La mia ricerca di quasi 50 anni potrà avere qualche valore se ci saranno persone desiderose di studiarmi e di fare un lavoro serio – dividendolo in tante parti, vista la mia poliedrica cultura -, sulle mie traduzioni, specie su quelle greche e sulla mia ricostruzione storica romano-ellenistica, visibile in modo speciale in Il giudaismo romano I e II e in un’infinità di articoli che avrebbero dovuto formare il III volume.
Nella mia mente, vista la deficienza popolare e la mentalità del cristiano cattolico, coi decenni, maturava l’idea unitaria sulla figura di Gesù storico, mentre mi allontanavo da impostazioni pur serie, ma solo razionalistiche come quella di Reimarus e di Voltaire o impropriamente storiche come quella di Ernest Renan o di Charles Guignebert. Mi avvicinavo, allora, ad altri contesti culturali o facevo viaggi, mirati in Turchia, in Giordania o in Egitto o in Grecia, subendo il fascino della lettura di stampo protestantico o ortodossa.
Mi persuadevo, comunque, di essere storicamente ben impostato, solo dopo aver rilevato una guerra di quasi duecento anni tra Roma e il giudaismo.
Lo studio, letterario e culturale, comparato con quello di altri che operavano su questo fronte (come Rudolf Bultman e come Samuel Brandon e Martin Hengel), fatto sulle fonti, da me tradotte con certosina pazienza, dopo aver lavorato sui codici, mai sicuro della traduzione altrui, mi autorizzava a vedere la Iudaea come una polveriera in continua esplosione, come un cancro per la Romanitas.
Roma era un Kosmos con armonia, uno stato universale di 3.300.000 km2 retto da un imperatore, che governava, come erede da una parte, d’una politeia perfetta, che metteva insieme popolo e senato e consules e che, in emergenza, aveva il dictator – che conciliava le due opposte fazioni popolari e patrizie con un imperium proconsulare maius infinitum e con la tribunicia potestas – e, da un’altra, come theos, che aveva assorbito le connotazioni regali della basileia orientale, funzionante da quasi tre secoli con la ektheosis regale e con il nomos empsuchos/legge vivente.
Roma stava facendo di tanti popoli un solo popolo con un’amministrazione ancora lacunosa, ma rispettosa delle singole gentes, delle loro autonomie e delle culture e religioni locali, che lentamente si integravano nel Kosmos imperiale, che pur aveva distrutto i loro eserciti e fatto stragi al momento della conquista.
Refrattaria ad ogni invito alla moderazione e alla partecipazione alla koinonia con Roma, era la popolazione della Iudaea, fortemente antiromana ed antiellenistica, in opposizione perfino col sommo sacerdozio sadduceo filoromano, già da decenni ellenizzato, che deteneva il potere del Tempio, a Gerusalemme , col suo gazophulakion…
Dal 63 a.C., quando Pompeo entrò nel Sancta Santorum, a cavallo, profanando il Tempio di Gerusalemme l’etnia ebraica aramaica rimaneva ostinatamente in guerra con la romanitas, anche se variamente rappresentata, ma vigile sul tempio con la guarnigione militare della fortezza Antonia.
Gli interventi romani, inizialmente non invasivi, ma solo mirati a guidare il debole Hircano contro il fratello Aristobulo, integralista e filopartico come tutta la sua famiglia e il suo stesso popolo agricolo e piccolo sacerdotale, a cui faceva mantenere la ierosune, protetta militarmente da Antipatro, un filoromano cesariano.
Poi Roma interveniva pesantemente, vista la congiunzione con i Parthi all‘epoca di Pacoro che, dando il regnum ad Antigono e invadendo Siria e Palestina, raggiungeva perfino il Mare Nostrum, nel momento della lotta tra i triumviri Antonio, Ottaviano e Lepido.
Arginata l’invasione partica da Antonio, responsabile del settore orientale, grazie al Legatus Ventidio Basso, vittorioso a Gindaro, dato il regnum ad Erode nel 38 a.C., Roma assicurava alla regione stabilità e pace con un’organizzazione diretta da Augusto e da suo genero Marco Vipsanio Agrippa, coadiuvato per il settore orientale dal re giudeo, nominato Surias epitropos.
Erode, figlio di Antipatro, con una politica lungimirante, tesa a staccare il suo popolo dall’orbita parthica e ad ellenizzarlo, meritava davvero il titolo di grande re fino alla morte del suo amico Vipsanio Agrippa nel 12 a.C., ma, poi, per molte ragioni perdeva auctoritas e potestas e tra i romani e tra il suo popolo, invischiato in congiure di famiglia e ormai debilitato dalla malattia e dalla precoce vecchiaia.
Eppure per oltre un venticinquennio aveva assicurato pax al suo popolo, stabilità internazionale e sicurezza interna e un buon rapporto tra gli aramaici ciseufrasici e transeufrasici, dando un rilievo al sacerdozio e al tempio, nonostante le accuse di uomo di menzogna e di philéllen, a lui dato dagli esseni.
Davvero un grande re Erode, l’unico capace di tenere un genos fanatico della propria elezione divina e del suo patto eterno col suo unico Dio e padrone, pur quotidianamente offeso dall’invasore romano, pur dilacerato nel suo interno tra una pars aramaica mesopotamica integralista ed una pars progressista, aperta ad ogni novitas ed abile a sfruttare la koinonia universale romana.
Erode un politico eccezionale, terzo uomo dell’impero, quale epitropos orientale, gestore dei rapporti con l’impero Parthico, methorios tra Roma e Ctesifonte, amico di Augusto e di Vipsanio Agrippa!
Dopo la pausa erodiana, ricominciavano le staseis, rivolte giudaiche aramaiche contro i figli di Erode e contro il sacerdozio sadduceo, in nome di una antiromanità, fomentata dai re di Parthia, specie in epoca tiberiana, da Artabano III.
Non esisteva in terra palestinese un vero filoromano: neanche il sacerdozio sadduceo, che subiva infidamente la dominazione, sacrificando a Dio per l’imperatore e per i romani; neppure gli erodiani, che politicamente rappresentavano Roma, ma dovevano fare per necessità una politica filopartica, data la fratellanza di sangue, lingua e religione: un mondo totalmente antiromano con molte sfaccettature e differenze, in contrasto fra le diverse fazioni, viveva in un territorio, di poco più grande di Marche ed Abruzzo, ribollente per le tante sette aireseis, pervase dalla cultura aramaica mesopotamica ed iranica!
Un mondo totalmente diverso e molto più numeroso era invece quello della diaspora, che era stata una dispersione del seme giudaico a seguito di un ‘apoikia colonizzazione ebraica del bacino del Mediterraneo, data la supremazia del commercio giudaico e considerata la ricchezza bancaria e commerciale dei trapeziti e naucleroi di origine ebraica: il fenomeno si era diffuso da Alessandria grazie alla famiglia degli oniadi, discendenti da Onia IV, figlio di Onia III, legittimo sommo pontefice rifugiatosi dopo la morte del padre, presso i lagidi, dai quali ebbe la possibilità di erigere perfino un tempio a Leontopoli.
