Paradosis ( consegna) e l’endeicsis (denuncia) di Gesù Cristo
Dalle notizie evangeliche risulta che Gesù vive una vita misteriosa e nascosta fino a trenta anni e che, poi, si rivela facendo uno o più viaggi a Gerusalemme, dove, dopo denuncia e consegna ad opera del clero giudaico all’autorità romana, viene ucciso.
Viene celata (sembra) la regalità, una notizia, volutamente nascosta, sulla vita di Gesù, una figura di uomo, che non è descritta in modo completo, in quanto coloro che scrivono in epoca flavia, a distanza di oltre quaranta anni, hanno interesse solo a rendere saldo un culto e riti, già consolidati dalla pratica, e lasciano senza luce storica i fatti riguardanti il fondatore, che assume valore maggiore, proprio dall’ambiguità, dall’equivoco, dal muthos.
Comunque, gli scrittori lasciano dei segni storici palesi perché non possono tralasciare due elementi della storia, che erano rimasti impressi nella collettività giudaica sia aramaica che ellenistica: il crimen contro l’impero romano del Messia e la paradosis con l’endeicsis all’autorità romana, da parte dei capi di Gerusalemme.
Nostro intento, Marco, è quello di far emergere la regalità, da una parte, mediante queste due verità celate, esaminate come risultanze evangeliche storiche e, da un’altra, rilevare l’impostazione dei vangeli canonici, all’ atto della scrittura, con il Kerugma con la predicazione della morte e resurrezione, congiunta con la giustizia del governo romano e con la perfidia giudaica: noi siamo interessati solo dalla falsificazione dei termini, non da scrupolo religioso.
Noi cerchiamo di studiare i termini, che hanno diverso valore nell’epoca dei fatti, rispetto a quella dell’epoca di scrittura evangelica: insomma diciamo che c’è stata falsificazione, pur se si lascia intatto (o quasi) il segno linguistico come significante, che, però, è stato rivestito con referenze nuove, attuali, di un significato aggiuntivo, tipico di un altro tempo, rispetto a quello storico di accadimento.
Professore, essendo caduti gli ideali del precedente periodo, cambiati i valori di un malkuth (regno), conclusosi tragicamente, divenuto esemplare e per aramaici e per ellenisti, a seconda delle diverse letture interpretative, la missione stessa degli apostoloi (inviati), che ebbero il mandato di seguitare il compito, fu cambiata?
Certo tutto cambiò: non più la predicazione del messaggio di un prossimo regno, ormai impossibile ed irrealizzabile, ma di un‘attesa escatologica ed apocalittica di un regno messianico, predicato da un Gesù–dio, divenuto redentore del mondo e modello di humanitas.
Su questa base, secondo la lettura paolina, i discepoli degli apostoloi distaccarono la sostanza del pensiero dalla storia e dalla vicenda reale e predicarono la morte e la resurrezione del Christòs insomma,passarono dal piano militare, ormai finito, al piano spirituale e morale, trasformando lo zelotismo in pratica religiosa con il Kerugma, separandosi dal giudaismo aramaico e perfino da quello ellenistico, occidentalizzandosi e romanizzandosi.
Ma per far questo ci vuole tempo, molto tempo, professore?
Questo è un processo lungo, che dura dall’ epoca flavia a quella antonina, mentre infuria ancora la lotta contro la romanitas in senso aramaico, che condurrà, dopo altre peripezie, dolorose, alla Galuth (all’esilio, alla cacciata, all’espulsione dall’ impero), dopo la fine, tragica anch’ essa, dell’impresa di Simone Bar Kokba (134-35) .
Allora, professore, Il vangelo di Marco comporta una volontà di segretare fatti palesi, il preciso skopos di essere contraddittorio nel proclamare lo scandalo della croce con la rivelazione del Christòs, nel fare la volontà di Dio, che esige adesione di fede e sottomissione al mistero, sulla base del modello di Jesous Christos Kurios, re unto, ma vissuto, per suo volere, nel nascondimento, in modo umile, considerato come un romanizzato, trinome, espressione del nomos empsuchos (Legge vivente), legge scritta e non scritta?.
Certo. Il pensiero di Marco, autore popolare, levita, piccolo sacerdotale, di cultura aramaica, immaginoso, puerile, dal linguaggio elementare e dalla forma paratattica, propria di un non ellenizzato (o di uno appena alfabetizzato, che ha appreso i primi rudimenti della koiné), dissociato culturalmente e dai giudei ellenisti e dagli aramaici puri, è semplice: proclamare il Christos ucciso dai suoi stessi connazionali, secondo il dettato paolino ( la morte e resurrezione del Signore e lo scandalo della Croce).
La semplicità di Marco ha, però, professore, efficacia per l’immediatezza del racconto, per la stupefatta partecipazione, per l’adesione ai miracoli e alla divinizzazione del Christos ed attira il lettore proprio perché riduce tutto a narrazione apparente, senza meditazioni e senza polemiche?
Certo. L’evangelista è parabolicamente entusiastico, fedele, miticamente persuaso di avere la verità esemplata più nelle azioni, che diventano agrafa, parole non scritte, nuovo nomos, quasi un altro codice rispetto al nomos mosaico, un sistema paradossale teorico-pratico cristiano, da dare ai fedeli pagani e giudeo-cristiani, romani ed occidentali (modellato paradigmaticamente sul bios, mitico, di Abramo di Filone), basato sull’ esempio vivente di Jesous.
Noi propendiamo nella individuazione dell’evangelista Marco per quel Giovanni Marco (Atti degli Apostoli, 12,12-25; 15,37), chiamato anche Giovanni (Ibidem,13,5-13) o Marco (15,39), conosciuto anche perché collaboratore di Paolo, da cui si separò (Ibidem, 15,36-39) per qualche tempo, per, poi, esserne di nuovo compagno a Roma ( Paolo, Col.,4,10; Filemone,24,9 e 2 Tim. 4,11) e come discepolo di Pietro, da cui è trattato familiarmente , e filiarmente (I Pietro, 5,13) .
Siamo d’accordo con la tradizione di Eusebio, che, riprendendo Papia, vescovo di Ierapoli, (Storia Eccl.,III,39,15) dice che fu interprete di Pietro e che scrisse con esattezza, ma senza ordine, tutto ciò che ricordava delle parole e delle azioni del Signore.
Egli, secondo la testimonianza di Papia, non ci ingannò scrivendo quanto ricordava in relazione alla lezione di Pietro, che insegnava, adattandosi ai vari bisogni degli uditori, e non si curava di dare una composizione ordinata delle parole del signore (logia) .
Anche Ireneo (Adversus Haereses, III.1,1) e Tertulliano (Adversus Marcionem, 4,5) e Clemente Alessandrino (Strom., 1) riportano che Marco scrisse come discepolo di Pietro.
Perciò Marco sottende,professore, da una parte, il pensiero petrino attualizzante, e da un’altra, quello paolino presentandosi come genuino e popolare nell’ inizio di ogni periodo con Kai euthus ( e subito) , scrivendo per latini a cui spiega il greco (non per nulla ci sono latinismi 12,42: la vedova gettò due lepta o estin ekodràntes/quadrante; e i soldati condussero Gesù nel cortile; eso tes aules, o estin praitorion/pretorio 15,16) o servendosi dell’aramaico, sua lingua naturale , dopo averlo tradotto in greco. Il gar di Marco – con cui si chiude il suo testo inconcluso– ripetuto, stucchevolmente , secondo il parlato aramaico asindetico, deittico e ripetitivo, palese nei Talmudim, non solo ha valore di spiegazione dei fatti e dei detti al posto di una congiunzione dichiarativa, ma ha funzione di rendere l’affermazione personale conclusiva e sentenziale?.
E’questo il metodo dell’evangelista.Yohanan Marco, se è lui lo scrittore del tipo di Shimon Pietro, Shaul Paolo, Levi Matteo, Iosip Flavio, uomini di cultura mista, la cui convinzione apparentemente semplicistica è meditata ed è data in relazione all’utenza, si avvale,comunque, del contributo di uomini di mestiere, di grammatici e retori, scaltriti nell’ uso dei termini e quindi di un’area letteraria flavia, connessa con quella dello storico (cfr. Commento al I libro di Antichità Giudaiche, www.angelofilipponi.com).
Inoltre, Marco forse è il kolobodaktulos, cioè il levita e sacerdote del tempio, che non volle servire e perciò si mutilò il pollice: è un uomo di parte e, quindi, capace di compiere azioni estreme, pur di salvaguardare il proprio pensiero e la propria fede; potrebbe essere un estremista, come Origene, che si autoevirò per essere tra i primi del Regno del Signore. Marco conosce quasi certamente La guerra giudaica di Giuseppe Flavio(VII,2,2) : non può essere un caso che ripeta leukous endiduske khitoniskous kai porphuran emperonesamenos khlamida (si avvolse in tunichette bianche e fermatovi sopra un mantelletto di porpora): egli adatta, aggiusta e contamina la cattura di Gesù con quella di Simone di Ghiora capo dei rivoluzionari insieme a Giovanni di Giscala. Marco conosce anche il gioco alessandrino di Karabas, descritto da Filone in In Flaccum come parodia della regalità giudaica da parte greco-romana.
Marco è per noi acrimonioso nei confronti del confratelli giudaici aramaici, dai quali forse diverge per la strategia militaristica (12,10-11; 13 1-37; 14,57-72.) e perciò, dopo la distruzione del tempio ha possibilità di schierarsi in senso cristiano, libero dai giuramenti, e perfino da quegli ellenisti, specie alessandrini, che credevano solo nel vangelo di Giovanni Battista e nel suo battesimo.
Matteo, professore, ha altra cultura ed altra impostazione, quella teologica, filoniana, con riflessione biblica, comune anche a Marco, che è segnata nel Vangelo greco, ma doveva essere stato diverso in quella sua scrittura aramaica dei logia, ricordati di Papia nell’opera Esposizione dei discorsi del Signore pubblicata nel 110 d.C. ( Eusebio St. Eccl. III,38,16), da cui sorsero poi i vangeli cristiani.?
Levi Matthaios, era, Marco, un altro ellenista, un ellenizzato, tachigrafo, pubblicano, telones, che scrisse in dialetto ebraico-aramaico coordinando i logia (oracoli) del signore : ciascuno poi li interpretò come poté.
Il termine logia sia per Filone ( in Vita di Mosé -specie nel III libro- è ricorrente logion) che per gli Atti (7,38 ) ha valore profetico mosaico e quindi connesso con la Torah, come oracolo legato alla legge di Mosè, non esterno alla legge, non nuovo, ma come forse commento scritto alla presenza del rab- maran, rimasto così fino a dopo il 70, in cui Marco e Matteo stesso, in una nuova situazione storica, aggiungono elementi e fatti, in relazione alle parole che, comunque, cambiano di significato.
Il Kerugma matthaico, predicato per i connazionali aramaici e poi anche per i giudei ellenisti (Ireneo, Adv. Haer, III,1,1; Eusebio St.Eccl., III,24,6 , Clemente Alessandrino, Paedagogos, II,1,36 ) dopo viaggi apostolici in Ponto, Persia e forse India (dove Panteno alla fine del II secolo ritrovò i Logia originali) non è quello di Marco: è un contenuto, già predisposto in relazione alle lettere di Paolo e a tutto l’annuncio evangelico, secondo il canone, veterotestamentario, dei Settanta, già interpretato da Filone, secondo Sapienza e profeti, e secondo quello neotestamentario, esclusi Giovanni e Giacomo.
Certamente i logia, nel testo matteano attuale, hanno grande rilievo e rivelano il Regno dei cieli quello zelotico, originario, ma essi hanno ben sotteso il regno messianico, a cui ogni uomo è chiamato a partecipare, inteso poi come Regno di Dio, secondo interpretazione sovrumana e celeste, distinto dal Regnum romano: essi infatti occupano i tre quinti del bios, mentre fatti e miracoli (2/5) fanno da contorno e a volte da spiegazione concreta all’ anima, costituita dai discorsi (5-7; 10;13; 18; 23-25;9) infarciti di salmi, di detti sapienziali, di oracoli dei profeti e specie di Isaia, (53) al fine della dimostrazione della necessarietà del patire del Christos non più re, ma uomo sofferente, agnello condotto al macello.
L’autore, chiaramente ebraico, parla dei pubblicani, di farisei, e di tutte le caste sacerdotali, parla della casa ebraica, di città santa, di luogo santo, conosce usi, tradizioni, parole gergali e soprattutto collega la torah con la predicazione del Vangelo, cioè, mentre annuncia la venuta del Messia, figlio di David, rileva le varie predizioni, tramite la lettura dei profeti, ne mostra le ragioni per cui giustamente Gesù sia l’atteso, anche se rifiutato dai confratelli.
Soprattutto i logia parlano espressamente di Il Regno dei Cieli, intendendo, però, non il Malkuth ha shamaim, cancellato, come pensiero, dopo la distruzione del tempio, ma il regno messianico, a cui ogni uomo deve partecipare, ed afferma la davidità del Messia , attraverso la Genealogia (I,2,16) dimostrando come il Christos compia le profezie, dando il via alla interpretazione del cristianesimo, come compimento e completamento dell’ebraismo, creando le basi per il Nuovo Testamento come punto di arrivo del Vecchio testamento…
il logion matthaico dell’ultima cena e specie quello del sangue versato per molti risulta un’aggiunta successiva quando al suo significato si dava l’idea di universalità in relazione al pensiero di Paolo che trasforma il calice dell’alleanza in un calice di nuova forma di alleanza (1 Cor. 11,25; 1 Corinti 10,16; col. 1,20; Ef.1,7 Rom.3,25 Ebr 5,13-20;10,19;12,14;13,12). D’altra parte il testo di Marco 14,24 (touto estin to aima mou ths diathhkhs to ekkhuvvoimenon peri polloon – ben connesso con Mt 26,26-29; Lc.22,15-20) non ha uper ton pantoon per (a favore di) tutti (pro omnibus) in quanto il sangue versato è per molti (Pro multis) e per voi (pro vobis) amici e discepoli.
Allora, professore, Gesù, che si sacrifica per i suoi, al fine di evitare la distruzione della città assediata, è un martus giudaico, come poi lo sarà Shimon bar Kokba col suo rabbi Aqiva (cfr Martire giudaico, Temi?.
