito, secondo Dione Cassio (Ibidem, 3. 1-4) rimanda in Italia i veterani dell’uno e dell’altro schieramento senza dare alcun compenso e disperde gli altri in varie località.
Temendo disordini e ribellioni da quelli che hanno militato già in Sicilia contro Pompeo, li licenzia o li integra con altri reparti più tranquilli. E per di più avendo sospetti sui liberti, a cui ha imposto tasse eccessive, riduce di un quarto il tributo, in quanto è conscio di tenere in pugno la situazione dei militari perché ha legati e tribuni di sicuro affidamento che tengono ben sottoposti i singoli reparti con la speranza di grosse retribuzioni, dopo la conquista dell’Egitto.
Comunque, i soldati, giunti a Brindisi, congedati si sentono defraudati e sono sdegnati perché non ricevono nessun premio, per cui iniziano tumulti.
Secondo Dione Cassio- ibidem,3. 5-6-, siccome il triumviro diffida dell’auctoritas di Mecenate, un semplice cavaliere, lasciato a Roma a governare la città e il resto d’Italia, invia da Samo Agrippa apparentemente con altro incarico, ma con l’intento di coadiuvare il governatore, dando ad ambedue in ogni questione, grande autorità tanto da leggere loro stessi le lettere inviate al senato e ad altri, prima di inviarle, pronto a fare i cambiamenti che essi volevano.
In relazione alla auctoritas data fa portare loro due anelli con due sigilli, con cui sigillare i decreti e si serve di un codice segreto per la comunicazione- Ibidem 7-.
Il suo ritorno in Italia è in relazione a Marco Crasso, un ex sostenitore di Sesto Pompeo e poi di Antonio, la cui azione, da console, è da contrastare maggiormente, dato il malcontento militare, potendo risultare un pericolo, dato il valore dell’uomo .
Per Cassio Dione ( ibidem, 4.4-7): quando il senato ebbe notizia del suo viaggio verso l’Italia, gli corse incontro la completo, eccettuati i tribuni e due pretori che ebbero l’ordine di restare in città. Gli andarono incontro anche i cavalieri, la maggior parte del popolo e vari cittadini, alcuni in qualità di delegati delle loro città ed altri di propria iniziativa. Di fronte all’arrivo di Ottaviano e alle manifestazioni di affetto da parte di tanta gente non ci fu nessun tentativo di rivolta. Vennero a Brindisi anche i veterani, alcuni spinti dalla paura, altri dalla speranza di guadagni, altri perché erano stati convocati. Ad alcuni di loro Ottaviano diede del denaro; a quelli, che avevano combattuto con lui in tutte le campagne militari, distribuì anche della terra. Dai paesi italici, che avevano parteggiato per Antonio, portò via i cittadini e diede le loro città e i loro poderi ai soldati, trasferì a Durazzo o a Filippi la maggior parte di quelle persone, alle altre distribuì o promise di distribuire denaro in cambio dei poderi perduti.
Lo storico da una parte mostra l’omaggio dell’Italia e di Roma al vincitore e da un’altra evidenzia la sagacia nummularia di Ottaviano, abile argentarius, che promette di pagare a guerra ultimata, col tesoro egizio, dando in pegno i suoi stessi beni, pur di acquietare i milites.
Ottaviano sistema questi ed altri affari urgenti, fa l’amnistia anche per chi non è andato a riverirlo a Brindisi e riparte per la Grecia per svernare a Samo, secondo alcuni dopo 27 giorni, per Dione Cassio invece dopo 30 giorni.
In una situazione non ancora del tutto definita, in un momento di declino delle speranze degli antoniani e di euforia degli ottavianei, lo storico nota con stupore che mentre molti, senatori, re, capi, cavalieri e cittadini, pur avendo avuto notevoli benefici da Antonio e Cleopatra, li abbandonano, alcuni gladiatori invece, gente del tutto disprezzata, mostrano verso di loro un fortissimo attaccamento e si battono con grande valore, andando contro quei re che per oltre un decennio hanno acclamato Antonio.