La diffusione del sistema oniade, commerciale, favorito dai lagidi prima e poi dai romani, specie da Cesare ed Augusto, diventava capillare in epoca tiberiana e caligoliana, quasi una catena di S. Antonio, una ragnatela giudaica con un suo politeuma, costituzione politica propria, protetta con trattati dall’ autorità locale. Ogni porto e ogni città piccola o grande erano pieni di ebrei che avevano una loro sinagoga, una banca, empori e dominavano la zona portuale, reclutando marinai, allestendo flotte che operavano quotidianamente, dovunque, toccando ogni regione sotto il controllo dell’impero romano. Le rotte, però, andavano anche oltre i confini dell’impero romano, lungo le due vie nilotiche -in quanto avevano buone relazioni con il regno dei Parthi e con quello maurya, grazie a trattati commerciali-, quella pelusiaca e quella canopica.
La prima partendo da Clisma (Ismaelia), toccava le località del Mar Rosso fino al Corno d’Africa, costeggiava l’Arabia ed arrivava a Baricaza in India e da lì volgeva verso Ceylon e verso i porti della Indonesia. La seconda arrivava da Kanopos al centro dell’Africa…
I giudei, mediante il sistema della Tzedaqah, la caritas, intesa come atto di giustizia di un fratello per il confratello, a cui secondo legge spettava la metà dell’oikos paterno, si propagavano nell’ecumene grazie al proselitismo.
Erano una popolazione di commercianti, di proprietari di emporia, di banche (trapezai ), di venditori all’ ingrosso e al minuto, naukleroi, dominanti ogni porto di ogni parte del mondo grazie al sistema bancario che permetteva trasferimenti di capitali, depositi, e pagamento dilazionato tramite carte di credito, e che autorizzava un esercito di funzionari, di intermediari, di cambiavalute, di agenti addetti ai passaggi di patrimoni, finanziatori attivi in ogni corte che occupavano anche i posti più rilevanti dell’amministrazione civile cittadina in ogni parte dell’ecumene.
Gli ellenisti formavano un gruppo di oltre 2.500.000 di giudei scismatici che riconoscevano come loro capo l’etnarca di Alessandria di solito anche sommo sacerdote di Leontopoli , chiamato col titolo alabarca , di norma della famiglia oniade.
Questi formavano l’élite mondiale nell’impero romano ed erano i magnati dell’epoca che avevano surclassato i banchieri greci e latini ed erano epitropoi e dioichetai, rappresentanti perfino dell’imperatore in quanto amministratori del fisco imperiale e del patrimonio personale di Antonia minor, moglie di Druso maggiore, fratello di Tiberio, madre di Germanico e nonna di Caligola.
Gli ellenisti, comunque mandavano la loro doppia dracma al tempio di Gerusalemme ed in città avevano banche, alberghi, cimiteri, csenodocheia alberghi ,sinagoghe anche se non parlavano più l’aramaico ed erano scismatici rispetto ai confratelli aramaici che li odiavano e che facevano attentati contro di loro, durante le feste.
Dunque, il giudaismo palestinese aramaico, essendo filoparthico aspirava a ricongiungersi con quello dell’impero Parthico, come al tempo di Antigono, fatto uccidere da Antonio ad Antiochia come uno schiavo, dopo fustigazione.
Il mondo ebraico ellenistico, invece, procedeva di pari passo con l’impero romano e, nell’ ultimo settantennio, aveva decuplicato il suo patrimonio.
Augusto stesso, nel 6 d.C. dopo l’esautorazione di Archelao aveva pianificato l’organizzazione statale con una costituzione specifica per la Nuova provincia di Iudaea, ben conoscendo la doppia natura del giudaismo, le tante sette giudaiche, le attese messianiche, il territorio regionale choora, a seguito delle tante relazioni dei procuratori, d’ordine equestre o libertino.
Dopo una prima sistemazione, a seguito di una stasis rivolta, repressa ferocemente, veniva stabilita per la Ioudaea (Idumea, Giudea e Samaria), sottoposta ad apotimesis dopo apographè, cioè a censimento e pagamento di tasse patrimoniali e personali, una costituzione di sottoprefettura dipendente dalla prefettura di Siria, che durò per un trentennio mentre veniva controllata e regolata dall’ autorità prefettizia romana la successione al sommo sacerdozio.
Questo periodo trentennale è il più inquieto e movimentato della storia giudaica (toledot) specie quello sotto la prefettura di Ponzio Pilato,(26-36), inviato da Elio Seiano, il potente pretoriano, ministro infedele di Tiberio, fatto dall’ imperatore uccidere il 18 ottobre del 31 d.C. (Cfr. A FILIPPONI,Caligola il Sublime, Cattedrale 2009).
La sua politica antigiudaica, poco conosciuta, se non da Filone, acuiva gli animi portandoli alla rivolta, favorita anche dall’assenteismo di Tiberio che, impegnato a scovare i nemici del suo regno, uomini dell’ ex suo ministro, inseriti nella burocrazia amministrativa romana, italica e provinciale, si disinteressava del governo della Siria e della Iudaea.
Questa, in epoca Tiberiana, pur avendo un territorio di quasi 25000km2 , pur essendo un centotrentaduesimo dell’impero romano era in un’ aperta guerra con Roma perché non riconosceva di dovere di santificare, di sacrificare all’ autocrator Theos e di riconoscere come signore l’imperatore, un mortale: il giudeo proclamava due volte al giorno di avere un solo signore immortale, Dio (e non un mortale)!
I giudei aramaici erano solo 600.000 uomini, uomini irriducibili , combattenti contro 60.000.000, di cives, romani, che avevano fisse, ai confini, in Siria, stabilmente 4 legioni lungo l’Eufrate, una Legione in Iudaea, a Cesarea Marittima, oltre alle guarnigioni di Cafarnao e dell’Antonia e a reparti di cavalleria stanziati in varie stazioni in Samaria, coadiuvati da sebasteni e dalle milizie di Erode Antipa (tetrarca di Galilea e Perea ) e di Filippo (tetrarca di Iturea, Gaulanitide, Auranitide e Traconitide).
Essi erano guerriglieri che facevano una guerriglia urbana, montana e desertica, dopo un periodo di indottrinamento religioso in senso penitenziale e catecumenale e un altro di addestramento militare come zelota ( e poi come Sicario). Nessun romano- neppure il governatore, – aveva tranquillità di vita in Iudaea, nessun sadduceo o ellenista era al sicuro da rapimenti, sequestri, attentati, cattura di servi, latrocini entro la propria casa; neppure un erodiano, non solo i privati, ma anche i due tetrarchi entro le loro corti: tutti, governatori, tetrarchi, etnarchi, toparchi, sommi sacerdoti erano condannati a morte dagli esseni, da hasidim, uomini pii, la cui parola era divina, logion, a cui non si poteva non obbedire.
In sintesi questa è la mia risultanza, derivata dalla traduzione accurata di fonti (non solo greca) sulla base di Filone (Opera omnia) e di Flavio (Antichità giudaiche e Bios), della situazione Giudaica durante la vita di Gesù Cristo, un giudeo di Galilea cioè di un uomo, sottoposto per nascita all’ impero romano, direttamente, ma per residenza suddito di Erode Antipa, un filoromano (Cfr A.F., Jehoshua o Jesous?, Maroni 2003).
Può, dunque, in un tale situazione vivere un giudeo che predica di amare il nemico e di dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare ?: un partigiano antiromano non predica, ma uccide, anche proditoriamente: sono altri che predicano, che sono istruiti, che sono profeti, che sono rabbi ed, avendo potere, giudicano e condannano a morte, e il loro anathema maledizione è subito eseguito dalla mano armata zelotica.