Certo.Anche Origene in Principi tende a dare l’idea di universalità al sacrificio di Gesù, martus. La sua consegna ai Romani invece ebbe un altro valore quello di risparmiare il saccheggio della città e quindi di salvare il salvabile: specie i discepoli che, consegnandolo, si sarebbero potuti salvare…
Egli, infatti, usa le espressioni: tutto questo avvenne affinché si adempisse ; così si adempì (1,22; 2.15; 2.17-23 ; 4.14 ed altrove): sua la colpa (o chi per lui rivide i suoi scritti, in seguito) di aver dimostrato la perfidia giudaica, di quei confratelli che osteggiarono il Cristo non volendolo riconoscere e nonostante i segni palesi, lo perseguitarono e lo uccisero, dopo averlo proclamato re.
Da qui non solo deriva l’endeicksis con la paradosis di Gesù ai romani, ma anche e soprattutto la condanna ebraica alla reità della uccisione di un uomo-dio (27,25 Il popolo tutto quanto rispose: il sangue suo su di noi e sui nostri figli) e quasi l’assoluzione a Pilato, che si lava le mani dicendosi innocente del sangue di questo giusto ed ammonendo il popolo Ve la vedrete voi! Insomma, Matteo ha la colpa della secolare ed ingiusta persecuzione cristiana agli ebrei e della assoluzione dell’impero romano: ha rovesciato la storia, romanizzandola, grecizzandola, paganizzandola, da telones!
E Luca?,professore
Luca, invece, scrisse il vangelo per i pagani convertiti, in Acaia e Macedonia col proposito di contrapporre per i fedeli greci, la verità alle favole degli eretici, (Ireneo, Adversus Haer., III,1,1; Tertulliano, Adversus Marcionem IV,5 ; Origene, In Lucam Hom.1 ; Eusebio, St. eccl. II,4,4-6). Tutti, più o meno, convengono nelle stesse notizie, confermate anche dal Canone muratoniano e dal Prologo antimarcionita ambedue del primo decennio della seconda metà del II secolo.
Luca,professore fu siro antiocheno, un medico, compagno di Paolo, scrittore anche di Atti degli apostoli?.
Chiaramente il vangelo di Luca ha valore apologetico ed è paolino, come impostazione, in quanto ha cari i temi della giustificazione per fede e l’universalismo della salvezza (Cfr Qual è il sondergut di Luca e di Matteo ?).
Senza prendere in considerazione il vangelo di Giovanni ,che è di epoca gnostica, e quindi lontano dai tempi Flavi, noi consideriamo solo le risultanze evangeliche sinottiche dei tre evangelisti, di cui abbiamo dato qualche indicazione.
Perciò abbiamo diviso le risultanze di un lungo lavoro di esame in a. storiche e b. mitiche e poi ne abbiamo dimostrato la storicità e la miticità in opposizione anche alle varie teorie e alla formgeschichte e redaktiongeschichte .
- Dai vangeli (Marco 14,15,16; Matteo 26,27,28, Luca “1 22,23,24) si hanno le seguenti risultanze circa la figura di Gesù, un individuo conosciuto come Messia (Christos), del quale si cela un episodio caratterizzante, il regno, sul quale gira tutta la narrazione di un viaggio a Gerusalemme dalla Galilea, di cui si parla e per cui si parla.. I sommi sacerdoti, gli scribi e gli anziani, due giorni prima della Pasqua complottano contro Gesù al fine di prenderlo e di ucciderlo, dopo che ne hanno visto l’acclamazione regale da parte del popolo, la sua potenza, e la manifestazione autoritaria nel tempio.
2.Essi trovano un suo discepolo, un certo Giuda Iscariota, disposto a tradirlo (Matteo 26,14-16; Luca 22,3-6;e Marco 14.10.11).
3. Gesù fu arrestato nell’orto dei Getsemani, fu legato e portato a casa dell’ex sommo sacerdote Anano, suocero dei Kaifas, sommo pontefice del momento.
- Egli ebbe un processo sommario da alcuni membri del sinedrio la sera stessa; rispose alla domanda: Tu sei il Christos, figlio del benedetto? : io sono, aggiungendo una frase del salmo 110 (Mc 14,62 Mt. 25,65 Lc 22,69) vedrete il figlio dell’uomo seduto alla destra della potenza e venire sulle nubi del cielo; gli inquisitori senza sentire altri testimoni, il mattino, lo giudicarono davanti al sinedrio riunito e poi, legato, lo consegnarono (paredokan) a Pilato, governatore di Giudea.
- Fu inquisito come re dei giudei da Pilato e fu beffeggiato dai soldati e poi condannato a morte e condotto alla crocifissione (insieme a molti dei suoi).
- Morì sulla croce di venerdì e fu sepolto in fretta e furia, comunque, con i dovuti onori funebri.
- Anche donne osservavano, da lontano, la crocifissione: Maria di Magdala, Maria madre di Gioseto e di Giacomo, e Salome.
- Il cadavere, regalato da Pilato a Giuseppe di Arimatea, euchemon bouleutes (un membro autorevole sinedriale), che ne aveva fatto richiesta, tratto già dalla croce, avvolto in un lenzuolo, fu deposto e messo in un sepolcro scavato nella roccia, al cui ingresso fu fatto rotolare un masso. Dai vangeli (stessi passi) si hanno altre risultanze di tipo concettuale non fattuale, collegate con l’episodio taciuto e con l’impostazione generale, delle tre opere congiunte, come se fossero state scritte per cucire insieme i dati mancanti e per dare sostanza ad un pensiero e ad un culto, già affermato nel corso di due generazioni, dopo la crocifissione del Messia, la cui figura viene necessariamente modificata, nei nuovi contesti:
9 Il sepolcro, il giorno dopo il sabato, fu trovato vuoto.
- Gesù fu visto come risorto.
- I suoi discepoli ebbero la missione di predicare (Kerugma) la morte e resurrezione del maestro.
- Egli fu assunto in cielo e si sedette alla destra di Dio.
La comprensione del messaggio delle prime otto risultanze, a distanza di secoli, non è facile, come sembra, perché i riferimenti sono vaghi, perché si parla di un malkuth (basileia), già implicito in Meshiah (Christos) unto, cambiato da terreno a divino perché la generica paradosis (consegna) ed endeicsis (denuncia) di un giudeo, catturato e processato dal Sinedrio gerosolomitano, ad una autorità superiore, romana, che condanna alla morte per crocifissione, uno reo di un crimen, risultano strane in un ambiente, dominato dallo zelotismo, in uno stato di belligeranza permanente per quasi duecento anni.
La persona incriminata e la natura del crimen cambiano in relazione al contesto storico: il Gesù crocifisso con la triplice iscrizione del crimen sopra la croce in aramaico, greco e latino, è visto in modo diverso in quanto la lettura, all’epoca dei fatti, ha un altro valore, rispetto all’epoca della scrittura.
Ne consegue che la difficoltà è nel rilevare la precisa epoca dei fatti col crimen reale e con la reale figura del protagonista della storia, separata da quella interpretativa successiva: il come vissero la vicenda gli spettatori è una cosa, un’altra come la narrarono i discepoli di chi vide, dopo che il tempo aveva portato altre sofferenze, la distruzione e la fine del Tempio stesso e dopo che il patriottismo e l’integralismo erano stati vinti dalle armi romane e da Vespasiano e da Tito, che trionfarono sulla Ioudaea capta e costruirono il loro stesso principato su questa impresa.
Questo lavoro di ricostruzione deve essere essenzialmente storico perché il personaggio è storico, come la sua impresa, necessariamente lasciata da coloro, che hanno scritto, perché documento storico, a cui, però, hanno dato una alonatura e una sacrosantità, differente, in relazione al culto e ai riti ormai esistenti in epoca flavia, nell’accettazione, ora necessaria, dell’auctoritas imperiale della nuova dinastia, che traeva proprio dall’impresa giudaica la sua fortuna.
Perciò, noi operiamo, dapprima, nella fase storica e poi cerchiamo di leggere i testi evangelici dopo aver capito la storia, come era stata celebrata nella tradizione giudaica, come toledoth, in relazione al contesto giudaico palestinese aramaico e a quello ellenistico greco, in un momento giulio-claudio, specifico del regno di Tiberio, riguardante il periodo 32-36, dilatato poi fino alla fine del Regno di Giulio Erode Agrippa (agosto 44): infatti il lavoro è nella definizione dei fatti del crimen e della morte di Gesù, nella Pasqua del 36.
Tutto questo è da ritenersi parte integrante della storia ebraica e quindi di una vicenda realmente accaduta nel 36 al momento dei fatti avvenuti, registrati dalla toledot giudaica e da quella romana ed ellenistica (esemplare in tale senso è Flavio, storia giudaica, IV,4 discorso di Anano e di Gesù di Gamala, fatto molti anni dopo, – che mostrano i sadducei che convincono il popolo, in un momento di grave crisi, a consegnare gli zeloti, per salvare la comunità).
La comprensione del messaggio delle altre quattro risultanze è ancora più complessa perché alla morte accertata, dopo l‘episodio del buon ladrone, si fa seguire il ritrovamento del sepolcro vuoto dell’incontro di discepoli con un Gesù risorto, che conferisce la missione di predicare la sua morte e la sua resurrezione ad opera di Dio, prima di salire al cielo e di assidersi alla destra del Padre.
Questa parte appartiene ad un’altra tradizione, formatasi al momento della scrittura dei Vangeli, che noi già in altra sede abbiamo considerato scritti tra il 74 e 94 fra le due opere maggiori di Giuseppe Flavio, Storia Giudaica ed Antichità Giudaiche (Cfr prefazione a Giudaismo e Romano e al I libro di Antichità giudaiche www.angelofilipponi.com).
Queste altre notizie non sono dati storici ma aggiunte, interpretazioni, ricostruzioni tipiche di discepoli, che hanno mitizzato la storia della morte ed hanno apportato modifiche a figure esistite, trasformate ai fini di una maggiore credibilità del messaggio, in un nuovo contesto, a seguito di avvenimenti epocali, la distruzione del tempio e il trionfo flavio sulla Ioudaea capta.
I problemi, che ostacolano la comprensione di queste due parti e dei loro complessi enunciati, da noi così schematicamente sintetizzati, riguardano in una prima fase di lettura delle prime risultanze, la figura dell’ inquisito e degli inquisitori giudaici, quella del governatore romano, il luogo e il tempo, in cui avvenne la consegna, dopo la denuncia, da parte di ebrei, di un ebreo, chiamato Mashiah–Christos, a Pilato.
Se ricreiamo , Marco, la situazione reale, a partire dal punto situazionale dell’arresto di Gesù, dopo aver mostrato precisamente la Pasqua di un determinato anno, forse la lettura dei fatti e dei personaggi coinvolti, può essere più piana e facile.
Proviamoci , professore, io ascolto.
Da storici propendiamo- tu ben lo sai- per la Pasqua del 36, come anno di morte di Jehoshua, e per gli avvenimenti di quell’anno seguiamo lo storico giudaico Giuseppe Flavio (cfr.Vita, opera e pensiero in I libro Antichità Giudaiche www.angelofilipponi.com).
Secondo Flavio (Ant. Giud., XVIII, 90) Lucio Vitellio venne in Giudea, salì a Gerusalemme, dove si celebrava la festa della Pasqua.
Vitellio fu ricevuto fastosamente (megaloprepoos) in modo magnifico: mai nessun governatore di Siria veniva accolto con onori a Gerusalemme, solo Augusto e Vipsanio Agrippa avevano avuto onori da Erode il Grande, non dalla popolazione: Gerusalemme era vietata ad ogni occhio profano, il suolo sacro della città non doveva essere calpestato da piedi stranieri, da uomini non circoncisi, specie nell ‘area del tempio: su ogni porta minacciosa e solenne una iscrizione vietava l’ingresso nel vestibolo stesso: Medena allogene eisporeuesthai entòs tou peri to ieron truphaktou kai peribolu, os d’an lephthè, eauto aitios estai dià to ecsakolouthein thanaton/nessun straniero varchi la transenna di recinzione del tempio. Chi verrà preso, sarà responsabile per se stesso della morte, che ne seguirà. Flavio St. Giud, VI,124 e Cfr. E.J. BICKERMAN, The Warning Inscription of Herod’s Temple, “ J.Q. R.” XXXVII,1946-7).
Qui, invece, veniva condotto in processione Lucio Vitellio, dopo che fu scortato per oltre 30 stadi (mt. 5.550), con tutti gli onori come un vincitore, clemente: una simile accoglienza per un romano non c’era mai stata!
Megaloprepoos sottende l’idea di una folla festante che stende mantelli e rami di alberi, tagliati, per la via, e che canta salmi (cfr Mt., 21,1-9; Mc., 11,1-11; Lc.,19,29-38).
Vitellio ridusse del tutto le tasse dei prodotti agricoli a quelli, che abitavano intorno alla città e, soprattutto, concesse che fosse tenuta dai sacerdoti la stola e gli altri ornamenti sacerdotali, custoditi nella Torre Antonia, che era sopra il tempio.
Flavio è costretto a fare la storia della stola, ripartendo da Hircano II (che, poco prima del 63 a.C., aveva costruito una stanza per passare direttamente nel Tempio, già ornato, degli abiti sacerdotali),fino ad Erode.
Flavio aggiunge che nel frattempo Tiberio aveva ordinato a Vitellio di fare un trattato con Artabano, che aveva preso l’Armenia, e che lo aveva autorizzato ad avanzare ed osare di più, ma gli imponeva di non firmare il trattato, se non prima di aver ricevuto il figlio in ostaggio (Svetonio, Tiberio,4,1; Tacito Annales, VI,27; Flavio, Ant.Giud. XVIII, 88-126; Dione Cassio, St.Rom., LVIII,2).
Dalla notizia di Flavio si evince che Tiberio esige dal legatus una penetrazione offensiva al fine di imporre un trattato al re dei re, capo della federazione parthica.
E’ chiaro che l’imperatore vuole il ripristino dello status quo dopo aver spaventato il nemico con la potenza delle armi romane e che, dopo aver piegato Artabano, ci siano anche atti di formale omaggio all’auctoritas imperiale, da parte delle popolazioni limitrofe ciseufrasiche, che avevano tradito.
E’plausibile, dunque, ritenere che Vitellio doveva avere segni di filoromanità da parte del sinedrio gerosolomitano, dominato dai sadducei filoromani: la consegna del messia è l’atto dovuto di filoromani che, come segno tangibile di pacificazione e di amnistia, ebbero la riconsegna della stola con tutte le vesti sacerdotali, custodite nella torre Antonia, dove di nuovo veniva imposta una guarnigione romana di 600 uomini.