Lo storico vuole mostrare l‘ingratitudine dei grandi nobili rispetto alla fides e alla gratitudine di gente ritenuta abietta: segue perciò ammirato la vicenda di un gruppo di gladiatori che, essendo a Cizico e formando un reparto speciale chiamato Iuliano, perché costituito da Cesare stesso, poco prima della battaglia di Farsalo, con la funzione di addestratori delle reclute dei reparti asiatici, decide di rimanere fedele ad Antonio e Cleopatra e di raggiungerli in Egitto.
Sarebbe stata una passeggiata, come una esercitazione acclamata di una pattuglia di milites acrobatici prima di Azio, ma dopo Azio, con tutte le defezioni dei re, la loro operazione diventa un’impresa proibita impossibile pazzesca: non era più proponibile, né razionale passare attraverso tutta l’Asia, la Siria, la Giudea e poi fare la traversata desertica, prima di arrivare al confine Egizio!
Questi uomini hanno seguito Antonio dopo Filippi e per un decennio sono stati trattati come attrazione militare per le città dove venivano chiamati ad esibirsi con l’autorizzazione non solo del triumviro ma anche dei re locali!
Ora, dunque, sono decisi a fare un’impresa temeraria partendo da Cizico, città della Frigia minore nella Propontide, aprendosi la strada tra tanti nemici per portare aiuto ad Antonio che li ha costituiti come corpo speciale e pagati anticipatamente per le gare alessandrine per il Trionfo su Ottaviano!
Secondo Cassio Dione- Ibidem, 7.3 –: essi si stavano esercitando a Cizico in vista dei giochi che Antonio e Cleopatra contavano di far svolgere in onore della loro vittoria su Ottaviano.
Dunque, Antonio ha pagato la commissione al loro capo lanista, che di solito è figura bieca, un caporale forzuto, – che si vende al maggiore offerente,- il gestore di un ludus scuola per gladiatori che per il munus deve presentarsi al suo datore di lavoro.
Il lanista dipende però da un editor o munerarius che ha il compito di allestire la truppa e prepararla a fare le competizioni là dove è richiesta la presenza.
Era un corpo speciale quello Iuliano, che non doveva essere inferiore ai duecento uomini, ben addestrati a seconda dell’uso delle armi e della specializzazione individuale, in cui ogni membro si esercitava giornalmente in continui allenamenti, in un’area abbastanza vasta, messa a disposizione dall’autorità locale!
Il munerarius è responsabile non solo del comportamento dei gladiatori professionisti ma anche del loro vestiario, della loro dieta, della loro salute, dei loro servi, delle camere da letto, e dei carri di trasporto, dei muli, dei tanti schiavi che fanno servizio, compresi i medici, per la communitas gladiatoria.
Essi, dovendo fare la spedizione, marciano a seconda della denominazione specialistica e formano cinquantine coi loro distintivi di Traci, Retiarii, Mirmilloni e Secutores, procedendo in formazione quadrata, protetti forse da arcieri e funditores oltre che da un qualche cavaliere, che nel corso dell’impresa si aggiungono per solidarietà e per amicizia al loro piccolo esercito di disperati.
Dunque, questo gruppo di gladiatori con il lanista e con l’editor è fedele ad Antonio, cui ha dato la propria fides e la mantiene anche dopo Azio.
La notizia della sconfitta ad Azio invece modifica l’assetto delle province secondo i voleri di Ottaviano che cambia anche i vertici provinciali e ii perfino i re come già abbiamo detto.
Perciò il corpuscolo di gladiatori s’imbatte prima con i re della zona e poi col nuovo epitropos di Siria Quinto Didio e con Erode e le truppe giudaiche e nabatee.
Tutta l’impresa è seguita da Cassio Dione che dice: appena furono informati di quanto era avvenuto, corsero verso l’Egitto in loro aiuto. Si batterono gagliardamente contro Aminta in Galazia, contro i figli di Tarcodimoto in Cilicia, un tempo amici di Antonio e Cleopatra, ed ora per la presente situazione passati alla parte opposta e contro Didio che impediva loro il passaggio.
La durata dell’impresa dovrebbe essere tra la fine di settembre e gli inizi di dicembre: la sua conclusione dovrebbe essere avvenuta nella zona sotto il controllo di Erode e di Malco, se Flavio dice dell’ aiuto dato da Erode al governatore di Siria.