Gesù, dunque, è visto non come Dio, ma come uomo di lingua aramaica, giudeo di Galilea , che vive nella realtà storica del suo tempo, svolgendo la professione di Qayin/Kayin, seguendo il padre Giuseppe, un costruttore. Cfr. Premessa a Ma Gesù chi veramente sei stato? E book Narcissus 2013 e cfr. I terapeuti De vita contemplativa E book Narcissus 2015 cfr. Esseni Quod omnis Probus.
I qeniti erano davididi che costruivano, famosi perché vivevano in cooperative, a gruppi, là dove un sovrano richiedeva la loro opera che durava mesi (esempio Filippo per la costruzione di Betsaida , Erode Antipa per quella di Tiberiade) o dove ricchi ebrei costruivano ville per conto proprio o sinagoga per conto della comunità, specie ad Alessandria. Non potevano essere meno di 11 (e tra questi c’erano un macellaio per il cibo casher e un cohen per il canto dei salmi) ed oscillavano per numero: potevano formare squadre da 50, 100, 1000 a seconda della grandezza del lavoro, fino a 18.000 tectones che costruivano il tempio di Gerusalemme, finito solo al 66 d. C. e, che, rimasti inattivi, chiedevano lavoro ad Erode Agrippa II, che fu costretto a concederlo, altrimenti potevano scoppiare rivolte. Lo stesso Pilato si servì dei qeniti, pagandoli con i soldi del tempio per costruire un acquedotto.
Gesù doveva essere un capo e quindi un benestante come tutti i qeniti, una categoria, considerata intermedia tra i sommi sacerdoti e il medio sacerdozio, con un tenore di vita di molto superiore a quello dei leviti e del popolo.
Il mestiere non escludeva una formazione zelotica, naturale per ogni giudeo che, quindi, subiva una vera dipendenza dal pensiero dei Farisei, Esseni e dei Contemplativi alessandrini.
Zelotes greco traduceva kanah aramaico ed indicava un patriota guerrigliero che combatteva e moriva per gli ideali della legge mosaica, essendo un puro integralista, votato alla morte. Cfr. Vita di Mosé III,208. Ciascuno di voi, presa una spada, corra per tutto l’accampamento ed uccida, da ogni parte, non solo gli estranei ma anche i più vicini tra gli amici e parenti, pensando che è azione molto ben fatta, in nome della verità e in onore di Dio, per la cui difesa il lottare e il combattere è fatica molto leggera.
Conoscendo bene la storia ed avendo passato giorni e notti per la decifrazione esatta di autori come Filone e Flavio, non mi sono mai potuto immaginare in Palestina una figura di un personaggio pacifico, mite, moderato, come quella astorica del Gesù dei Vangeli, non corrispondente neanche all’ideale prototipo di esseno comunitario qumranico e neppure al più puro dei terapeuti alessandrini.
Perciò, ho rilevato le caratteristiche reali di un Giudeo galilaico dell’epoca tiberiana come un barbaro, aramaico, integralista, kayin e kanah, che fu acclamato come mashiah dai suoi contribuli. che l’ elessero Maran re, in opposizione a Roma che sola poteva dare quel titolo, perché padrona di quel territorio.
Dunque, Gesù fu crocifisso perché aveva commesso il crimen maiestatis nei confronti di Tiberio e del Senato,i soli che potevano autorizzare il Regnum in Palestina.
Il crimen, collegato all’intitolatura regale in triplice lingua, scritta sulla croce stessa , è spiegato dalla motivazione della morte servile di un ribelle all’imperium: Gesù era uno delle decine di migliaia di crocifissi ad opera dei romani.
Un uomo di tal specie, dunque, non poteva essere un rabbi.
Si diventava rabbi dopo un lungo esercizio psico-fisico e un percorso di studi lungo e serio, in cui si dimostrava la somma capacità di fare ermeneusis dià sumboloon, dopo aver fatto gli studi enciclici (grammatica, geometria, astronomia, retorica, musica, logica) e filosofici, al fine di essere theologos.
Un lunghissimo tempo di studi che si completava non prima dei trenta tre anni: c’erano molte tappe intermedie come quella della verifica dello studio elementare, fatta al tempio, quando il giudeo, ragazzo, raggiungeva tredici anni ed un giorno, da una commissione sacerdotale, che lo definiva figlio del comandamento bar mitzvah , o come quella che chiudeva il ciclo di studi superiori fino a 18 anni fatta sempre davanti ad una commissione sacerdotale, e come quella del ritorno a casa dopo una fase di addestramento nel deserto, presso maestri, per la scelta tra le sette (aireseis) e per l’universale riconoscimento di dottore /scriba.
Di Gesù non si conoscono maestri (Flavio ha Banno, Shaul Gamaliel, ecc.), e si conosce solo una verifica al tempio quella del passaggio alla maturità per la preghiera –Bar Mitzvah – e poi più nulla circa la formazione culturale.
Perciò si può definirlo un teknites o tekton, una specie di operaio, forse specializzato in quanto capo mastro, o architetto, ma sempre un normale qenita di formazione operaia regolare, per un giudeo vivente in Galilea, che, comunque, non ha nemmeno completato gli studi enciclici.
Detto in greco era un banausos, un oikodomos, un muratore –costruttore che sapeva usare ogni mezzo del mestiere.
Su Gesù maran ho dovuto lavorare per decenni per definire esattamente il periodo del suo regno e qualcosa di preciso sono riuscito a determinarlo, dopo la scoperta di un buco storico (cfr. Buco storico www.angelofilipponi.com).
Allo stato attuale queste sono le risultanze.
Alla Pasqua del 32 Gesù ebbe il Malkuth ha shamaim, il regno dei Cieli, come parte della federazione partica, forse solo la Giudea (una parte della Iudaea) sotto il re dei re Artabano III, da cui aveva avuto la corona regale col titolo di maran, ma già era stato riconosciuto universalmente sia in Partia che in Palestina e in Siria Meshiah/Christos, unto del Signore .
Tale regno ebbe una sua nazionalistica autonomia per un quinquennio e su di esso regnò il Maran Mashiah Gesù Cristo che accettò parzialmente la resa delle città galilaiche, samaritane e giudaiche, occupò la Città Santa, prese la guarnigione romana dell’Antonia, purificò il tempio, affidandolo per metà al sacerdozio sadduceo, che funzionava con un calendario lunare, e per metà al sacerdozio essenico, che seguiva il calendario solare.
A seguito dei trattati con il Re di re Artabano, con Areta IV re dei Nabatei e con Izate re di Adiabene (e forse con Asineo satrapo di Mesopotamia), il regno forse si ampliò con la conquista di Samaria e della Galilea ed ebbe una sua stabilità, finché perdurò il disinteresse romano per la Siria e per l ‘Armenia minor, occupate da Artabano III.
Il regno ebbe vita fino all’arrivo di legatus tiberiano Lucio Vitellio, inviato nel 35 d.C., col mandato di ripristinare l’ordine in Siria, e di punire Artabano ed Areta.