L’impresa di Vitellio aveva determinato l’entrata in Gerusalemme, che era stata un’azione romana antiebraica per ripristinare l’ordine nella città santa, turbato precedentemente.
L’entrata in Gerusalemme, pacifica, festosa aveva prodotto un nuovo orientamento del sacerdozio sulla scia della politica di Erode il Grande, che aveva potenziato l’edificio di Hircano II, adibito come camera per il rivestimento del sommo sacerdote, in una torre di sorveglianza sovrastante il tempio, con guarnigione romana, che aveva in sua mano l ‘arredo sacerdotale.
Erode aveva fatto costruire la fortezza Antonia perché temeva il popolo e le sue sedizioni, come d’altra parte, i sacerdoti filoromani che, anche loro, avevano paura della sedizione popolare, specie in occasione delle feste, in cui a Gerusalemme convenivano da ogni parte dell’ecumene romano e da quello partico, famiglie giudaiche, zelanti di fede ed integraliste, miste ad altre moderate, che però, venivano coinvolte, accese e condizionate dalla presenza armata romana, proprio sopra al Tempio.
Non per nulla Flavio volendo spiegare il motivo della riconsegna della stola, mostra la funzione della torre Antonia, quella di prevenire che il popolo non faccia stasis,( novitas secondo i latini), neoterismòs per i greci.
Flavio insiste per spiegare che Vitellio dà ordine al phrourarchos (il comandante della fortezza phrourion) di non ingerirsi nelle questioni religiose e quindi sulle modalità di uso, sui tempi di utilizzo della stola, sottendendo che c’è stato il ripristino del corpo di guardia, probabilmente ucciso e quindi assente per un periodo: a noi sembra che un nuovo epitropos dà un nuovo mandato ad un nuovo comandante e quindi instaura un nuovo clima di collaborazione con il sommo sacerdozio.
Flavio parlando di cose (fortezza) e di persone ormai non più esistenti, a persone che neanche sanno gli avvenimenti e neppure conoscono le tradizioni patrie, ormai finite, ha bisogno di precisare e di chiarire: per questo, da uomo di famiglia sacerdotale, fa la storia della stola e delle sue vicissitudini, convinto di fare la storia del sacerdozio giudaico e quindi dell’élite giudaica, scomparsa con la fine del tempio.
Nel tempo, sembra dire Flavio, in cui Vitellio entra in Gerusalemme, Tiberio ordina di fare guerra ad Artabano: de kai per noi diventano centrali per la nostra indagine. De kai hanno valore continuativo e quindi conclusivo, oppure esplicativo e rinforzativo se usati insieme per determinare un’idea precedentemente espressa o sottintesa, in forma ricapitolativa e, perciò, assumono significato di frattempo, inoltre, infine, dunque.
Noi diamo valore di frattempo in quanto leggiamo che già Vitellio aveva fatto qualcosa prima di quella azione in Gerusalemme, cioè il trattato sul ponte dell’Eufrate, conosciuto come Zeugma (che è quasi un isolotto dove erano i piloni portanti centrali del ponte –gephura-), da noi datato nella seconda metà di marzo del 36, considerato anteriore alla sua entrata nella città santa, arresasi prima della Pasqua, tardiva quell’anno (metà aprile). E’ probabile che, mentre Vitellio era sull’Eufrate, un suo legatus, avendo circondato Gerusalemme, ne abbia chiesto la resa, ottenuta al momento dell’arrivo del governatore di Siria in città.
Noi, seguendo anche Tacito, che ricapitola quae duabus aestatibus gesta coniunxi (Annales,VI, 38.1) l’impresa di Lucio Vitellio (Ibidem, 31-38), riteniamo che lo storico voglia sintetizzare, da una parte, quanto fatto da Vitellio secondo il mandato di Tiberio, che gli aveva ordinato di fare guerra ad Artabano e ad Areta e di ripristinare tutta quella zona in una volontà di ristabilire lo status quo armeno, turbato da Monobazo e da Izate, alleati di Artabano, e di ripristinare l’ordine in Ioudaea turbato da anni.
Forse Tacito nel fare il riassunto dipende proprio dai Commentarii di Lucio Vitellio che naturalmente sono scomparsi e di loro circola solo qualche notizia.
De kai, quindi, ha valore riassuntivo rispetto all’azione di conquista di Gerusalemme, forse ultimo atto di un’operazione di repressione e di ripristinamento giudaico costituzionale: per noi, infatti, si tratta di una entrata da vincitore da parte del procuratore di Siria, dopo che il sinedrio ha accolto un ultimatum di resa, secondo l’aut aut romano o consegna del capo della stasis (rivoluzione) o distruzione della città.
Per meglio entrare in merito all’assedio e alla resa di Gerusalemme ricordiamo l’exemplum di Antigono, a cui si rifanno gli evangelisti, che conoscono la storia giudaica e sanno come i romani puniscono chi si proclama re o chi è proclamato re dai parthi e quindi non ha il riconoscimento del senato e dell’imperatore romano.
L’episodio di Antigono, figlio di Aristobulo II, nominato re da Pacoro, figlio di Orode II re dei re della Partia, chiarisce il tradimento giudaico della pars aristocratica e la spietata esecuzione romana come prassi nei confronti di un usurpatore, sorto da una sedizione.
Antigono nel 37 a.C.morì ad Antiochia, dopo che era stato eletto maran dai parti, che lo avevano insediato a Gerusalemme, a seguito di una grandiosa spedizione di conquista di tutta l’area siriaca ed asiatica, assegnata ad Antonio, dopo il secondo triumvirato e poi, dal trattato di Brindisi (da Scodra, Illirico, fino all’Eufrate cfr. Appiano Guerra civile, 5,65).
Tutta questa area era in subbuglio perché c’era stata la guerra civile tra i cesaricidi e i triumviri, che si era risolta con la vittoria di Filippi nel 42 (3-23 Ottobre): due grandi eserciti fratricidi rispettivamente di 17 legioni e di 19 legioni, per un complessivo di 200000 uomini, si erano affrontati con quattro comandanti prestigiosi, Cassio e Bruto da una parte ed Ottavio ed Antonio dall’altra.
La pacificazione, comunque, non c’era stata: infatti c’erano scontri tra gli uomini dei cesaridi in fuga, riuniti da Tito Quinto Labieno, che, inviato dal re dei parti a chiedere aiuto, lo aveva ottenuto tardivamente.
Orode II aveva ritenuto opportuno entrare in merito alla guerra fratricida, dopo Filippi, persuaso da Labieno-meirakion euerethiston kai anoias pleres/ragazzo pieno di inventiva e di pazzia (Strabone, XIV)-, ad invadere la regione asiatica e la Siria perché ormai i romani si erano massacrati a vicenda: egli inviò suo figlio Pacoro, giovane filelleno, conosciuto per la sua praotes e per la dikaiousune, alla conquista dell’ area siriaca e dando mandato a Labieno di occupare la provincia asiatica in quanto il sovrano rivendicava l’eredità seleucide ed ora approfittava della debolezza della repubblica romana dilacerata da guerre intestine, ancora dopo la sconfitta dei Cesaricidi.
Infatti Sesto Pompeo si opponeva ai triumviri con successo in Occidente, essendo padrone del Mediterraneo e i parthi, già vincitori dei romani e di Crasso nel 53 a.C. a Carre, ora avevano, grazie anche al tradimento di Labieno, fondate ragioni di riconquistare tutta l’area orientale (cfr. Appiano, Ibidem; Dione Cassio, St. Rom., XLVIII,39-41; e XLVIIII ,19-21; Plutarco, Antonio, 35-36-37) ed avevano fatto una grandiosa propaganda, attirando dalla propria parte i greci ed anche i giudei che, d’altra parte, erano per lingua aramaici come loro, presso cui, inoltre, era una numerosa colonia.
Pacoro, dunque, grazie all’aiuto del romano Labieno e del parto Barzafane (cfr. A FILIPPONI, Giudaismo romano, cit.) aveva condotto prigioniero Hircano II, sommo sacerdote ed etnarca della Giudea, asmoneo filoromano, a Babilonia e aveva dato la corona ad Antigono, che quindi fu riconosciuto maran legittimo, in quanto asmoneo, ma era illegittimo per i romani perché senza autorizzazione senatoria, perché eletto dal popolo: i romani avevano come collaboratori e soci la classe sacerdotale e quella aristocratica.
Labieno, dopo i primi successi su Decidio Saxa, si era proclamato Imperator particus, ma fu ucciso da Ventidio Basso, che lo aveva vinto sul monte Tauro.
E Pacoro, che era venuto in suo soccorso, fu sorpreso dalla tattica del legatus di Antonio, che ripristinò l’ordine in tutta la zona orientale, mandando in giro per le città la testa di Pacoro, amato per il suo ellenismo (Dione Cassio, Ibidem 20; Flavio Ant. Giud, XIV, 468-486), seguito anche da tutte le città asiatiche e siriache, considerato un liberatore dai popoli, soggetti ai romani.
Il senato romano aveva considerato Antigono re illegittimo ed aveva eletto al suo posto re Erode, figlio di Antipatro, un epitropos idumeo (messo da Cesare come garante militare, protettore di Hircano II), che era fuggito da Gerusalemme ed era andato da Cleopatra e, grazie a lei, era venuto a Roma, a chiedere aiuto ed assistenza, a seguito dell’impresa di Pacoro.
Il Senato, grazie ad Antonio e ad Ottaviano, ora riappacificati, aveva non solo fatto re un privato, passando sopra i diritti legittimi della dinastia asmonea, ma aveva dato ad Erode il mandato di assalire Gerusalemme insieme a Sossio, legatus di Antonio: questi con imprecisate truppe di fanteria, con 6000 cavalieri ed auxilia (truppe ausiliarie provenienti dalla Siria) avevano assediato la capitale della Giudea, mentre già tutte le città dell’ Asia e della Siria si erano arrese a Ventidio Basso, a cui avevano tributato onori come delegato di Antonio, in attesa del triumviro e delle sue volontà (cfr. A. FILIPPONI, Giudaismo romano, cit).
I giudei, popolari, assediati, si difesero cercando di impedire il vettovagliamento ai nemici e lottando con accanimento, ma i romani, dopo aver disposto tre linee di terrapieni e portato le macchine d’assedio, cominciarono a scavare sotterranei.
I Giudei, pur assediati, circondati da così grande esercito, angustiati dalla fame e dalla mancanza di necessario, in quanto correva proprio allora l’anno sabatico, pur fiduciosi in Dio, subirono la conquista della città: dapprima entrarono nelle mura 20 uomini scelti, poi le centurie di Sossio: il primo muro fu preso dopo 40 giorni, il secondo in quindici, alcuni portici intorno al tempio furono bruciati; poi, presa la Città bassa, i giudei si erano ritirati nel recinto interno del tempio e nella Città Alta. Alla caduta della città ci fu una grande strage: furono scannati a mucchi sulle strade nelle case e mentre cercavano rifugio nel tempio: non ci fu pietà né per bambini né per donne né per vecchi; allora Antigono, senza tener conto del suo antico stato né del presente, discese dalla torre Baris e si gettò ai piedi di Sossio, che lo schernì e lo chiamò Antigona e poi lo tenne prigioniero.
Erode al vedere il saccheggio, preoccupato perché i romani volevano entrare nel tempio per dare uno sguardo al tempio e alle cose sacre, ma in effetti per depredarlo, supplicò, pregò i capi romani di non fare una simile azione empia e costrinse gli altri con le armi e con le minacce ad allontanarsi dall’area sacra.
Fece poi capire a Sossio che se i romani avessero svuotato la città della sua ricchezza e dei suoi uomini, lo avrebbero lasciato re di un deserto e che egli avrebbe considerato anche la sovranità di tutta l’ecumene una ben misera ricompensa di fronte all’ eccidio di tanti cittadini.
Sossio, da romano avido, volle che Erode pagasse di persona, allora, il mancato saccheggio della città: Erode accettò e pagò di borsa sua, diede splendidi regali ai soldati, fece doni ancora più grandi agli ufficiali e al comandante regali grandiosi .
La città era stata presa 27 anni dopo il 63, anno della prima profanazione romana ad opera di Pompeo, sotto il consolato di Marco Agrippa e di Caninio Gallo, nella 185 Olipiade, nel 37 a.C.
Anche la morte di Antigono ha qualcosa in comune con quella di Christos: Antigono fu portato ad Antiochia, capitale della prefettura di Siria. Erode, temendo che Antigono potesse giustamente rivendicare davanti al senato la sua dignità regale, essendo l’ultimo asmoneo, legittimo re, seppure riconosciuto solo dai parthi, pagò Antonio perché lo uccidesse e cosi fu fatto finire dopo 126 anni il potere degli Asmonei. Antonio pensava di tenerlo fino al suo trionfo, ma quando capì che la nazione giudaica, era dominata dal popolo, che era favorevole ad Antigono e non ad Erode, decise di ucciderlo, facendogli tagliare la testa, non conoscendo altro mezzo per tenere buoni gli ebrei.
La notizia è confermata da Strabone, che mostra l’attaccamento della nazione ad Antigono e la volontà di mantenerlo nello stato regale e di non considerare affatto Erode, neanche a costo di fustigazioni (Flavio, Ant. Giud., XV,I,1-8).
Lo stesso storico in Storia Giudaica aggiunge che mai un re fu trattato così dai romani (I,18,2), cosa confermata da Plutarco (Antonio, 36,4 ) e da Dione Cassio (St.Rom, XLIX,22,6) che parla di uccisione, dopo che fu legato ad un palo e flagellato pubblicamente (emastigosen stauro prosdesas ), e riferisce quasi le stesse parole dello storico giudaico (o medeis Basileus upo ton Romaion epeponthei ibidem 8).
Grazie, professore, per avermi ricordato questi avvenimenti.
Marco, Abbiamo voluto ricordare questo antecedente perché ci sembra che gli evangelisti lo abbiamo tenuto presente all’atto della scrittura e perché tutto era iniziato dall’invasione dell ‘Armenia ad opera dei Parti.
Dopo la vicenda di Pacoro le popolazioni dell’Armenia erano state risucchiate nell’impero romano ed avevano avuto una certa stabilità grazie all’intervento di eserciti romani, che avevano voluto e protetto la dinastia regnante degli Artassidi.
Già con Tigrane III, figlio di Artavaside/Artavaste II (fatto prigioniero da Antonio e giustiziato ad Alessandria d’Egitto dalla regina Cleopatra nel 30) era cominciata una fase nuova di sudditanza ( Cfr. A.Filipponi, Giudaismo romano, cit.).