E’ un Erode che ha già incontrato Ottaviano tramite emissari per legatos, (non certamente di persona!) a Samo, e che ha avuto garanzie di poter seguitare a regnare e che ha promesso per la primavera, la sua assistenza con mezzi e con viveri- acqua compresa- e la sua partecipazione alla spedizione contro l’Egitto!
Cassio Dione informa che i gladiatori, però, non riescono ad arrivare in Egitto perché circondati da ogni parte, non vollero accettare, neppure in quella difficile circostanza, alcuna proposta di resa, quantunque Didio avesse fatto molte promesse e mandarono a chiamare Antonio, convinti che ai suoi ordini avrebbero combattuto meglio.
E’ chiaro che essi credono ancora Antonio comandante di truppe se non in Siria in Africa, mentre il triumviro tradito da tutti ora è relegato in Egitto.
Cassio Dione -Ibidem- allora aggiunge: Dato che Antonio non era accorso di persona e che non aveva inviato nessun messaggio, pensarono che fosse morto e perciò, a malincuore, vennero ad un accordo, a condizione di non fare più i gladiatori.
Ottennero da Didio il permesso di abitare a Dafne, un sobborgo di Antiochia nell’attesa che Ottaviano fosse informato di quanto avvenuto.
Probabilmente si è nel periodo in cui Ottaviano è in Italia, ma appena è tornato in Grecia e sta a Samo, è informato della fine dell’impresa dei gladiatori, quando già ha ordinato di far passare la flotta nello stretto di Corinto trasportando, smontando e rimontando le navi da un porto all’ altro della città.
Cassio Dione infine rileva la loro fine mostrando come Valerio Messalla Corvino, amico di Erode, un altro ex antoniano ,separi i gladiatori, smembrando il corpo, disperdendo gli uomini in varie regioni, in reparti dove non è facile aggregarsi.
Così lo storico dice (Ibidem, 7)…ingannati da Messalla furono dispersi chi qua e chi là, col pretesto di arruolarli nelle legioni e furono eliminati nel modo che sembrò più opportuno.
Messalla è un amico di Antipatro, suo padre, un membro dell’antica gens Valeria, repubblicano, combattente con Bruto e Cassio a Filippi, poi presentatore di Erode al senato nel 40, passato poi dalla parte di Antonio, infine entrato nelle file di Ottaviano grazie a questa operazione contro i gladiatori, combinata col re giudaico: Messalla è console nel 31 e combatte ad Azio contro Antonio, meritando il comando di una missione in Asia Minore e l’ incarico di una spedizione nelle Gallie nel 30 a.C..
Qui probabilmente Messalla, avendo portato con sé alcuni gladiatori, nel corso della soppressione della rivolta degli Aquitani nel 28 a.C. – celebra perfino un trionfo nel 27!- fa scomparire uno alla volta, mandandoli a morire contro i nemici in imprese disperate.
Da Tacito si sa che nominato praefectus urbi nel 26 a.C Messalla rinuncia alla carica dopo pochi giorni, adducendo strane motivazioni, legate alla sua incapacità di esercitare l’incarico.
Da quel momento non compare più in pubblico se non nel 2 a.C., quando come princeps senatus, come esponente dell’aristocrazia romana, avanza la proposta dell’attribuzione a Ottaviano del titolo di pater patriae.
In questo venticinquennio circa si dedica alle lettere e alle arti e raggruppa intorno a sé letterati che formano un cenacolo chiamato dal suo nome ed alcuni, come Tibullo, celebrano anche le sue imprese militari con un’ elegia e con un poemetto, altri lodano le sue amicizie con Orazio ed Ovidio.
La letteratura, cortigiana ed oziosa, ora suddita, non lascia traccia della soppressione subdola e infida di uomini che fino alla fine sono leali col loro dux, seppure sconfitto, dando un esempio di fides agli aristocratici, che suona come schiaffo plebeo alla nobiltà romana, sempre in vendita!
La storia tragica di un eroismo anonimo diventa leggenda, che copre perfino la pietas dovuta alla fides di sfortunati, veri uomini d’onore.