Il governatore di Siria si disinteressò del regno di Gesù, convinto di dover affrontare per primo Artabano, suo principale antagonista, sovvertitore dell’area, che, predicando il messianismo aveva congiunto il giudaismo ed aveva potuto perseguire i suoi disegni politici di riconquista della Siria ed avere uno sbocco sul Mediterraneo, progetto da decenni accarezzato dagli Arsacidi, naturali eredi dell‘impero seleucide ed achemenide.
Radunate le sue forze, rimaste a lungo inoperose, fatta una nuova leva, congiunte le 8 legioni romane, avute le truppe ausiliarie dai re limitrofi consociati con l’impero romano, Vitellio attuò i piani di invasione secondo la progettazione di Giulio Cesare, aggiornata da, Augusto e Tiberio stesso , che aveva avuto rapporti diplomatici con i re delle popolazioni caucasiche, Albani ed Iberi, ed altre genti scitiche.
L’invasione iniziava dal nord, dalla zona di Ninive (tra Mosul ed Arbil) ed era fatta dalle popolazioni caucasiche, seguite dalle legioni romane ed ausiliarie, che penetrate nel territorio partico, furono affrontate dal figlio di Artabano, Arsace, erede al trono, con un imponente esercito di 100.000 e con squadroni di cavalleria catafratta.
Artabano fu sconfitto e il figlio morì in combattimento: il re dei re chiese la pace e fece un trattato a Zeugma, un isolotto dell’Eufrate (cfr AFILIPPONI. Giudaismo romano II, Narcissus, 2012)
Il trattato fu stipulato ed Artabano, alla presenza di notabili ebraici come il tetrarca Erode Antipa, s’impegnò a pagare le spese di guerre, diede ostaggi (il figlio Dario e un gigante ebraico di nome Lazar) riconsegnò l’Armenia minor e altre terre ai romani.
L’impresa partica determinò la fine della coalizione antiromana di Izate, di Areta, di Asineo e di Gesù stesso.
Ognuno di questi dovette difendere i propri confini e rendere conto personalmente della guerra perduta contro l’ imperium romano ai propri popoli, ora maggiormente tassati: il più odiato da Tiberio è Areta IV ,di cui l’imperatore chiese espressamente la testa.
Mentre l’esercito avanzava contro Areta, in direzione di Petra, Vitellio deviò verso Gerusalemme e la cinse di assedio intimando o la consegna del maran, di chi cioè era stato fatto re senza autorizzazione romana, o la distruzione della città.
In Gerusalemme il partito filoromano-consapevole degli eccidi successivi la capitolazione della città sperimentati già due volte- riprese il sopravvento e il nuovo sinedrio decise la resa, l’arresto del Christos , la paradosis consegna ufficiale del Meshiah , che venne fustigato e crocifisso come un ribelle all’imperatore Tiberio.
La Pasqua fu celebrata da una folla festante,come una liberazione, alla presenza dei romani vincitori e dello stesso Vitellio nel 36 d.C. (cfr. Giudaismo romano II e commento Antichità Giudaiche XVIII,95-105). Su Gesù Christos Messia rimando a Jehoshua o Jesous? e alle connotazioni proprie di tale figura militare e sacerdotale rilevate in molti momenti del mio lavoro su Filone (Vita di Mosé , De somniis ecc) e su Flavio ( Antichità giudaiche, XVIII).
Dunque, penso di aver illustrato, seppure sommariamente, il mio pensiero reale su Gesù storico e di aver fatto una qualche luce per un laico.
1.Molti laici contemporanei fanno ragionamenti del tipo di Voltaire, che in Dizionario Filosofico (Scritti Politici, Utet 1976 pp.664-665) così esprimeva i suoi dubbi circa l’assenza di notizie sulla vita umana di Gesù da parte di Giuseppe Flavio e di suo padre, Mattatia, ambedue di ordine sacerdotale e parenti della famiglia di Erode il Grande:
Molti studiosi si mostrano sorpresi per il fatto di non trovare nello storico Giuseppe alcun cenno di Gesù Cristo; tutti gli specialisti infatti sono d’accordo oggi che il breve passaggio in cui se ne fa cenno nella sua Storia è interpolato. Eppure il padre di Flavio Giuseppe avrebbe dovuto essere uno dei testimoni di tutti i miracoli di Gesù. Giuseppe era di schiatta sacerdotale, parente della regina Marianna, moglie d’Erode…
Noi con le traduzioni del XVIII libro di Antichità giudaiche (in cui è il testimonium flavianum), e di opere di Filone di Alessandria abbiamo fugato molti dubbi e ricostruito un tuzioristico contesto con la storia del Christos.
2.Voltaire (Ibidem) aggiungeva:
egli/Flavio si diffonde in particolare sulle azioni di questo principe /Erode, tuttavia non dice una parola né della vita né della morte di Gesù; questo storico che non nasconde alcuna delle crudeltà d’Erode, non parla affatto del massacro di tutti i fanciulli, da lui ordinato, quando apprese che era nato un re dei giudei… Non parla affatto della nuova stella che sarebbe comparsa in Oriente dopo la nascita del Salvatore; fenomeno meraviglioso, che non sarebbe dovuto sfuggire a uno storico così illuminato com’era Giuseppe. Non una parola, inoltre, sulle tenebre che avrebbero coperto tutta la terra in pieno mezzogiorno e per tre ore alla morte del Salvatore; sulla gran quantità di tombe che si sarebbero scoperchiate in quell’istante e sui giusti che sarebbero risuscitati…
I problemi di Voltaire per noi non sono più tali, dopo che abbiamo pubblicato Jehoshua o Iesous?, Ma, Gesù chi veramente sei stato?, Per una conoscenza del Primo cristianesimo, Giudaismo romano I e II, operando storicamente sui fatti nascosti dallo storico Giudaico e sul paradocson miracoloso in epoca romano-ellenistica.
3.Voltaire seguitava nella sua indagine e diceva (Ibidem) :
A poco a poco si formarono molte chiese e la separazione fra giudei e cristiani si venne nettamente definendo prima della fine del primo secolo; tale distinzione era peraltro ignorata dal governo romano. Né il Senato di Roma, né gli imperatori si occuparono minimamente delle polemiche di un’oscura fazione che Dio aveva fino allora guidato nel nascondimento e che veniva gradualmente potenziandosi in modo pressoché inavvertibile…
Noi abbiamo affrontato il problema dividendo prima i giudei in aramaici ed ellenisti, poi i cristiani in credenti nel Regno dei Cieli – di cui abbiamo fatto la storia dal 36 al 135 d.C.- e in credenti nel Regno di Dio, ed abbiamo operato sulle tante eresie, sulla vita oscura dei christianoi nel periodo di religio illicita, nel II e III secolo fino al momento della vittoria di Costantino e del riconoscimento della parità di diritti religiosi con la comunità pagana e al definitivo trionfo cristiano con Teodosio e fino alla costituzione del Credo Niceno -Costantinopolitano Cfr. Per una conoscenza del primo cristianesimo, Gli esseni ed Ippolito romano in Filone quod omnis probus, Amici cristiani, perché diciamo “Credo”?