Il re venne portato a Roma dall’Egitto e crebbe sotto la protezione di Augusto.
La dinastia degli Artassidi fu testimone di una altalena di vicende, di influenze, di ingerenze straniere ora da parte romana ora parthica: Artavaste II era stato emblema di questo continuo conflitto di interessi ed era rimasto sempre in bilico tra l’alleanza con Romani e con Parti, dovendo fare una politica camaleontica tanto da subirne tragiche conseguenze ad opera dei romani.
Tigrane III era al centro tra due partiti, quello filoromano e quello filopartico e a seconda del prevalere di uno si aveva l’ingerenza ora dell’impero romano ora di quello parthico.
L’incoronazione di suo fratello Artaxias II fu il frutto dell’ingerenza dei Parthi sul trono di Armenia e della vittoria del partito filoparthico che subito fu ribaltata da quella romana che lo elesse re d’Armenia, dopo l’uccisione del fratello.
Ottaviano in questa precisa fase del conflitto fra Romani e Parthi, per il controllo dell’Armenia, pensò di risolvere l’instabilità del regno insediando un sovrano legittimo locale, che, però, fosse fedele al volere di Roma, ritenendo Tigrane, un candidato di rilievo, perché cresciuto a Roma.
Ottaviano incaricò Tiberio, di insediare Tigrane IV, nel 20 av. C., dopo una sommossa locale.
La politica augustea , che favoriva i sovrani legittimi, non diede al regno alcuna stabilità: dopo Tigrane III anche suo figlio Tigrane IV e sua sorella Erato non ebbero fortuna.
A seguito di relazioni coi Parti il regno di Tigrane IV segnò il fallimento della politica romana di stabilizzare e garantire il proprio potere in Armenia tramite la protezione di una dinastia legittima .
Il fallimento era dovuto parzialmente alle continue ingerenze, dirette e indirette, dei Parti, rivali di Roma, che contendevano al dominatore romano il controllo dell’Armenia e del suo territorio.
Esso segnò anche, con la fine della dinastia degli Artassidi sul trono del regno d’Armenia, la fine stessa del protettorato di Roma, interessata a contrapporsi all’impero parthico, impegnato a difendersi dall’espansionismo romano.
destituire suo fratello Tigrane III, per porre sul trono un cugino di Tigrane, col nome di Artavaste III.
Erato e Tigrane IV, favoriti da Fraate III, sobillarono i nobili ed il popolo armeno contro il nuovo sovrano, insediandosi nuovamente sul trono per un brevissimo periodo (dal 2 a.C. all’1 a.C.): Augusto, allora, dopo aver fatto il I trattato di Zeugma, con Gaio Cesare insediò sul trono un nobile di origine Meda di nome Ariobarzane di Atropatene, e alla morte del nuovo sovrano dopo breve tempo, come suo successore venne eletto suo figlio, con il nome di Artavaste IV.
Questo, essendo straniero, non fu ben accolto dalla nobiltà armena che ordì una congiura e dopo breve tempo uccise il giovane.
Ad Augusto non restò che abbandonare la tattica di insediare una nuova dinastia, non autoctona, e fece eleggere nuovo sovrano d’Armenia un presunto discendente della dinastia legittima Artasside, con il nome di Tigrane V.
L’equilibrio, peraltro mai stabile, con la nobiltà armena, era ormai spezzato ed una nuova sommossa permise ad Erato di tornare al trono come legittima erede della dinastia nazionale Artasside nell’ 11 d.C. per breve tempo, fino al 12.
Ci fu però una nuova sommossa, nazionalistica, per cui Erato perse il trono, allora Roma decise, in nome di una politica nuova di alleanza tra Romani e Parti, per cui si concordò di affidare il regno d’Armenia a Vonone I, figlio del sovrano di Parthia, secondo le norme stabilite nel trattato di Zeugma, firmato da Fraate e da Gaio Giulio Cesare, figlio di Agrippa, erede al trono di Augusto.
Alla morte di Orode III, Vonone fu eletto re di Parthia ma a lui fu opposto dalla aristocrazia parthica (che rifiutava un re romanizzato, vissuto a Roma, con costumi ellenistici) Artabano, un principe arsacide di parte materna, che conquistò il potere nel 10 d.C., dopo una guerra civile.
Vonone andò in esilio in Siria nel 12 d.C., col suo tesoro, e, protetto dai romani visse come un sovrano finché, pur essendo sotto la protezione di Gneo Calpurnio Pisone, non fu ucciso.
L’impero romano fu per oltre un secolo impelagato, dunque, nella soluzione del problema armeno, in quanto la zona era altamente strategica, punto di passaggio e di confluenza, che metteva in comunicazione due mari e che bloccava le migrazioni delle popolazioni barbare e semibarbare delle steppe (iberi, albani, alani, sarmati, sciti, saci).
Anche Artabano aveva lo stesso problema che era stato proprio del regno parthico e che aveva necessità di controllo di quella regione dominata dagli artassidi.
Si era, perciò, stabilito forse nel trattato di Zeugma (Velleio Patercolo, Storia, II, 94) per una tacita convenzione, sulla base dello status quo del momento, che l’Armenia Maior fosse parthica, appannaggio del principe ereditario del re dei Parti, mentre l’Armenia Minor fosse romana.
Tiberio all’inizio del suo impero, aveva cercato di stabilizzare la zona, dando un potere speciale (cfr Velleio Patercolo, Storia, II, 94,4), a Germanico, fatto tornare dalla Germania, dopo avergli tributato il trionfo, per risolvere definitivamente il problema armeno, ora di nuovo insoluto per le mire di Artabano.
La possibilità di insediare sul trono d’Armenia Zenone, figlio di Polemone del Ponto uno dei sovrani più fedeli di Roma, sembrò una soluzione perfetta.
Tiberio e Germanico credettero di aver trovato una soluzione formando una nuova dinastia, che avrebbe potuto garantire la presenza di un re, capace di reggere uno dei punti cardini dell’Oriente.
Come Vonone, che si trovava in esilio, Zenone di Ponto, cioè Artaxias III, era un giovane cresciuto in modo ellenistico, amava i modi tipici della cultura romana (caccia, libagioni, lusso) e perciò era divenuto popolare in Armenia ed era stato accettato anche dal re dei Parthi, vincolato dal trattato con il legatus di Tiberio.
Germanico incoronò personalmente il giovane Zenone nel 18 d.C. nella capitale Artashat, acclamato dal popolo armeno.
L’elezione di Artaxias III fu anche il frutto di un preciso accordo tra Germanico ed i parthi.
Germanico aveva concordato con Artabano che i Parti non avrebbero più dovuto interferire con la politica interna del regno d’Armenia, se veniva esiliato Vonone I.
I due accettarono il patto e Germanico inviò in esilio Vonone, nemico di Artabano, in Cilicia, presso Silano Cretico (parente dello stesso dux), dove morì nel tentativo di fuggire.
Sotto il regno di Artaxias III l’Armenia visse finalmente un periodo di prosperità e di stabilità per ben 16 anni, ovvero fino alla sua morte nell’anno 34 d.C..
Morto Artaxias, Artabano, rotti gli accordi stipulati con Germanico, impose sul trono d’Armenia Arsace, suo primogenito portando a termine il suo disegno di destabilizzazione romana, iniziato dopo le incursioni di Monobazo di Adiabene in territori armeni, sotto pressioni del Gran Re.
Artabano si era interessato all’ Armenia e ai problemi della Palestina, subito dopo la morte di Germanico, quando aveva favorito l’elemento zelotico contro i romani e contro Erode Antipa e Filippo, tetrarchi filoromani, finanziando i gruppi eversivi e organizzandoli anche grazie alla politica di fratellanza giudaica: l’impero parto aveva una grande colonia giudaica e nella confederazione parthica c’erano re giudaici come Monobazo ed Izate e capi giudaici di grande valore come Asineo ed Anileo.
Artabano, perciò, aveva favorito la rivolta antiromana, secondo Tacito: egli aveva destabilizzato l’impero romano nell’area siriaca e in Armenia, dopo la morte di Artaxias II, ed aveva rivendicato perfino il tesoro di Vonone (Annales, VI,31).
Professore mi trovo in difficoltà . mi può precisare?
Per capire ,Marco, il pensiero di Tacito, bisogna integrarlo con quello Velleio Patercolo, di Flavio e di Svetonio, oltre che con Dione Cassio, dai quali possiamo comprendere che le 4 legioni, di stanza al confine, erano tenute in scacco da Arsace, figlio di Artabano, che aveva preso il potere in Armenia, dopo avere riunito la Minore con la Maggiore, favorito da Monobazo re di Adiabene, iniziando in effetti le ostilità con Roma.
Il problema armeno era diventato difficile, ma, solo dopo la morte di Artaxia III, nel 34 d.C. si complicò ulteriormente perché i tentativi romani di stabilizzazione erano falliti a causa delle ingerenze parthiche.
Il problema era stato sempre difficile fin dagli inizi quando i romani si scontrarono con Tigrane I alleato di Mitridate.
Le due regioni armene avevano avuto un regno unitario grazie a Tigrane I, ma con l’arrivo degli eserciti di Lucullo nel 68 a.C. e poi di quello di Pompeo nel 66 a.C. l’Armenia era stata suddivisa nel corso della guerra mitridatica, in cui Roma aveva affermato la superiorità delle sue armi, già chiara dal periodo sillano.
L’Armenia maior e minor erano due regioni Causasiche: la prima ad ovest dell’ Eufrate era delimitata a nord dalle catene parthiche e a sud dal Tauro armeno e andava dall’Azerbaijian ad est fino al litorale sud-occidentale del Caspio (Mare Hircano) , la seconda ad est dell’Eufrate, giungeva fino al Caucaso era popolata da grandi città greche (Nicopoli, Sebastia) e da genti armene della regione Hamshen.
Tutta la regione nel suo insieme aveva grande importanza strategica, essendo posta tra i due mari e facendo da cuscinetto tra le popolazioni nordiche barbariche degli Alani, Sarmati, Iberi Albani e Sciti e i due imperi (quello romano e quello parthico), che si congiungevano alla base della regione armena.
Questi, ambedue, aspiravano al suo controllo non solo per ripararsi dalle incursioni barbariche ma anche per ulteriori conquiste territoriali: l’impero parthico con la conquista dell’Armenia, dopo la morte di Germanico, svincolato da ogni trattato con Tiberio, si salvaguardava dalle incursioni barbariche e si proteggeva anche dall’ impero romano.
Questo, invece, senza l’Armenia era a contatto diretto con l’impero parthico e con le popolazioni scitiche, di cui temeva le penetrazioni in Siria e in Asia, anche se aveva ottenuto il controllo del Mar d’Azov, grazie ai trattati col Regno del Bosforo cimmerico.
Ora, Artabano, dal 25 d.C., aveva avuto come interlocutore un ministro di Tiberio, quel Seiano che aveva fatto la politica Orientale e poi il suo sostituto Macrone e Tiberio sembrava disinteressarsi di tutta quella ampia regione e delle sue ripercussioni, specie nel 33-4, anno della morte del Governatore di Siria Pomponio Flacco.
Perciò Artabano nel periodo 31-36 cercò di destabilizzare ulteriormente l’impero romano, favorendo una politica filogiudaica e mettendo in subbuglio il giudaismo, in quanto a Seleucia aveva imposto Asineo ed Anileo due giudei (Ant. Giud., XVIII, 310-379) contro la stessa nobiltà persiana, e aveva inoltre, invaso anche l’Armenia Minore.
Quando Artabano si era divisa l’Armenia minore con Monobazo di Adiabene, Tiberio non ebbe neppure una reazione, a detta di Svetonio, che parla dal lato militare diretto: l’imperatore, non potendo inviare un consolare, specie dopo la morte del governatore di Siria, in effetti, diplomaticamente, aveva agito in quanto gli aveva contrapposto per la riconquista della regione, Mitridate re degli Iberi, dopo averlo riconciliato con Farasmane suo fratello.
E nel frattempo Artabano diede forze necessarie per la riconquista ad Orode, altro figlio, che doveva impedire il collegamento degli avversari e impedire la loro avanzata entro il territorio parthico.
Tiberio favorì il collegamento di Farasmane con gli Albani e con i Sarmati e con il loro aiuto attaccò gli armeni, impedendo il congiungimento con le forze parthiche, il cui arrivo fu rallentato anche dalla stagione estiva e dalle inondazioni causate dai venti etesi (Ibidem, 33).
Ne derivò che Farasmane, appoggiato da ausiliari, provocava a battaglia Orode, privo di alleati, quelli inviati in ritardo da suo fratello Arsace; e poiché questi cercava di evitarlo, lo molestava, minacciava con la cavalleria il suo campo, disturbava i foreggiatori e spesso lo accerchiava con postazioni armate, assediandolo, finché i Parthi non avvezzi a tollerare provocazioni, si strinsero intorno al principe, invocando il combattimento. Tutta la loro forza era nella cavalleria; Farasmane, invece, aveva anche valide fanterie …Ci fu uno scontro tra albani ed iberi e Farasmane da una parte e Orode e i parthi dall’altra; ci fu perfino un duello tra i due capi: Artabano avrebbe voluto punire Farasmane e si accingeva a farlo, ma Vitellio, raccolte le sue legioni, fece spargere la voce che anche lui avrebbe invaso la Mesopotamia.
Artabano temendo una guerra con i romani, avendo ostili i popoli della sua confederazione ed essendo insicuro nella sua stessa corte, in quanto Sinnace trascinò alla rivolta anche suo padre Abdagese ed altri, che maturavano quel disegno in segreto e che i continui disastri avevano incoraggiato all’azione (Ibidem 36,2), pensò bene di fare il trattato con Tiberio.
Egli, secondo Flavio, accortosi che molti parenti ed amici erano stati corrotti da Vitellio ed attentavano alla sua vita e convinto che la congiura sarebbe riuscita perché il numero di traditori aumentava, fuggì verso le satrapie superiori (Ant. Giud., XVIII, 99-100).
I romani avevano tentato di sostituire lo stesso Artabano con un re della stirpe di Fraate su richiesta della nobiltà medo-persiana detentrice del potere interno: Tiberio, ora libero nella sua azione, grazie alla risoluzione del problema dinastico e, dopo la fine dei processi di lesa maestà contro i seianei, ordinava a Lucio Vitellio (padre del futuro imperatore) di ripristinare l’autorità romana sull’area.
Su questo trattato c’è incertezza sia sull’anno che sul rappresentante partho: da Tacito sembra che Vitellio abbia avuto rapporto diretto con Tiridate, non con Artabano; gli altri storici invece parlano di un incontro a Zeugma del legatus con Artabano stesso.
Flavio, Ant Giud., XVIII, 97-98 spiega che alle offerte di denaro di Tiberio ai re degli Iberi e degli Albani per indurli a muovere guerra ad Artabano, questi diedero agli alani (altri popoli caucasici) il libero transito per le loro terre aprendo le porte del Caspio…Così l’Armenia fu di nuovo tolta ai parthi e nel loro paese si estese la guerra: morì la migliore nobiltà e tutte le loro cose si rovesciarono; il figlio del re cadde ucciso con molte decine di migliaia di uomini…
Il trattato per Tacito, comunque, fu fatto: Vitellio condusse il nerbo delle truppe e delle forze ausiliarie all’Eufrate, fece dei sacrifici come anche Tiridate (sacrificò un cavallo)… si costruì un ponte di barche e si fece passare l’esercito dei parti: c’erano anche Ornospade, che era stato (haud inglorius auxiliator, Annales, VI, 37,3) aiutante di Tiberio, da cui aveva avuto la cittadinanza romana nella guerra dalmatica (Svetonio, Tiberio,9) , Sinnace e Abdagese.
Vitellio impose il trattato, secondo Tacito, mostrando la superiorità delle armi romane ed ammonì Tiridate e i capi a non dimenticare di aver avuto come avo Fraate e di essere stato allevato da Cesare, duplice titolo di gloria per lui; ammonì gli altri a non tralasciare l’ossequio verso il re, il rispetto verso di noi, l’onore personale e la fedeltà alla parola data (Vitellius ostentasse romana arma satis ratus monet Tiridaten promoresque, hunc Phraatis avi et altoris Caesaris quae utrubique pulchra memenerit, illos, obsequium in regem, reverentiam in nos, decus quisque suum et fidem retinerent -Ibidem, 37,4-).
Giuseppe Flavio (Ant. Giud.XVIII,101-3) parla, invece, di Vitellio e di Artabano che si incontrano: Vitellio ed Artabano si incontrarono sull’Eufrate., Si gettò un ponte sul fiume ed Artabano e Vitellio si incontrarono al centro, ognuno con la sua guardia del corpo. Giunti al termine degli accordi, il tetrarca Erode diede una festa sotto la tenda, fatta innalzata da lui in mezzo al ponte con grande spesa, Artabano inviò suo figlio Dario a Tiberio, come ostaggio, e con lui molto doni, tra cui un uomo alto sette cubiti, di stirpe giudea, di nome Eleazar, il quale per la eccezionale statura era detto Gigante. Sistemati questi affari, Vitellio tornò ad Antiochia ed Artabano a Babilonia.
La campagna, dunque, condotta brillantemente da Vitellio, si concluse con un completo successo, ben valutato anche da Tacito, che, poi, da un giudizio negativo sulla sua successiva vita da cortigiano nel periodo di Caligola e di Claudio.
Artabano, di nuovo, fu attaccato dai suoi nemici di corte, fu abbandonato dai suoi sostenitori, e dovette fuggire ad Oriente.
Dobbiamo pensare che la situazione parta fu per qualche mese incerta e caotica per la presenza di due sovrani, ma la situazione si precisò ben presto.
Tiridate, una volta preso possesso del regno, non potè rimanervi a lungo, a causa della rivalità con i nobili, per la sua sudditanza a Roma.
Infatti egli non piacque né a Tiberio né ai suoi alleati persiani: si era attirato l’inimicizia non solo di Tiberio, ma anche di Sinnace e di Abdo (Flavio, Ibidem).
Egli, d’altra parte, era un romanizzato come già Fraate, inviato da Tiberio e morto prima ancora di prendere il regno, odiato dai nazionalisti, che favorirono Artabano che ebbe così modo di riappropriarsi del suo regno, valendosi dell’aiuto di un esercito, composto essenzialmente di uomini della tribù dei Dahan, ottenendo l’approvazione dei Parthi.
Flavio, probabilmente, segue questa tesi che cioè i parthi lo accolsero dopo i primi contatti tra Vitellio e Tiridate che fece un pretrattato in cui il Legatus considerava il romanizzato come un sovrano semindipendente e perciò lo cacciarono e richiamarono Artabano per un foedus aequum tra due stati di pari grado.
La posizione di Artabano nei confronti di Roma rimaneva, comunque, estremamente precaria, in quanto sebbene non avesse inizialmente incontrato resistenza dalla parte avversa (essendo Tiridate fuggito in Siria), non era, comunque, in grado di intraprendere con successo una campagna contro Vitellio, dopo l’invasione degli Iberi e delle altre popolazioni barbariche e la perdita della Armenia.
Perciò Artabano concluse quindi, di lì a poco (nel 36) il trattato di Zeugma , nel quale rinunciava alle sue mire espansionistiche, avendo un peso internazionale diverso rispetto a Tiridate, re fantoccio.
Poco dopo, tuttavia venne deposto nuovamente, in quanto la nobiltà non aveva accettato il trattato in cui la supremazia romana era di nuovo imposta e fu proclamato re un certo Cinnamo.
Artabano si rifugiò presso un suo vassallo, il re dell’Abiadene, Izate (Ant Giud, XX,54) grazie al quale ritornò definitivamente al potere facendo amnistia anche allo stesso usurpatore, che gli si era arreso spontaneamente e regnò fino alla morte ancora per quasi due anni fino al 40 d.C..
Professore ora capisco perché nessuno ha affrontato questo problema. E’ veramente complesso e difficile inserire la consegna di Gesù ai Romani!
Questi fatti , Marco, sono letti da Flavio in modo disordinato e confuso, come abbiamo rilevato in Giudaismo romano (Cfr. A. GARZETTI, La data dell’incontro all’Eufrate di Artabano III e Lucio Vitellio legato di Siria, in Studi in “ onore di Calderini e R .Paribeni” Vol. I 1956 pp 211-229) specie per quanto riguarda le congiure interne al regno di Parthia.
La relazione dell ‘impresa di Vitellio fu fatta e dal procuratore di Siria e da Erode Antipa, che come tetrarca, alleato, aveva seguito il governatore fino all’Eufrate, come abbiamo visto.
Non sappiamo vedere la funzione di Erode Antipa accanto all’esercito e al governatore di Siria: probabilmente si era mosso per la morte contemporanea di Artaxias III e di suo fratello Filippo, tetrarca dell’ex regno di Lisania, forse partendo dalla roccaforte di Macheronte o di Masada.
Il tetrarca della Galilea e Perea non doveva essere solido nel suo regno in una terra in cui era stato proclamato il Malkuth ha shemaim subito dopo la presa dell’Armenia da parte di Artabano, prima dell’arrivo di Vitellio, che dovrebbe essere arrivato a Cesarea marittima, non prima dell’ estate del 35.
Gesù era Galileo ed Erode poteva essere stato allontanato dalla capitale Tiberiade da un’ insurrezione popolare: Il regno dei Cieli avrebbe potuto comportare anche un rivoluzione in Galilea, da cui il messia era partito per la conquista di Gerusalemme: il tetrarca si era salvato, dopo l’eccidio della guarnigione di Cafarnao, e si era rifugiato in una delle roccaforti erodiane, come aveva fatto Pilato stesso, che si era arroccato a Cesarea Marittima, dopo la presa probabile della torre Antonia e la strage della guarnigione romana.
Erode Antipa con le legioni romane aveva fatto il viaggio fino all’Eufrate, lungo oltre 500 km, portando un suo esercito, insieme a quello di altri reguli, al fine di imporsi nell’ex tetrarchia di Lisania o per sé o per la vedova Salome sua figliastra e pronipote, sposata da suo fratello Filippo, poco prima di morire, oltre che per ripristinare l’ordine in Armenia e in tutta la zona.
Inoltre Erode Antipa, che conosceva il doppio mandato di Vitellio e contro il re di parti e contro Areta IV, pensava forse di potersi vendicare di quest’ultimo con cui aveva questioni di confine e per problemi a seguito del suo ripudio dell’ ex moglie Dasha, figlia del nabateo, la cui dote traconita doveva essere riconquistata.
In questo contesto storico e politico il messaggio di Il regno dei cieli è vicino è vincente in terra giudaica e a Gerusalemme tra il 32 e il 36: i giudei partici e quelli palestinesi già collegati ora hanno anche l’appoggio dei moderati ellenisti, che pur convivono con i greci e col sistema imperiale romano e ne traggono notevoli benefici commerciali. L’avvento del Regno dei cieli e la consacrazione del Messia uniscono il mondo ebraico, anche quello diasporico: l’anima giudaica rimane indelebilmente giudaica sempre, perché è spirituale.
In ogni parte del mondo si trovi il giudeo, guarda a Gerusalemme specie nel momento della realizzazione delle profezie messianiche.
Pilato, prefetto di Ioudaea (Giudea, Samaria e Idumea) e il tetrarca di Galilea e Perea e quello di Iturea avevano sempre temuto l’ingerenza militare di Artabano, ma in quel tempo messianico tutto l’assetto romano è naufragato.
Professore,in una tale situazione come si comportò Pilato?
Pilato (governatore dal 26 d.C) era stato sempre un perfetto prefetto, inviato da Seiano, probabilmente contrario al partito giulio (di Agrippina e di Caligola) a volte perfino era andato oltre il mandato tiberiano ed era stato inflessibile e duro contro i Giudei, coadiuvato da Erode Antipa, ma la sua azione più dura e repressiva, la fece contro i samaritani, poco prima della Pasqua del 36.
Noi riteniamo che a Pilato era sfuggita del tutto la situazione dopo il 32, la Pasqua, in cui Gesù si proclamò maran, e costrinse il prefetto a rinchiudersi a Cesarea e ad abbandonare al suo destino la torre Antonia, come già aveva fatto Erode Antipa con la guarnigione di Cafarnao: Gesù dovette tenere solo la Giudea e forse anche porzioni della Galilea e il controllo parziale della Perea, ma la Samaria era rimasta sotto i romani, perché dall ‘epoca di Erode, Sebaste, la città capoluogo della regione, era stata sempre filoromana, ma, in quei cinque anni di potere regale di Gesù, forse i samaritani si volevano riunire ai Giudei, favoriti da una politica unitaria messianica e perciò, furono sorpresi da Pilato, che ne fece una carneficina a Tirathana.
La situazione, dunque, in Palestina tra il 32 e 35 doveva essere caotica: l’inerzia di Tiberio era mal valutata da tutti i greci di quell’area e la ribellione della Giudea era diventata un focolaio per tutti gli altri che aspiravano ad avere l’indipendenza, ma la presenza degli eserciti romani, seppure senza capi e senza mandati ufficiali, impedivano la riunione delle singole parti: era aumentato il caos dopo la morte di Filippo e quella di Artaxias e di Pomponio Flacco, per la maggiore congiunzione di forze tra Artabano III ed Areta IV, i nemici di Tiberio.
La venuta di Vitellio in Giudea, quindi, fa pensare ad un ristabilimento dell’ordine e ad una ristrutturazione della politica precedente: insomma Tiberio aveva deciso di ripristinare l’ordine nella provincia di Siria e nella sottoprovincia di Ioudaea e di punire la politica di ingerenza di Artabano e quella di Areta IV di Petra.
La classe sommosacerdotale sadducea, gli erodiani e gli scribi sono filoromani e quindi gestiscono il potere e la ricchezza del tempio, avendo la maggioranza nel sinedrio; all’arrivo di Vitellio sia che venisse da Nord o da Sud, con le truppe congiunte di Pilato o con quelle Siriache il malkuth del maran illegittimo è finito, e la ribellione interna sadducea determina la fine, che si verifica all’atto dell’ultimatum romano, sotto le mura di Gerusalemme, assediata.
Giuseppe Flavio ci descrive l’assedio di Gerusalemme nel quinto libro di Storia Giudaica e le sue notizie collimano con quelle di Tacito (Hist.,V,12,3); da queste possiamo comprendere la preoccupazione da parte degli giudei assediati, convinti dell’impossibilità di sfuggire alla punizione romana.
Nella primavera, prima della Pasqua, dunque, del 36 la città si arrende e consegna il suo maran ai romani: era la soluzione migliore in quella situazione ormai favorevole ai romani in tutta l’area armena, siriaca e palestinese.
Tutte queste notizie ci spostano in un altro orizzonte, utile ai fini della nostra indagine e ci aiutano a meglio capire il motivo di una accoglienza ad un nemico, così festosa.
Noi riteniamo che nella Pasqua del 32 Gesù era entrato a Gerusalemme dopo una marcia trionfale iniziata dalla Galilea accolto dalla popolazione festante che lo aveva acclamato re, in quanto già riconosciuto Meshiah-Christos, figlio di David.
Questo antefatto comporta un’altra spiegazione in quanto da quasi un secolo i giudei palestinesi (popolo, piccolo e medio sacerdozio, leviti e farisei) aramaici, conformati al pensiero escatologico ed apocalittico, credevano nella venuta di un Messia, che avrebbe sconfitto il popolo romano e avrebbe stabilito il patto eterno nuovo con Dio nel tempio.
I giudei, convinti che il tempo era venuto grazie ad eventi grandiosi nel quadro dell’impero romano diviso in partes, in lotta fra filogiuli e filoclaudi, dopo la conclusione tragica della vicenda del potente capo pretoriano Elio Seiano, inquisito ed ucciso, avevano proclamato il malkuth ha shamaim e si erano ribellati alla autorità romana, sostenuti da Artabano, re dei parthi.
Proprio quando l’impero romano attraversava la grave crisi a seguito della sventata congiura antitiberiana in un momento difficile per la lotta alla successione tra Caligola e Tiberio Gemello, sostenuti il primo dall’esercito e dal popolo e il secondo dal senato ed equites (cfr. A Filipponi, Caligola il sublime, Cattedrale 2008 e Giudaismo romano, opera inedita, www.angelofilipponi.com).
La reazione tiberiana non ci fu, subito, contro il mondo giudaico e siriaco perché l’imperatore era impegnato nella conservazione del potere imperiale prima e, poi, nel difficile compito della successione.