4.Il filosofo francese aggiungeva (ibidem ) :
L’eccesso di zelo da parte di qualcuno dei primi cristiani non poté peraltro nuocere alle verità fondamentali… Si rimproverò loro di aver accettato come autentici alcuni versi d’una antica sibilla, formanti un acrostico, che cominciavano tutti con le lettere iniziali del nome di Gesú Cristo, e ciascuna secondo il suo ordine. Si rimproverò loro d’aver messo in circolazione alcune lettere di Gesù Cristo al re d’Edessa, in un tempo in cui in Edessa non esisteva alcun re; lettere di Maria, lettere di Seneca a S. Paolo, lettere e atti di Pilato, falsi vangeli, falsi miracoli e mille altre imposture
Le nostre risultanze storiche sono state applicate specie in relazione a specifiche menzogne, costruite dagli storici cristiani e da alcuni padri della chiesa, impegnati a difendere il credo religioso, specie in contesti dove domina il trionfalismo cristiano, come quello alessandrino del IV e del V secolo e come quello cappadoce della fine del IV secolo e in quello del V secolo costantinopolitano, da noi precisate in I terapeuti De vita contemplativa e in molti articoli del sito www.angelofilipponi.com.
5.Anche Voltaire parlava di menzogne:
Tante menzogne, dovute a cristiani ignoranti e animati da falso zelo, non portarono peraltro alcun pregiudizio alla verità del Cristianesimo né poterono nuocere alla sua diffusione; al contrario, esse dimostrano che la società cristiana aumentava ogni giorno e che ciascun membro desiderava adoperarsi per il suo accrescimento. Gli Atti degli Apostoli non fanno alcun cenno al fatto che gli apostoli avessero redatto un simbolo. Se veramente ci avessero lasciato un simbolo, un credo cos’ come ora lo possediamo, S. Luca non avrebbe certo dimenticato nella sua storia questo essenziale documento della religione cristiana; la sostanza del credo è sparsa negli evangeli, ma gli articoli non furono redatti che molto piú tardi.
Dalle nostre risultanze storiche si evince solo che, non essendo nota neppure la figura umana di Christos, i christianoi hanno cercato di creare il muthos avvicinandosi a miti pagani che si prestano a tali operazioni, specie con le scappatelle di Zeus (Semele). Da qui i contatti tra Cristhos e Dioniso nelle aree orientali e tra Christos ed Osiride nell’area egizia , nascita da una vergine, la vita, la morte, la resurrezione del semidio in ambienti diversi a seconda delle differenze geografiche, dato anche l’isolamento, a volte, di alcuni gruppi e considerata la mancanza di un capo generale ecclesiale, e la sola presenza di episkopoi periferici. C’era solo la comune forte organizzazione giudaica oniade che dava unità alla colonia apoikia cristiana, vivente intorno alla trapeza, emporion, sinagoga e didaskaleion , con la memoria di un ktistes fondatore apostolico (esempio quella di Ierapolis, centrata su Filippo e le figlie) Cfr. Giudaismo romano II ed Jehoshua o Iesous?: i christianoi procedendo sincretisticamente, aggiungevano verità, cristianizzando fatti e persone della cultura stessa ebraica e pagana.
6.Voltaire aggiungeva:
Il nostro simbolo, insomma, rappresenta incontestabilmente la credenza degli Apostoli, ma non è stato scritto da loro…Gerolamo ed Eusebio raccontano che quando le chiese si organizzarono, si vennero distinguendo in esse gradualmente cinque diversi ordini: gli ispettori,episcopoi, che poi furono i vescovi; gli anziani della società, presbyteroi, i preti; i diaconoi, servi o diaconi; i pistoi, credenti, iniziati, cioè i battezzati che partecipavano alle cene delle agapi; e i catecumeni ed energumeni, che attendevano il battesimo. Nessuno di questi cinque ordini portava abito diverso dagli altri; nessuno era costretto al celibato, come testimonia il libro di Tertulliano dedicato a sua moglie, e l’esempio degli apostoli.
Si legga Amici cristiani, perché diciamo credo? In quest’opera noi facciamo la situazione e cerchiamo di spiegare le motivazioni per cui i Padri della Chiesa hanno stabilito quel credo apostolico al fine di costituire la Chiesa una santa cattolica ed apostolica (romana). In Gli esseni Quod omnis probus, e precedentemente in I terapeuti De vita contemplativa abbiamo cercato di evidenziare il tentativo storico di appropriarsi dei fenomeni giudaici di santità e di monachesimo, per la definizione della perfetta vita cristiana.
7. Voltaire infine diceva:
Nessuna raffigurazione, né in pittura né in scultura, nelle loro assemblee durante i tre primi secoli. I cristiani tenevano accuratamente nascosti i loro libri ai gentili, non li comunicavano che agli iniziati; non era nemmeno permesso ai catecumeni recitare l’orazione domenicale…
Secondo noi , i riti sono gli stessi dei Terapeuti e degli Esseni, che hanno l’obbligo di tenere segreti i loro scritti e le loro regole. I primi sono stati annientati proprio dai cristiani di Alessandria sotto il patriarcato di Cirillo dai parabolani (i monaci di Scete) che uccisero anche Ipazia nel 415; i secondi scomparvero nel 68 massacrati dalla decina legione di Vespasiano, ma il loro ricordo era vivo durante la rivolta di Shimon bar Kokba nel 132-35 ed anche all’epoca della scrittura di Philosophoumena di Ippolito Romano e poi di Eusebio e specie dei Cappadoci (Basilio, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa).
8. Voltaire, Scritti politici, UTET, cit, pp. 667-66 sembrava così concludere sul cristianesimo.
Quando le società cristiane divennero più numerose e molti si ribellarono al culto dell’impero romano, i magistrati infierirono contro costoro che peraltro furono oggetto di persecuzione specialmente da parte delle popolazioni… Tali persecuzioni non furono del resto affatto continue. Origene, nel suo libro III contro Celso, dice: “Si possono facilmente contare i cristiani morti per la loro fede, perché ne morirono pochi e solo di tempo in tempo e con lunghi intervalli”…
Comunque sia, Costantino fu ammesso alla comunione dei cristiani benché non sia stato mai altro che catecumeno e abbia rinviato il battesimo fino al momento della morte. Egli costruì Costantinopoli, la sua città, che divenne il centro dell’impero e della religione cristiana. La chiesa divenne allora un’istituzione augusta.
Cfr. Costantino il Grande (Giudaismo Romano III). Noi a lungo abbiamo dimostrato che il cristianesimo non subisce persecuzioni effettive, ma solo vengono presi e processati alcuni episkopoi non paganti, secondo legge, le tasse al fisco imperiale (in quanto solo i capi pagavano e non i membri comunitari). In certi momenti storici, in alcune zone dell’impero, a seguito di rivolta popolare contro i christianoi benestanti, non paganti le tasse e non soggetti alla leva (o se soggetti, inadempienti agli obblighi di leva perché obiettori di coscienza che si consideravano cittadini di un altro Regno, ultraterreno), si verificano eccidi che sfuggono al controllo del governatore locale- salvo casi di coinvolgimento personale dell’autorità civile-. Non si può parlare di vera persecuzione contro i cristiani né sotto gli antonini, né sotto i severi, ma si può parlare di decreto contro i cristiani da Decio 249-51 e da Valeriano, con pause, fino a quella veramente pesante del 303 di Diocleziano, grande imperatore, oscurato dagli storici cristiani.
L’Eterno e il regno
Filipponi ha scritto un romanzo storico tra il 1990 e il 1999 col titolo di L’eterno e il regno, ma ha dato rilievo più alla storia che all’ elemento fabulistico e mitico, volendo solo volgarizzare le sue risultanze storiche, incomunicabili al popolo di Cristiani, mediante saggi.