Egli fu duro ed inflessibile nei confronti prima dei seianei e poi del partito giulio dopo il 18 ottobre del 31, morte di E. Seiano, capo pretoriano, che era riuscito a salire tutti i gradi degli honores fino ad avere la tribunicia potestas e l’imperium proconsulare maius per l’Oriente tanto da determinare una politica antigiudiaca, di cui Pilato era stato espressione violenta.
Siccome il potere di Seiano era stato grandissimo (Cfr Inizio acefalo di In Flaccum di Filone Alessandrino, www.angelofilipponi.com ), Pilato e lo stesso Erode Antipa, essendo sue pedine, avevano agito secondo le sue direttive, esasperando l’elemento non solo giudaico antiromano, ma perfino quello, da decenni filoromano, samaritano, che forniva truppe sebastene ausiliarie. Tiberio, ora, era sotto l’influenza di Macrone, nuovo capo dei pretoriani, e di Caligola (cfr Caligola il Sublime, cit.): questi furono esautorati e tenuti in disparte in attesa di giudizio mentre, nel frattempo, era morto, Pomponio Flacco per morte naturale, fedelissimo governatore, tiberiano, di Siria.
Impegnato nella feroce repressione in Roma e nell’impero, Tiberio tralasciò il problema siriaco e giudaico e non diede mandato al pur nominato Elio Lama (cfr.Angelo Filipponi, Giudaismo romano cit., cfr. Tacito Annales VI,28,2), per cui la Palestina e la Siria rimasero sotto l’influenza di Artabano, che aveva autorizzato Monobazo di Adiabene ad occupare l’Armenia Minore, avendo dato auctoritas regia a suo figlio Arsace.
In effetti Tiberio sembrava che avesse trascurato il problema, ma aveva già tessuto relazioni diplomatiche con Alani,Sarmati, Sciti, Iberi, Albani, facendo concessioni e regali come abbiamo visto.
Tiberio aveva atteso tempi migliori per un intervento,come era nel suo stile di dux prudens, mentre a Roma deplorava che dovesse pregare consolari a mettersi a capo di legioni contro Artabano.
Anche la politica interna al suo stato nel settore orientale siriaco e palestinese, essendo affidata a Pilato, dopo la morte di Flacco, si era rivelato un disastro tanto da essere fortemente irritato contro di lui (Filone, Legatio ad Gaium) che seguitava in una lotta di provocazione contro il giudaismo secondo l’impostazione ricevuta precedentemente da Seiano, ora forse suggerita da Macrone.
Quella zona aveva davvero bisogno di essere ristrutturata, a partire dall’Armenia Maior e Minor; l’azione antiromana di Artabano era stata sapiente dalla morte di Seiano ed aveva più o meno connesso tutta la regione caucasica, ciseufrasica e transeufrausica, la Celesiria e la stessa Palestina nella sua orbita, approfittando del fatto che quelle popolazioni parlassero la stessa lingua, aramaica ed erano della stessa tradizione medico-persiana, collegata anche da numerosi gruppi giudaici che erano entro i confini dell’impero romano e in quello parthico.
Gesù un davidida, un architetto, conosciuto non solo per la sua ablità tecnica e per i thaumasia (miracula) un discepolo di Giovanni il Battista (un goes, famoso per la sua singolare vita e per i suoi numerosi discepoli, armati, dopo il battesimo, ucciso da Erode Antipa), eletto mashiah dagli esseni, riconosciuto universalmente dal mondo giudaico aramaico ed ellenistico, provocò un’ondata nazionalistica così grandiosa da sconvolgere l’assetto mediorientale dell’impero romano, favorito da Areta IV (che aveva debita di gratitudine nel salvataggio della figlia, ripudiata da Erode Antipa e che era un fedele credente in Giovanni e nella sua missione e poi in quella del discepolo) e da Artabano III, e forse da Asineo, satrapo di Mesopotamia, oltre che da Monobazo ed Elena di Adiabene.
Professore, mi può dire esattamente cosa pensa di Gesù re?
Quello, che noi chiamiamo Gesù, si autoproclama re, maran e dopo una marcia di 10 giorni, durante la quale manda messaggeri alle città e ai sinedri chiedendo di essere accolto e quindi l’autorizzazione a passare indisturbato nei territori, giunge a Gerusalemme e viene accolto trionfalmente.
Dopo la purificazione del tempio, che sottende la presa della fortezza Antonia e quindi la strage dei romani, probabilmente segue il rituale purificativo di Ezra e viene ristabilito il nuovo patto con Dio, mentre aiuti finanziari e militari giungono da ogni parte del mondo sia parthico che ellenistico: la realizzazione del malkuth dovette essere un evento di valore mondiale e quindi di immensa risonanza.
La venuta del Messia e la concreta realizzazione del Malkuth ha shemaim impressionarono il mondo intero anche perché il giudaismo tendeva di nuovo a Gerusalemme da ogni parte dell’ecumene, in un ritorno alla patria, terra dei padri ora libera ed autonoma sotto un re davidico: noi abbiamo come confronto solo l’episodio di Zevì Shabbatai (1626-1676), e quello della odierna attesa della ricostruzione del tempio di Salomone, come inizio di tempi nuovi: il clima di speranza che si accende, diventa una mania irrefrenabile che comporta un esodo da ogni parte per ritornare alla terra santa, un vendere le proprie cose, un lasciare le proprie città, un portare con sé i propri averi, riconvertiti in oggetti preziosi, per essere presenti al fatto gerosolomitano per partecipare all’instaurazione del malkuth: 2.500.000 di ellenisti e 1.000.000 di aramaici partici, oltre quelli dispersi fuori del mondo conosciuto, in Seria, in India a Ceylon, in Nubia, sono coinvolti in questa impresa, sconvolti da questa impresa, che prelude alla Apocalisse e prepara l’escata, le ultime cose in cui Dio crea il regno messianico: pentimento–teshuvah, manifestazioni di gioia, digiuni, bagni rituali, ogni forma di preghiera, diventano normali inizi di una purificazione, partenze da ogni porto occidentale e ondate di ritorni da ogni terra orientale ed occidentale: tutti in una frenesia generale, vogliono favorire il Messia, combattere ed essere presente nel giorno del Signore: la lotta con le forze del male (Arconti di Paolo, le qelippot), deve essere unitaria; in ognuno è la convinzione che l’esercito messianico, avendo l’aiuto divino, è invincibile!.
C’è professore euforia con enthousiasmos?
Certo, Marco , dovunque:e nel mondo romano e in quello parthico e in ogni altra parte del mondo dove ci sono colonie ebraiche.I cives dell’impero romano stessi sono sconvolti da questo esodo in quanto molte città si dimezzano perché i giudei si separano nettamente dai gerim e goyim, lasciando tutto, abbandonando le loro attività, case ed ogni altro bene immobile: i porti occidentali ed africani furono presi di assalto e le stesse strade romane erano piene di carovane, di gruppi di uomini alleluianti che tornavano in patria: il fenomeno non poteva essere fermato dai governatori locali, data la consistenza numerica dei giudei.
Sul piano politico, grazie all’aiuto del re dei Parthi, si ricrea la situazione del periodo di Antigono (favorito dall’impresa di Pacoro, figlio di Orode, conclusasi con la vittoria di Ventidio Basso e con l’uccisione del re ad opera di Marco Antonio ad Antiochia nel 37 a.C.), ma sul piano morale non si ha altro precedente: l’evento dovette rimanere nella mentalità giudaica a lungo, se poi i giudei attenderanno la parousia del Signore, insieme con i Cristiani, fino al 70 e poi da soli con i nazirei, giacomiti, crederanno nel suo ritorno fino al 135 d.C. ed oltre, considerato che la famiglia di Gesù è inquisita fino a Conone sotto Decio (249-251d.C.).
Il meshiah, quindi, creato un nuovo sacerdozio, quello essenico, protetto dalla finanza alessandrina, probabilmente, e dai sussidi di tutti ellenisti ed aramaici, adottato il calendario solare, riconsacrato il tempio col rito di purificazione, fatta una solenne adunanza per la lettura della legge, compiuta una cerimonia espiatoria, purificò e riconsacrò il tempio e quindi, il quattordicesimo giorno del mese Nisan, celebrò la prima Pasqua nel 32 d.C., in Gerusalemme, libera dai romani (cfr. Giudaismo romano, cit ).
Egli potè governare per tutto il 32 , 33, 34, 35 e solo nel marzo del 36 con l’arrivo di Lucio Vitellio tutto si capovolgeva e la Giudea tornava in fibrillazione perché si riaccendevano le speranze dei sadducei, degli erodiani e degli scribi che, erano rimasti senza autorità e con i diritti limitati, simili a quelli dei leviti, ridotti di rango nell’ attività templare.
Infatti nel 35 Tiberio avendo risolto i problemi imperiali e fatti cessare i processi di lesa maestà, aveva anche concluso le stragi dei giuli e quindi, con la doppia adozione di Caligola e Tiberio Gemello, aveva così fatto tacere i lamenti del partito giulio, accontentato, perché aveva seguito il mandato di successione augusteo, che imponeva un elemento della famiglia di Germanico come successore accanto a quello della linea claudia (cfr. Caligola il Sublime, cit.).
Inoltre, il vecchio imperatore invia in Palestina con un doppio mandato Lucio Vitellio contro Artabano III e contro Areta IV, convinto che una volta, debellati gli antagonisti maggiori, i re locali sarebbero caduti facilmente a causa delle fazioni avverse, opposte.
Vitellio facendo pressione, grazie alla diplomazia tiberiana, già attiva tra gli albani e i Saci, sulle popolazioni scitiche al nord, nella zona del Kurdistan attuale li spinse con la forza e con il denaro contro il confine parthico; Artabano inviò un esercito comandato da Arsace suo figlio con 100000 uomini, ma fu sconfitto.
La disfatta costrinse il re dei re al trattato di Zeugma in cui dovette pagare indennizzi di guerra e dare ostaggi e sgombrare dall’area cisufrasica facendo ripristinare lo status quo (come abbiamo visto).
Il piccolo regno di Gesù, in quanto sottoprefettura di Ioudaea, ora è ricaduto sotto la diretta amministrazione romana, come prima del 32, e Gerusalemme, assediata, subisce l’ultimatum romano: o si arrende concedendo i capi della sedizione o sarà distrutta con la strage della popolazione.
In questa situazione tragica, di capitolazione e di resa, si verifica l’entrata in Gerusalemme di Vitellio: il governatore di Siria viene accolto festosamente dal popolo, che è ora dominato dai sacerdoti sadducei dagli erodiani e dagli scribi, che hanno formato un nuovo sinedrio, il quale probabilmente ha decretato, pur con grande dolore e tra contrasti, la paradosis del Christos all’autorità romana.
I vangeli mostrano Gesù arrestato e portato di fronte ad Anano I e alla sua famiglia, di sera e poi al sinedrio, di mattino: ciò sottende un’operazione all’insaputa del popolo e quindi contro la volontà dei più ardenti seguaci.
Nel processo contro la sua azione messianica non gli furono trovate colpe, nonostante gli accusatori e i delatori, ma il sinedrio decise la paradosis di Gesù Christos, un uomo giusto, all’autorità romana dopo che sommo sacerdote, scribi ed anziani avevano complottato al fine di prenderlo ed ucciderlo, pur timorosi di una sommossa del popolo (Mc. 14,1-2 thorubos tou laou).
I Vangeli, così dicendo, condannano lo stesso Sinedrio, responsabile della paradosis e della enedeicsis, ingiusta, eppure avevano già detto che Gesù era entrato già a Gerusalemme, salutato come un re ed era stato accolto in un tripudio di festa popolare e che aveva dimostrato di avere anche una ecsousia profetica, dopo aver cacciato i profanatori dal tempio.
Probabilmente il sinedrio che denuncia e consegna è diverso da quello che accoglie e che festeggia il Christos in Gerusalemme: ora, se la Pasqua è quella del 36 i componenti del sinedrio sono nuovi perché quelli del precedente sono stati esautorati ed arrestati, come fautori del Messia.
Questi, nuovi, a maggioranza, hanno considerato decaduto Gesù come re e quindi hanno deciso di prenderlo e di ucciderlo, consegnandolo ai romani dopo denuncia, cioè dopo aver decretato l’illegittimità della sua azione, della costituzione del malkuth ha shemaim.
Ora noi sappiamo tramite Filone (In Flaccum inizio acefalo e Legatio ad Gaium ) che il Sinedrio di Alessandria si comportò in modo solidale con gli zeloti, fuggiti ad Alessandria. Infatti furono nascoste le loro armi e furono protetti col silenzio, mentre i romani cercavano le armi e i fuggiaschi da Gerusalemme, seguaci del Malkuth, scampati alla sommaria giustizia di Pilato e di Vitellio.
Da Flavio sappiamo, poi, che, nel dopo settanta ad Alessandria, si verificò la stessa cosa ma gli alessandrini, coscienti delle cose che avevano patito nella dura reazione caligoliana, ebbero un diverso comportamento: il sinedrio votò contro gli zeloti e i sicari, ne favorì la cattura e li consegnò alle autorità romane che li torturarono e li uccisero, mentre gli altri giudei soffrivano di aver dovuto, per salvarsi, fare la delazione (cfr. Giudaismo romano,cit; Caligola il sublime,cit.; e commento al XVIII libro di Antichità giudaiche, oltre la traduzione di In Flaccum e Legatio ad Gaium).
Perciò, sulla base della esemplarità della situazione alessandrina, riteniamo che la minoranza sadducea, scriba ed erodiana tenuta in soggezione nel periodo del Malkuth trionfante, riprese il potere, all’arrivo degli eserciti romani e destabilizzò il regnum del maran e decretò la festa per l’arrivo del procuratore di Siria, dopo averlo accolto in città (che, come compenso, secondo la clementia, fece concessioni favorevoli ai sacerdoti, come abbiamo detto, e ripristinò lo status quo) determinando con quell’atto la morte del Messia, ora rinnegato.
Tutto ricominciò come prima della impresa di Gesù, come era avvenuto nel 6-7 dopo Cristo come era avvenuto nel 4 a.C. alla morte di Erode: l’impero romano ristabiliva il suo ordine e la sua giustizia, dando rilievo ai sadducei, agli scribi e agli anziani e tenendo soggetto il popolo.
L’élite giudaica aveva fiutato i tempi nuovi della romanitas: l’avvento di Caligola, l’ordo nuovo, il Regno saturnio, una nuova era di pace e di benessere, assicurata dal figlio di Germanico: ormai Tiberio malato era prossimo alla morte e lo stesso Vitellio non avrebbe portato a termine neppure l’impresa contro Areta IV.
Lo stesso governatore si era mostrato ancora di più filogiudaico, accogliendo perfino le proposte dei capi di non passare nella loro terra sacra con le insegne, ma di deviare per le terre samaritane e perciò, l’anno dopo, Gerusalemme, conosciuta la morte di Tiberio e la salita al trono di Gaio Caligola, di nuovo accolse il governatore di Siria che da Gerusalemme mandò un segnale di pacificazione generale per tutto l’ebraismo non ancora, ripresosi dalla sconfitta e dagli aneliti messianici, propagandando il regno saturnio caligoliano.
Ora, dunque, due propagande si avvicendano una valevole per tutto l’impero, quella del tempo suturnio, a contrapposizione dell’ideale messianico ormai frantumato e annichilito, specie nel clima di una perenne felicità, instaurata dal regno di Caligola, l’altra solo per i giudei increduli di fronte alla realtà dei fatti, alla morte del Christos, impegnata nella interpretazione dei segni, secondo la lettura di Isaia.
JHWH stesso parla: non ha bellezza, né splendore / perché lo ammirassimo / né amabile aspetto né prestanza/ Oggetto di sprezzo e reietto dagli uomini / uomo di dolori sperimentato dalla sofferenza / e come uno davanti a cui ci si nasconde la faccia: / spregevole, nulla, lo stimammo / portò i nostri dolori, noi l’abbiamo stimato un percosso,/un colpito da Dio ed umiliato / Ma egli è stato trafitto a causa delle nostre colpe / è stato fiaccato a causa delle nostre iniquità! il castigo esemplare che ci rende la pace è su di lui / e per mezzo delle sue piaghe ci è data la guarigione / noi tutti come pecorelle ci sviammo / ci volgemmo ognuno alla propria strada / e JHWH fece cadere su di lui, l’iniquità di noi tutti. / Fu angariato e lui si umiliò e non aprì bocca/ come agnello fu condotto al macello / e come una pecorella davanti ai suoi tosatori / è muta e non apre bocca… (53. 1-13)
L’interpretazione essenica e teraupetica del passo fu quella del Servo di Dio, (in seguito sarà quella del lamed vau, del trentaseiesimo destinato a morte per dare vita agli altri), di chi, offrendosi in espiazione per i peccati altrui, sarà coronato di trionfo (11-12) e sarà il capo dei credenti per sempre: perciò gli attribuirò le moltitudini delle genti / e dei possenti dividerà le spoglie / per il fatto che si sacrificò fino alla morte / e fu annoverato tra gli scellerati quando egli sopportava il peccato delle moltitudini / e supplicava per i trasgressori.
Mentre subito dopo la morte di Jehoshua tutti aspettavano il suo ritorno, chi in un modo chi in un altro a seconda della cultura di appartenenza, qualcuno cominciò (come Paolo) ad applicare i versi successivi della Nuova Gerusalemme (Isaia, 54) alla Chiesa.
Da qui il cambiamento di lettura e di impostazione tra i seguaci di Christos, tra gli aramaici e gli ellenisti: gli uni erano fiduciosi in un ritorno, parousia del maestro-re, che sarebbe venuto con forze ultraterrene e che avrebbe sterminato i romani, costituendo la Nuova Gerusalemme, eterna; gli altri attendevano il suo ritorno alla fine dei tempi, quando Gesù, uomo dio, che si era caricato il peso dei peccati umani e che aveva redento col suo sangue tutti, ebrei e non ebrei, avrebbe distinto dopo il giudizio i buoni dai cattivi, dando premi e castighi a seconda delle azioni conformi o non conformi al suo exemplum.
Sono due diverse letture ed interpretazioni di uno stesso brano di Isaia: Giacomo, il fratello di Gesù (Mc., 6,3-4; Mt. 13,55-56; Galati, 1,18-19; 2,9; Atti degli Apostoli, 1,14 12,17; 15,13;21,18; Flavio, Ant. Giud., X,200; Eusebio, St. Eccl.,1, 12,5; 2,23,25) e i seguaci del Malkuth, seguitando a vivere, seguendo le orme terrene e militaristiche di Christos, sarebbero rimasti nella via della clandestinità, in una segreta preparazione alla guerra; gli altri, invece, si sarebbero separati lentamente dai confratelli, distaccandosi dal ceppo giudaico, pur rimanendo attaccati alle radici del nomos ebraico e dopo il settanta, con la costituzione di un preciso canone evangelico, kerigmatico, avrebbero creato il cristianesimo, come noi oggi lo viviamo, secondo la tradizione romano-ellenistica, in un rifiuto totale e categorico del giudaismo ormai senza tempio e destinato alla Galuth.
La chiesa (non è qui il caso di lavorare sulla nascita di questo termine) è Nuova Gerusalemme decisa a conciliare humanitas con misticismo filoniano-platonico-paolino, pratica e teoria classica, secondo la methodos ellenistica giudaica sincretistica, adattata alla risultanza di moralitas romana occidentale, pagana, nella scelta della centralità dell’eredità di Roma, dopo la separazione dalla Sinagoga.
A distanza di secoli noi non siamo in grado di ricreare quel clima, formatosi dopo la morte di Gesù Cristo, né di seguirne le vicende fino al momento della scrittura evangelica, che fu una nuova evangelizzazione in epoca flavia connessa con la fine del tempio, legata da una cooperazione con la Romanitas e ad un rifiuto della stessa origine ebraica.
E’ quasi impossibile ricostruire quel clima in cui, i cristiani, dopo il trauma della distruzione del tempio, uomini, abituati a convivere seppure con notevole differenze, coscienti di essere uniti dalla comune base giudaica si separarono definitivamente dal giudaismo, di cui erano una setta ereticale.
Ancora più arduo rilevare la separazione dai nazirei, fratelli nati dalla stesso parto, seguaci e parenti del Messia, che ne seguivano la storia, non lo spirito, ormai larve pure di una comunità destinata alla fine, esangue a causa della selezione degli eletti, davidici e giudaici di stretta osservanza, aramaici, e specialmente a causa della sede stessa gerosolomitana, ormai periferica, dopo la fine del tempio, all’ecumene!.
Possiamo, però, rilevare che le risposte sono diverse a seconda della lettura di quella morte: i primi, giacomiti, fedeli ai principi mosaici, giudaici, anche loro vivono l’evento dell’attesa del Signore e del suo ritorno (cfr. Il vangelo di Giacomo in Jehoshua o Jesous?, Maroni 2003); i secondi, che poi si chiameranno cristiani, ellenisti, accettando l’interpretazione del servo di Dio di Isaia, attendono il ritorno di Cristo, sempre più assimilato al Logos e a Dio, e formano una nuova religione.
All’ euforia dei giudei ellenisti per l’ elezione di Gaio Caligola, segno di una nuova era per il mondo romano occidentale e per quello romano ellenistico segue lo sgomento della nuova persecuzione antigiudaica, feroce, estesa a tutto l’impero ancora più acuta sul territorio giudaico, quando è palese l ‘ektheosis imperiale con la neoteropoiia, la nuova politica.
Questa fase vissuta da entrambi gli schieramenti nell’angoscia di un possibile annientamento della radice giudaica di qualsiasi credo, di sradicamento della pianta giudaica in ogni parte del mondo è resa da Filone in Peri Areton ( nelle due opere susperstiti di questa opera, che doveva constare di cinque libri).
Filone mostra la grande illusione ebraica ellenistica dopo la bufera del periodo 25-31, del 32-36 e del phobos mortale dell ebraismo di fronte alla divinità di Caligola: la varie gradazioni di spavento fino al terrore e alla certezza della fine dell’ethnos sono perfettamente rese da Filone, che precedentemente ne aveva esaltato la figura e lodato la grandezza.
Lo scrittore alessandrino sa rendere quell’iniziale momento magico e divino, sublime, del Kronikon bion (Legatio ad Gaium, 13) , che pur doveva essere contrapposto al regno messianico: quel tacere sui fatti gerosolomitani e sull’illusione messianica, quanto male ha fatto! (ma Filone ha veramente taciuto oppure gli è stata messa la museruola! ed è stato addomesticato successivamente!).
Chi non si sarebbe meravigliato, e sorpreso, vedendo Gaio, che, dopo la morte di Cesare Tiberio, aveva preso l’impero della terra e del mare, che era in un periodo di grande tranquillità e che aveva un buon ordinamento?
Chi vedendo l’impero unito in ogni parte in un consenso universale a settentrione e a meridione, ad oriente come ad occidente – essendo d’accordo la stirpe barbarica con la greca, e quella greca con quella barbarica, convivendo amichevolmente soldati e cittadini, per un comune possesso e godimento della pace – (questi e quelli in reciproca pace godere insieme di rapporti e commerci) non sarebbe stato ammirato e sorpreso?
Chi non sarebbe stato ammirato e sorpreso di una fortuna così grande e appena narrabile, accumulatasi grazie ad un’unica eredità, di beni infiniti, di tesori zeppi d’oro ed argento, in parte come materiale grezzo (puro e non lavorato), in parte segnato come moneta, in parte come ornamento vistoso per coppe ed altri utensili che sono utili per l’ostentazione?
Chi, inoltre, non sarebbe stato ammirato e sorpreso per le milizie di fanteria, di cavalleria, navali e per le rendite che affluivano come da una fonte con un perpetuo tributo e per il potere non su moltissime ed essenziali parti dell’ecumene , di tutto il mondo propriamente detto abitabile, limitato da due fiumi, Eufrate e Reno, separante il secondo dai Germani e da feroci altri popoli e il primo dai Parti e dalle genti sarmatiche e scitiche, che non sono certo meno miti di quelle germaniche ma, per la terra, per così dire, quella da oriente ad occidente, bagnata dall’Oceano e comprendente alcune parti oltre Oceano?
Il popolo romano godeva le proprie feste in pace con tutta l’Italia e con tutte le province europee ed asiatiche… Tutti erano compiaciuti non perché speravano che avrebbero avuto possesso ed uso dei beni pubblici e privati ma perché pensavano di avere già la pienezza di una fortuna che era in attesa della felicità. Se ciò talora prima era accaduto sotto qualche imperatore, allora in effetti sembrava che i romani non già avessero speranze, ma tenessero l’usofrutto dei beni pubblici e privati.
Dunque, era possibile vedere per le città solo altari, vittime, sacrifici, uomini vestiti di bianco, coronati, sereni, mostranti bontà nei volti ilari, dovunque, feste, celebrazioni solenni nazionali, gare musicali , corse ippiche, feste orgiastiche, feste notturne, con flauti e cetra, diletti, condoni di debiti, tregue e divertimenti vari per ogni sensazione.
Allora non c’era nessuna distinzione tra ricchi e poveri, né tra illustri ed umili, né tra creditori e debitori, né tra padroni e servi perché il tempo pareggiava i diritti tanto che si credeva che si fosse verificato quel secolo di Saturno, descritto dai poeti come favola mitica: così grande era l’abbondanza, così fortunata la raccolta annuale, così eccezionale la felicità e sicurezza, che erano in tutte le famiglie e in tutta la popolazione, di notte, come di giorno, che si verificarono in modo continuato ed ininterrotto nei primi eterni sette mesi.
Filone (Ibidem,8-13) mostrando, dopo la morte di Tiberio, il sorgere di una nuova epoca, rivela la nuova illusione da parte degli ellenisti, quasi un cambiamento epocale, durato, però, per sette, otto mesi, grazie all’avvento al trono di Gaio Caligola figlio di Germanico: i giudei di Gerusalemme per primi conoscono l’inizio del suo regno e lo festeggiano sacrificando a Dio insieme a Vitellio, che fa la nuova entrata a Gerusalemme ad un anno di distanza, dopo che è stato sollecito ad accettare le richieste giudaiche di non passare nel loro territorio, sacro, ed ha fatto deviare per la pianura di Samaria, le aquile e i segni imperiali, seguendo il consiglio del Sinedrio gerosolomitano.
Filone mostra la delusione subito dopo la malattia dell’imperatore e il terrore, con cui il mondo intero attende le fasi dell’acuirsi della malattia, del suo esaurirsi e l’immensa gioia popolare per la guarigione: l’impero tratteneva il respiro nell’attesa dell’evento della guarigione dell’imperatore, giovane Augusto, salvatore del mondo: solo il giudaismo aramaico non partecipa ma è costretto a dare segni di passiva accettazione, mentre quello ellenistico è preso dalla illusione dell’ideale principe, venuto a redimere il mondo romano, a dare stabilità ad ogni essere, a creare un nuova età dell’oro.
All’ottavo mese, però, Gaio fu colpito da una grave malattia perché aveva mutato il razionale vitto, di cui si serviva con una certa frugalità sotto Tiberio, e che, perciò, era piuttosto salutare in un lusso smodato: infatti beveva vino in quantità, cercava ghiottonerie, non placava il desiderio neanche a ventre pieno.
Si aggiungevano, inoltre, bagni poco opportuni e poi vomiti e di nuove bevute, piaceri del ventre e di quelli sotto il ventre: egli faceva ginnastica erotica con donne e ragazzi e prendeva ogni altra cosa atta a distruggere il corpo e l’animo e i legami esistenti in ambedue.
La paga della temperanza è la forza con la sanità, dell’ intemperanza, invece, la fiacchezza con la malattia, che porta alla morte.
La fama di questa malattia si divulgò, quando ancora il mare era adatto alla navigazione; – infatti era l’inizio dell’autunno, che è quasi l’ultima navigazione per chi ritorna ai propri porti e rade, da tutti gli empori, specie per quelli che non amano svernare in terre straniere- subito tutti, partecipi, mutarono quella vita serena precedente in tristezza ed improvvisamente tutte le case e città si riempirono di preoccupazione e di tristezza, eguagliando la tristezza la letizia di prima, e passando così all’opposto.
Infatti insieme a lui erano malate anche tutte le province e, direi, in modo più grave di quella che aveva colpito Gaio: quella di cui languiva lui riguardava solo il corpo, quella di quelle, invece, era totale e di ogni tipo, di vigore spirituale, di pace, di speranza e di possesso e di godimento di beni.
Veniva alla memoria quanti e quali mali nascessero dall’anarchia: carestia, guerre, tagli di foreste, devastazioni territoriali, espulsioni di coloni, confische dei beni, imprigionamenti, timore di schiavitù o di morte, pericoli di cui non c’era nessun medico e si aveva un solo rimedio, che Gaio riavesse la salute.