Non è dunque opera di inventio romanzesca: infatti non solo tutti personaggi sono veramente storici, ma anche i fatti sono reali, ad eccezione dell’incontro tra un capo zelota e un maskil esseno a Gamla.
L’autore rimane fedele alla storia e non stravolge nemmeno i personaggi nel loro carattere, evangelico, ma li rende vivi in un contesto precisato nei minimi particolari: da qui la premessa con datazione e con i fatti dell’anno e da qui il piacere della narrazione della quotidianità della vita giudaica nel suo reale svolgersi, senza alcun fronzolo retorico.
Non è possibile oggi spiegare ad un cristiano, che legge i vangeli solo alla domenica e segue la spiegazione del parroco, condizionato dalla educazione ricevuta da bambino, la figura reale umana di un Gesù diverso da quanto proclamato per secoli, secondo il dogma conciliare, nel senso di Figlio di Dio, uno e Trino, logos verbum della Trinità.
Di conseguenza in ogni cristiano è connaturato il pensiero di Gesù come immagine dolce, cara, di amore, baciata ogni sera, come la figura di un padre o di una madre: la recita delle preghiere, la pratica dei sacramenti, il rapporto con la parrocchia, le feste religiose, ricorrenti, hanno contribuito ad un radicamento profondo in un individuo, che è parte della comunità in cui è nato e cresciuto, fiducioso di un premio ultraterreno, promesso a tutti i buoni, che seguono i comandamenti di Dio e i precetti della Chiesa.
Grazie ai meriti dell’uomo-dio, venuto sulla terra per amore, per soffrire e morire, al fine di redimere l’uomo dal peccato originale si è verificata la salvezza col ristabilimento del patto eterno, rotto da Adamo, si è letta la divina oikonomia storica e, grazie alla resurrezione, si è creata la base della costituzione di un’ ecclesia, testimone della sua opera e della sua parola, destinata a gestire il suo potere come rappresentante sulla terra di Dio stesso.
Questi sono i tratti fondamentali che il cristiano conosce di Gesù modello di amore, di uomo sofferente, di un redentore che, col suo sangue, purifica le colpe dell’umanità, dando il crocifisso come segno di Pace.
La spiegazione di Matteo X,14 (Non crediate che io sia venuto a portare la pace: non sono venuto a portare la pace, ma una spada) è stata data per secoli secondo letture diverse e contrastanti ma sempre secondo una logica di amore e di pacifica convivenza, senza il minimo cenno a guerre e a sangue nemico, in linea con le direttive di amare il prossimo e di porgere l’altra guancia, senza neanche accennare alla tradizione giudaica e ad Hillel.
Ancora di più (come tanti altri logia /detti oracolari del signore) è diventata espressione cristiana date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio (Matteo XXII ,11) un enunciato tipicamente essenico e zelotico, rivendicante il pensiero fondamentale del giudeo, che recita la sua preghiera quotidiana e non può aver per legge un padrone mortale perché ha un solo Dio e padrone (Shemà, Israel,Adonai elohenu,Adonai echad).
Eppure si sa che un giudeo puro non usa nemmeno la moneta perché c’è l’effigie di Tiberio, vietata dalla legge e, specie nell’area templare, la deve cambiare e servirsi di siclo o zuz.
Perciò l’autore, pur conoscendo bene la situazione, ha cercato di mostrare la realtà storica, attenuando i toni, ben sapendo che non è possibile scrivere intorno a Gesù di Nazareth come di un uomo coinvolto nel movimento di resistenza ebraica contro Roma, perché è Dio e figlio di Dio.
Tutti gli storici seri ne hanno fatto le spese, pagando in vario modo il dover dire quanto hanno compreso: il credente si sente sconvolto nei suoi principi, la storia uccide il suo credo, come la scienza le sue certezze teologiche.
Samuel Brandon (Gesù e gli zeloti, Rizzoli, Milano 1983) diceva: il vero nocciolo della questione risulterà offensivo e susciterà l’impressione di un affliggente scetticismo verso ciò che è sacro.
Seppure convinto che non è lecito, dunque, fare storia sul personaggio Gesù, Filipponi ha seguitato la ricerca ed ha scritto il romanzo in modo da rendere almeno visibile il teatro di guerra tra Roma e la Giudea e di fare, comunque, una lezione, la più semplice possibile su tutta le vicenda del Messia per lettori, desiderosi almeno di erudirsi in una materia, in cui sono gravi le lacune.
Il suo libro non è, comunque, un romanzo sulla figura di Gesù come hanno scritto autori smaniosi di successo, come il Codice da Vinci di Dan Brown o come Gesù il ribelle di Reza Aslan, dove la narrazione prende il lettore come un giallo.
L’autore ha voluto fare un’opera veramente storica, utile a tutti quelli desiderosi di conoscere quel particolare momento storico e in un certo senso capirlo per poter meglio vivere la propria spiritualità: Io, Gesù di Robert Graves è opera anch’essa frutto di una lunga ricerca, che fa pensare veramente ad una possibile storia di Gesù, personaggio a noi tutti ancora sconosciuto.
Il romanzo è la storia di due bioi/ vite, quella di Erode Agrippa I e di Jehoshua Barnasha- il nostro Gesù- , due personaggi destinati al regno, già dal 26 d. C., epoca del loro incontro a Tiberiade.
Nei capitoli della prima parte i due uomini sono visti come protagonisti: l’erodiano, irrequieto nella sua ricerca scettica di uomo e di giudeo, dalla sua stessa angolazione di romano-ellenizzato, convertitosi alla pratica ideologica aramaica; l’altro da un’ angolazione mista secondo l’ottica di un discepolo o di Agrippa stesso, mai di se stesso soggetto, come un qenita costruttore capace di fare erga paradoxa (azioni miracolose) e di mediare tra l’idea del malkuth ha shemaim aramaica e la Basileia tou Theou degli ellenisti, specie alessandrini, tanto da avere il riconoscimento di Adir dall’alabarca stesso, l’esattore capo del mondo egizio e mediterraneo e sommo sacerdote di Leontopoli.
Il percorso dei due personaggi inizialmente è comune, nonostante le due diverse funzioni ed attività: quella di agorànomos di Erode Agrippa a Tiberiade, datagli da l cognato–zio Erode Antipa e quella di architetto qenita di Jehoshua, che va dove il suo lavoro lo porta, con la sua numerosa schiera di oikodomoi e banausoi da Tiberiade in Egitto (a Canopos) e poi a Kaphernaum.
L’ergon paradoxon della resurrezione della figlia di Jair determina una peripeteia, un capovolgimento situazionale totale con aprosdoketon/imprevisto, diventando epiphaneia della oikonomia divina in relazione alla morte del persecutore Elio Seiano, il capo del pretorio ministro di Tiberio, il 18 ottobre del 31 e del subitaneo sconvolgimento dell’ordo romano, specie militare, a causa dell’esautorazione dei prefetti orientali di nomina imperiale (Flacco e Pilato).