Pertanto, quando la malattia cominciò a diminuire, in breve seguirono le manifestazioni di congratulazioni provenienti perfino dagli estremi territori -niente è infatti più veloce della fama- ogni città, era in attesa, sospesa, avida sempre di notizie migliori, finché non ricevette la buona notizia che Cesare si era ristabilito del tutto: e come se essi stessi avessero riacquistato la salute, tutti gli abitanti del continente e delle isole, ritornarono di nuovo alla gioia. Nessuno infatti ricorda che mai ci fu una così grande gioia di un qualsiasi popolo o regione per il recupero della salute del proprio principe, quanta allora ci fu per la salute di Gaio in tutto il mondo, appena riprese il comando e si cominciò a riprendere dalla debolezza.
Essi che non conoscevano la verità, godevano come se allora per la prima volta incominciassero a mutare la vita selvaggia e naturale in sociale e civile e a migrare dal deserto, dalle tane, dalle falde dei monti alle città fortificate e dopo una vita passata senza maestro, ad obbedire sotto un prefetto, ad un pastore e mandriano di gregge migliore.
La mente umana, infatti, vede male, né comprende che cosa sia veramente utile potendo servirsi di più dell’immagine e del vaticinio che della scienza. Pertanto non molto dopo, subito quello sperato salvatore, beneficentissimo, che avrebbe dovuto inondare l’Europa e l’Asia con nuove fonti di felicità, destinate a giovare privatamente, ciascuno e pubblicamente tutti, a cominciare dalla propria casa secondo il proverbio”a cominciare dal lare“ (dal focolare domestico), sfociò in crudeltà o piuttosto mostrò chiaramente quanto fino ad allora aveva dissimulato…
Il giudaismo, secondo Filone (Ibidem, 14-24), scopre la nuova realtà dell’impero giulio-claudio ostile, ferocemente ostile non solo agli aramaici ma anche agli ellenisti: la coesione tra un prefetto inquisito, connesso al popolo alessandrino, e l’imperatore, determina il pogrom alessandrino e con esso inizia un graduale sistema di distruzione dell’ethnos, colpito al cuore con la voluta installazione del colosso di Caligola nel tempio di Gerusalemme (dopo l’avvenuto insediamento nella grande Sinagoga alessandrina, capace di contenere 100.000 fedeli) e nel decreto imperiale antigiudaico di annientamento dei palestinesi, in caso di rifiuto.
Questa mirata azione, connessa con la soluzione del problema della successione. grazie alla morte di Tiberio Gemello e con lui la distruzione del senato, dei cavalieri, adombrata con la morte di Giunio Silano e di Macrone (cfr Caligola il Sublime, cit), favorisce l’inventio della pazzia di Caligola, la cui azione già doveva essere letta negli ultimi atti, compiuti da Vitellio in terra palestinese.
Già l’azione contro i samaritani (che avevano appoggiato probabilmente Jehoshua), i quali erano stati puniti da Pilato, su mandato di Vitellio, che ne fece una strage e rese possibile il passaggio delle truppe e la deviazione dalle terre giudaiche, è opera di Macrone e di Caligola: Tiberio, che ordinò che Pilato fosse inquisito e condotto a Roma per essere giudicato per mal governo compì, con questa azione, uno dei suoi ultimi atti imperiali, dal letto di morte, sotto la spinta del successore.
La situazione non era mutata in terra palestinese, se non marginalmente: a Gerusalemme, in Giudea Samaria ed Idumea, che costituivano la Ioudaea, dopo un anno, fatta eccezione per Kaifas destituito da Vitellio: tutto era ancora stabile in Perea e Galilea, sotto Erode Antipa, anche lui, però, incerto nel potere perché minato già da suo nipote–cognato Erode Agrippa, che inizia la sua ascesa regale, essendo stato fatto da Caligola re di Iturea e zone limitrofe nell’ex tetrarchia di Filippo, nonostante le lamentele del tetrarca (cfr. Caligola il sublime, cit).
Caligola, finito il periodo delle feste, caduto malato e poi guarito, cominciò una progressiva azione di riforma dello stato, i cui obiettivi erano l’abbattimento della ‘élite senatoria e l’annientamento della organizzazione economico- finanziario-religiosa giudaica.
Nel disegno di Caligola il giudaismo aramaico doveva essere annientato, data la sua recrudescenza periodica e considerata la differenza culturale con gli integralisti giudaici e con esso quello ellenistico doveva essere, prima limitato nel suo potere finanziario ed economico, stroncato nel suo proselitismo e distrutto nel suo impero commerciale: il giovane imperatore, dopo avere fatto fuori Macrone, suo suocero Silano e suo cugino-figlio, per consolidare il suo principato, ritiene opportuno destabilizzare i senatori e il senato e gli equites sostituendoli con i ministeriales, liberti che già operavano alle dipendenze della domus giulio-claudia, come magistri (servi) addetti alle corrispondenza, alle finanze, alla economia e alla diplomazia, a capo di ministeri già funzionanti in epoca tiberiana.
Dopo la prima fase, molto dispendiosa, per accattivarsi il favore militare e popolare, il principe cambia totalmente politica e diventa fiscalissimo e in questa attività colpisce i giudei che, grazie all’aiuto ininterrotto di Augusto e di Tiberio, avevano creato col proselitismo una rete finanziaria e commerciale, che copriva l’intero ecumene.
Caligola, colpendo gli equites, colpiva anche i giudei e le loro molteplici attività distruggendo il loro capitalismo, incentrato sul sistema bancario.
La sua azione parte da una inquisizione sulle armi in Alessandria, iniziata da uno zelante Prefetto come Avillio Flacco, un perfetto governatore tiberiano, che, temendo di esserre inquisito da Caligola perche delatore della madre, non avendo più il sostegno di Macrone, di Silano e del suo partito tiberiano, appoggia l’elemento greco di Alessandria contro i Giudei, e li priva, col tacito consenso di Caligola, dei loro diritti civili, facendoli precipitare da cives –politai ad inquilini csenoi epeludes.
L’atimia determina la fine del commercio giudaico, prosperato per decenni dal periodo di Cesare e e poi di Antonio e Cleopatra, divenuto grandioso fenomeno con Augusto ed anche con Tiberio pur con qualche limitazione e condanna.
Il processo antigiudaico era iniziato nel periodo seianeo 26-31, era poi rimasto latente, fino alla morte di Tiberio ed era riesploso nella primavera del 38 ad Alessandria per poi seguitare fino alla morte di Caligola: questo quindicennio è segnato da persecuzioni, quella di Seiano, Flacco e di Caligola di cui Filone ha rilevato tragicamente i momenti con la sua opera Peri aretoon, di cui ci sono rimaste solo In Flaccum e Legatio ad Gaium.
La ricostruzione di quest’opera composta di cinque libri in cui sono trattati i fatti capitati ai giudei (a epathomen/quelle cose che noi soffrimmo), probabilmente divisa in modo da rilevare il crescendo di tragedie culminate con la volontà di sterminio totale da parte di Caligola, che impone l’erezione del suo colosso nel tempio di Gerusalemme al governatore di Siria Petronio Turpiliano, come atto di profanazione della santità templare e come sua personale manifestazione divina dopo la sua ektheosis, autorizza il collegamento tra i fatti di Palestina e la costituzione del malkuth, con l’impresa di Vitellio, con l’agitazione e sommessa di tutto il mondo giudaico della diaspora al momento della creazione del regno messianico e della sconfitta e morte del Christos e quelli alessandrini, permettendo congiunzioni politiche proprie della neoteropoiia caligoliana(Cfr. Caligola il sublime, cit).
La neoteropoiia, tolta la pazzia caligoliana, una storiella ridicola, costruita dalla propaganda giudaica congiunta con quella senatoria ed equestre antigiulia, ripresa poi dalla dinastia flavia ed antonina, ai fini di una propria giustificazione di potere, è una politica di straordinario valore innovativo, basato sull’adesione popolare e militare, grazie ai meriti militari del domus giulia (Cesare, Augusto, Druso, Germanico), tesa alla ektheosis, dopo la distruzione del ceto senatorio ed equestre, e dopo la sostituzione ai vertici amministrativi provinciali con un gruppo di liberti amministratori pubblici, a seguito della costituzione di un sistema fiscale, che sopprimeva quello erariale e quindi considerava eguali tutti i cives, isonomici, dopo l’ eliminazione di ogni privilegio sia di classe che di stirpe, che di religione (Cfr. Caligola il sublime, cit).
Il giudaismo, che usciva da una delusione così profonda della falsificazione del suo Christos, non ancora ripresosi dallo stordimento della fine del malkuth, incapace di reagire, specie quello palestinese, di fronte al pericolo della profanazione del tempio, ha una supina accettazione, basata sulla cessazione dei lavori agricoli e sull’esodo composto, rituale: esso va in processione, a sei file a Tiberiade, ben guidato da elementi moderati, come i sadducei, rimettendosi alla clemenza dell’imperatore e del suo rappresentante, il nuovo governatore di Siria, Petronio Turpiliano (Flavio, Ant.Giud., XVIII, 261) preferendo la morte collettiva alla profanazione del tempio.
Quello diasporico, visto naufragare il proprio impero emporico e finanziario, dopo l’atimia, cerca una difesa in Dio, consapevole, inoltre, della volontà di Caligola di trasferire la propria capitale ad Alessandria e quindi di gestire l’impero proprio dalla capitale del giudaismo, sede della centrale finanziaria giudaica, già compromessa.
In questa situazione di estremo pericolo per il giudaismo universale, ben temeva Petronio le congiunzioni tra i tre giudaismi (quello palestinese, quello aramaico parthico e quello diasporico), la ricchezza della finanza giudaica ellenistica che, se messa al servizio del militarismo aramaico, avrebbe potuto sconvolgere il mondo e determinare un nuovo conflitto con la Parthia e rivoluzioni interne all‘impero romano stesso, data la consistenza numerica in ogni città dell’elemento giudaico.
ll giudaismo ellenistico aveva mostrato non solo potenza finanziaria ed economica per il patrimonio bancario e per il dominio sui porti del Mediterraneo, specie di Alessandria, e per le connessioni e ramificazioni in ogni centro anche piccolo di tutto l’Occidente e l’Oriente, ma ora essendo congiunto con quello aramaico minacciato nella sua sede centrale di Gerusalemme, poteva innescare un batteria di rivolte, capace di minacciare l’ordine e rompere l’eirene stessa dell’impero romano.
Il pogrom dell’estate del 38 e la difficile situazione antisemita mantenuta per tutto il regno di Caligola fino alla sua morte, nonostante l’azione di difesa di Erode Agrippa, divenuto anche re di Galilea e di Perea,determinano uno sconvolgimento nell’impero, generale, reso ancora più tragico dal clima di felicità, inaugurato nel periodo saturnio dal regno di Caligola.
Solo la morte di Caligola salvò dalla punizione di esilio in massa per il rifiuto di portare il colosso nel tempio e fece cessare le agitazioni in ogni città in quanto i greci vincitori, insicuri degli eventi e sulla successione rimasero perplessi di fronte alla mostruosità dell’uccisione del sovrano e quindi le Boulai cittadine non ebbero tempo di votare le acquisizioni indebite, gli espropri e quindi di incamerare i beni giudaici.
Con la nomina di Claudio ad imperatore e quindi con la non interruzione dinastica, i greci frenarono la loro azione antigiudaica e gli ebrei respirarono in attesa di un editto imperiale di ripristino della situazione precedente, fiduciosi in un atto di clemenza del nuovo imperatore, che doveva seguitare nella linea economica della sua domus secondo i prostagmata lagidi, accettati da Augusto.
Se, da una parte, la situazione cambia, resta, per, la necessità di non seguitare nel proselitismo, altrimenti l’imperatore punirà il giudaismo (Editto di E. Retto o lettera agli alessandrini cfr. Giudaismo romano, cit. e Legatio ad Gaium, cit.), ritenuto come peste dell’impero.
Il giudaismo ellenistico respira, mantiene il suo status nel periodo di Claudio e di Nerone anche per la protezione di Poppea, ma, dovunque, nelle singole città, ricorrentemente si verificano scontri tra greci e giudei: Antiochia e Cesarea Marittima mostrano come il sistema di vita ellenistico non più protetto, ma solo parzialmente assicurato dall’autorita centrale romana, sia, ora, privato di auctoritas locale e perciò vulnerabile, specie dopo la morte di Erode Agrippa I (Cfr Caligola il sublime, cit e Giudaismo romano, I parte,cit).
Alla sua morte, infatti, essendo ripristinato il vecchio statuto sulla Giudea e data la prefettura a Cuspio Fado e quella di Siria a Cassio Longino (Flavio, Ant. Giud., XX, 1-14), ci furono ribellioni in Perea e la questione della veste sacerdotale, che di nuovo fu appannaggio dei romani.
Fado e Longino si accordarono, facendo un patto con i sacerdoti, che tumultuavano insieme col popolo e chiesero che, se essi davano ostaggi, potevano inviare una commissione ed ambasceria a Claudio per la richiesta della veste.
Claudio, per amore del figlio di Agrippa I (Agrippa II ) e dei suoi fratelli Erode ed Aristobulo, permise che la veste fosse in mano giudaica e specificamente di Erode re di Calcide, che ottenne l’autorità sul tempio, sul vasellame sacro e sull’elezione del sommo sacerdote (Ibidem, 16).
Gli episodi di Cesarea e di Antiochia sono esemplari in questo senso ed evidenziano la stato di rappresaglia nell’interno di città proprio a causa della presenza giudaica: la situazione in Ioudaea divenne tragica alla morte di Erode Agrippa nell’agosto del 44, anno in cui fu acuta la carestia (Cfr. Flavio, Giudaismo romano, cit.)
Professore, La nuova costituzione per la Iudaea è un altro segno del buon governo romano?
Non scherzare, Marco! Specie in un momento di grave crisi economica, Claudio sa contenere l’ira imperiale, ma ha le stesse idee del nipote, che voleva estirpare il cancro giudaico!. La Ioudaea, con parte della Perea e della Galilea , ora, è di nuovo sotto il potere diretto di Roma: Claudio non ha voluto dare a Agrippa II il potere neppure di una parte del regno paterno, vista la giovane età (17 anni), gli concede solo parziale potere su zone ituraiche, mentre a Erode, fratello di Agrippa I venne dato il regno di Calcide (poi concesso, alla sua morte, al figlio di Agrippa I)!…
Con la nuova costituzione la Iudaea va ormai verso la sua distruzione totale, prima templare ed infine gerosolomitana e nazionale! …