Il riconoscimento ufficiale di Jehoshua e la sua unzione come Meshiah di Adonai/dio di Christos tou theou da parte anche degli esseni, a seguito della resurrezione della figlia di Jair (Giairo evangelico) e della propagazione della notizia nel mondo giudaico non solo in Palestina e a Gerusalemme ma anche nel mondo partico specie in Mesopotamia ed in Adiabene, dell’esistenza di un vincitore della morte, riconosciuto universalmente, riuniscono le due anime giudaiche, quella oltranzista ed integralista aramaica e quella moderata ellenistica nel ringraziamento verso Shaddai / upsistos/ l’altissimo, che si è ricordato della sofferenza del suo popolo e che come deus sebaoth( dio degli eserciti) ora provvede alla cacciata dei romani dal suolo sacro di Israele.
La processione con a capo il Meshiah/Christos, si dirige verso Gerusalemme seguendo il percorso dei pellegrini, partendo da Kapernahum e passando anche per il territorio samaritano, mentre le città accettano ed acclamano l’unto del signore aprendo le porte in atto di sottomissione al re divino.
A Gerico si congiungono 1000 esseni che accolgono anche le delegazioni delle città della Perea e tutti insieme ascendono verso Gerusalemme e, dopo la resurrezione di Lazhar a Betania, arrivano sul Getsemani.
Alla vista della città Santa i il maestro di Giustizia grida. Finalmente inizia il tuo regno, o Signore.
La seconda parte inizia con la presentazione del re Erode Agrippa I che, avendo riunito tutto il mondo giudaico, a Cesare Marittima festeggia con giochi teatrali e gladiatori la vittoria di Claudio contro i Britanni, mentre arrivano i suoi amici di un tempo – molti anni dopo la fine del Regno di Jehoshua- nell’anfiteatro della città, applauditi dal popolo: Izate di Adiabene, Tiberio Alessandro e l’alabarca di Egitto, Shimon Cefa.
Il re, malato di cuore, assiste alle cerimonie, ma è in stato confusionale e fa domande agli amici a seconda del rapporto con Jehoshua, chiedendo , nella primavera del 44 d.C , un ricordo del Messia e della sua morte.
Lui successore, nominato da Roma, è legittimo basileus rispetto a Jehoshua maran, re illegittimo, perché di nomina partica, vuole ricordare con gli amici il suo predecessore: Jehoshua il re davidico, il suo re, era stato il suo modello ed il suo antagonista: lui Agrippa porta ora il peso della regalità, ma quanta differenza di regalità!.
Per ogni giudeo Jehoshua era stato il re legittimo davidico, lui invece è re illegittimo, voluto dai romani, non acclamato dal popolo; Jehoshua era il santo, unto dai sacerdoti, l’adir investito dall’altissimo, di autorità propria, l’eletto di Dio, mentre lui, pur unto dai sadducei filoromani, è solo basileus per volontà romana, un servo dei romani, un loro amministratore come ogni erodiano, che riscuote le tasse per il nemico.
Mentre gli amici raccontano la storia dalla loro angolazione, il popolo si agita rumoreggiando ed evocando la figura e il nome del Messia davanti alla condanna di zeloti, che muoiono nobilmente combattendo come gladiatori.
Agrippa, sentiti i racconti degli amici narranti gli ultimi fatti della vita del Messia e la sua fine , capisce il naufragio della sua politica economica di benessere e di millantata eudaimonia giudaica , e rileva scetticamente negli osanna popolari la nascita del muthos del Christos e il suo trionfo.
L’eterno e il regno è diviso in due parti: la I PARTE comprende cinque capitoli; la II un unico capitolo.
I capitolo della I PARTE
Il primo capitolo tratta della vita di Giulio Erode Agrippa, (figlio di Aristòbulo di Erode il grande e di Berenice di Salome, vissuto a Roma, in modo dissipato, accanto a Druso figlio di Tiberio prima, accanto a Claudio Nerone – futuro imperatore – suo fratello di latte) e del suo fallimento finanziario, della sua fuga in Giudea, sua patria.
Viene rilevata la sua inquietudine che lo porta ad una metanoia (cambiamento di vita) in quanto ritrova le sue radici ebraiche in una condanna della sua stessa ellenizzazione e romanizzazione. Da qui l’accostamento alla famiglia del patrigno Teudione, allo zelotismo e il ritorno alla rigida osservanza della torah, nonostante i rapporti con la corte di Tiberiade (città edificata nel 26 d.C) di Erode Antipa e della moglie Erodiade, sua sorella, nonostante il suo domicilio nella nuova città, dopo il matrimonio con Cipro e nonostante la funzione di agoranomos.La conoscenza del capomastro architettto, Jehoshua, aumenta la crisi spirituale (data l’ambiguità del suo vivere tra ellenismo e giudaismo), che lo porta a fughe nel deserto e a penitenze.
Secondo Capitolo della I PARTE
Il secondo capitolo è impostato ad Alessandria, dove Giulio Erode Agrippa è stato mandato da Erode Antipa insieme ad Jehoshua, su richiesta dell’alabarca ed etnarca di Egitto Alessandro, discendente di Onia IV, per la ristrutturazione della villa di Canopos. Giunti ad Alessandria sono ospiti a cena dell’alabarca, il più famoso emporos (commerciante) e trapezites (banchiere) del mondo, un Rockefeller dell’epoca, che ha invitato anche suo fratello Filone, il capo dei Terapeuti, Ruben, e il romano Lucio Anneo Seneca di cui si festeggia il ritorno a Roma: c’è discussione sulla Kosmopoiia, creazione del mondo e sulla funzione dell’uomo.
La ristrutturazione della villa è affidata ad Erode Giulio Agrippa, che segue i lavori dell’architetto secondo i desiderata dell’alabarca, che ha destinato la villa a suo figlio primogenito, Tiberio Giulio Alessandro (futuro governatore di Giudea e di Egitto e distruttore del tempio insieme con Tito Flavio), che, però, ha apostatato, ed è militare romano, di carriera.
Una sua visita a Canopos con l’ostaggio Izate di Adiabene, da ricondurre in patria, per ordine dell’imperatore, si conclude con una cena tra Agrippa ed Jehoshua e i due giovani, che sono presi dalle parole dell’architetto, che mostra loro il piano di Dio su ogni uomo.L’arrivo dell’ alabarca, venuto per vedere i lavori fatti, diventa occasione di una conoscenza approfondita di Jehoshua, che da lui, profeticamente, viene visto come uomo destinato a guidare Israel.
Terzo capitolo della I Parte
Il terzo capitolo è centrato su Caphernaum, dove esiste una comunità di pescatori e di agricoltori, di fede mista, che ha in comune i beni, secondo il modello essenico.
Jehoshua, chiamato per la costruzione di depositi dove devono essere conservate le derrate alimentari e il pesce essiccato e salato, è ospitato dalla famiglia di Shimon Pietro, la cui suocera malata è guarita dall’architetto.
La comunità, avendo problemi finanziari, è sotto osservazione del pubblicano Matthaios, un romanizzato.
La morte della figlia di Jahir cambia la vita nel paese perché la bimba viene risuscitata da Jehoshua: da ogni parte del mondo romano e partico tutti gli occhi si volgono su Jehoshua, dominatore della morte.
La morte di Seiano (18 ottobre del 31 d. C.) aumenta la popolarità dell’architetto, che viene riconosciuto Meshiah, dopo un’ assemblea plenaria, a seguito della conversione di Matthaios.
Quarto capitolo della I Parte
Il quarto capitolo è impostato in Adiabene alla corte del re Monobazo, non lontano dall’antica Ninive, vicino alla odierna Arbil/Arbela, dove il re sta per morire ed attende il ritorno del figlio prediletto Izate.
La corte è dilacerata dalla lotta tra i pahlavici, i magi di cultura medo-persiana, zaratustriana e il potente ministro terapeuta Anania, giudeo reggente con la regina Elena. Il ritorno di Izate aumenta i contrasti perché il giovane, divenuto ebreo, fattosi circoncidere, dopo la venuta di due esseni Melazar e Jakob, favorisce l’elemento giudaico, trasferisce la capitale ed inizia una sua politica di protezione dell’elemento popolare, contraria ai magi e all’aristocrazia filoromana, coalizzati dall’ambasciatore G. Licinio Muciano. La congiura organizzata viene sventata da Anania, che punisce i traditori e caccia i rappresentanti di Roma, dopo aver riconosciuto Jehoshua Meshiah ed aver stretto rapporti con Artabano III re di Partia (cacciato da Ctesifonte e rimesso sul trono da Izate) e con Anileo ed Asineo, satrapi di Babilonia, con cui hanno in comune una località, sacra per i resti dell’arca di Noè.
Quinto capitolo della I Parte
Il quinto capitolo tratta del ritorno della missione di Melazar e di Jakob, che vanno nella loro comunità di Damash, dopo l’incontro a Gamla con il capo degli zeloti Jakob di Jehudah il Gaulanita: gli esseni, riuniti, riconoscono Jehoshua meshiah e dichiarano che sono finiti i tempi della penitenza e che inizia il tempo del Regno.
Jehoshua, nel frattempo, avuta l’autorizzazione anche dal sinedrio di Gerusalemme, inizia la sua marcia da Caphernaum e, dopo aver inviato i suoi discepoli, due a due, a chiedere alle singole città il passaggio con la formula pane ed acqua, entra da trionfatore in ogni città, lungo il suo iter, e si congiunge con gli esseni a Gerico, da dove inizia la salita fino a Betania (dove risuscita Lazhar) e giunge sul Monte degli Ulivi, mentre tutti sono in festa perché il Regno dei Cieli è vicino e Gerusalemme è in vista.
Il capo esseno allora grida: il re sta per arrivare; godi, Jerushalaim, i tempi sono giunti!
II PARTE
Il sesto capitolo, unico della II parte, mostra la capitale del Regno di Giuda, Cesarea Marittima, nella sua bellezza.
L’autore zuma sull’anfiteatro della città, dove il re Erode Giulio Agrippa, rivestito della sua veste sacerdotale e regale, circondato dai suoi amici re e funzionari, sta celebrando la vittoria di Claudio Nerone, imperatore sulla Britannia.
Per onorare i suoi amici il re ha preparato giochi di vario genere, anche musicali, ha fatto combattere tra loro gli zeloti, condannati a morte ed ha provocato reazioni nel pubblico, che ha inneggiato a Jehoshua.
Allora Agrippa, già gravemente malato, mentre lui ricorda personalmente la sua verità storica, in preda a confusa agitazione, fa rievocare da Shimon, da Izate, dall’Alabarca e da Tiberio Alessandro la storia del meshiah, del suo malkuth (messo in relazione al suo Regno), della sua ultima cena, della sua fine dopo la vittoria di Lucio Vitellio su Artabano, a seguito del Trattato di Zeugma: ognuno mostra di avere una propria memoria dei fatti, letti in modo diverso.
Scettica e laica è la conclusione del re!
Una lettura di L’eterno e il regno di MARIA ELISA REDAELLI (15-O7 2015)
Esposizione interessante ed originale quella del Libro l’Eterno e il Regno di Angelo Filipponi.
L’autore ha strutturato ed imbrigliato la materia storico-culturale in Parti e Capitoli che permettono di seguire l’evolversi degli eventi storici nella loro autenticità e non nella dispersione dei fatti.
Essi si intricano bellamente tra loro creando l’equilibrio delle parti ed inducono al ritorno, al ripensamento, volto alle varie tematiche.
In tale modo, ogni lettore, oltre ad acquisire notizie inedite e linguaggi diversi . latino, greco, aramaico ecc. può districare la propria attenzione seguendo le vie reali della struttura letteraria che è costruita con precisione puntuale e rigore compositivo. I protagonisti spaziano tra i luoghi ben collocati geograficamente sicché colui che legge accompagna con l’occhio della mente non solo i loro spostamenti ,ma quasi, pare di entrare , nel procedere, per le vie, per i cardi romani, o per stradine antiche ed entrare negli edifici.
E’ esemplare la ricostruzione di Cafarnao. In un contesto archeologico riprendono vita i selciati, emerge la compattazione delle strutture, gli usi degli spazi nelle varie parti della casa , gestiti con la finalità di bellezza e fruizione insieme Ciò appare efficacemente anche nella costruzione di Damash a pag.316 e sgg:
Le costruzioni sono i significativi indizi di un’abilità teatrale sia per gli attori che per i veri protagonisti. Gli spazi effondono la propria corporeità , assieme al piacere della varietà degli incontri e della assoluta compresenza dei personaggi naturali, nonché delle visioni della vita quotidiana sia degli aristocratici che degli umili, i quali trovano anch’essi angoli ove svolgere i loro ruoli dai più grandi ai più piccoli.
Belle , affascinanti, attraenti, strabilianti le ville in cui essi abitano: così con acume estetico l’autore comunica i loro fini , quali stupire ,esercitare il potere, attrarre e convivere. La convivenza, infatti, esercita una larga presa sugli animi. Vi si annidano i ricordi gli amori, i legami, i tormenti (vedasi il capitolo di L’alabarca e i suoi ospiti pag. 103 e sgg)
L’aspetto dell’importanza del denaro, dell’uso che ne viene fatto, del come procurarselo e del come impiegarlo suscita ammirazione per come esso sia stato studiato e reso autenticamente .Non c’è nulla in questa opera scritta che sia stato utilizzato fuori uso o travisato.
Degni poi di estrema attenzione e meditazione le descrizioni del profondo psicologico dei protagonisti. Essi sono sovrani, taluni per tesare il proprio potere sia grandiosamente che malvagiamente, ricorrono a tutte le modalità strumentali, dettate dalla follia, dall’egoità narcisistica, o dalla presunta capacità di potenza Anche a quei tempi come testificano Tacito, Svetonio o Dione Cassio accadevano orrendi crimini, come ai nostri giorni!
Le molte sfaccettature dell’amore umano trovano intesa nelle singole persone che vi ricorrono e che vorrebbero, in qualche modo abusarne.
Molto nutrita risulta la parte conclusiva Spiccano le testimonianze sulle tematiche del Malkuth ha shemaim/ Regno dei Cieli sull’originale apertura mentale di Giulio Erode Agrippa emblema dell’ebreo contemporaneo, che vive un’esistenza altalenante tra ebraismo dogmatico e messianismo regale.
Questa visione, che è nuova ed antica insieme, rimanda a quel meraviglioso periodo della nascita e della svolta totale del pensiero religioso che entra in indagini di indirizzo teologico elevato. Anche questa è storia , ma è la revisione in ciascuno di noi, della storia personale ed unica , senza paragoni e o contraddizioni poiché essa è nutrita dalla Fede e dall’intesa sociale che diventa agape
Firmato
Redaelli Maria Elisa