Girolamo e la traduzione
La lettera LVII di Girolamo a Pammachio è un vero trattato sulla traduzione.
Essa si divide in 13 paragrafi
La lettera è tipica espressione di un’artificialità retorica, in cui è facile rintracciare la formazione di Girolamo, discepolo di Apollinare di Laodicea e di Gregorio di Nazianzo e quindi indirettamente della scuola origeniana del Didaskaleion di Alessandria. Girolamo è inficiato, quindi, di apollinarismo!La sua opera risente della theoria apollinarista, che seppure condannata in Oriente, in Occidente, ha qualche sua applicazione!.Gli apollinaristi affermano che Gesù Christos non ha un’anima razionale come l’uomo, avendo nell’incarnazione il Verbo assunto un corpo senza l’anima, per cui le manifestazioni della vita intellettiva dell’anima in Cristo sono dovute unicamente al Verbo. Polemizzando con gli ariani, Apollinare, nell’uomo distingue, secondo il pensiero platonico di Plutarco (Il volto della luna, a cura di D. Del Corno, Plutarchi moralia selecta, Adelphi 1991) il corpo/soma o Hule, l’anima sensitiva /psyché e l’anima intellettiva /nous, rilevando che il Verbo divino assume della natura umana soltanto il corpo e l’anima sensitiva ma non l’anima intellettiva. Apollinare ritiene che nell’unione di due nature, in sé perfette, quella umana e quella divina non possono rimanere integrali, altrimenti verrebbe diminuita la natura divina. Perciò, è necessario che nell’unione sia mutilata la natura umana che risulta imperfetta in quanto senza anima . Infatti secondo Apollinare, in un uomo completo esiste il peccato, che deriva dalla volontà, dallo spirito. Se si vuole salvare l’impeccabilità di Cristo, è necessario eliminare l’anima intellettiva! a mio parere Girolamo all’epoca è origeniano e, quindi, segue ancora l’indirizzo di Gregorio di Nazianzo, razionale, pur nella dimostrazione, e retorico in ogni sua affermazione.
Precisato questo, per dare un segno paradigmatico della retoricità dell’opera di Girolamo, mi sembra opportuno rilevare il sistema di semantizzazione della conclusione, connessa con la grammaticizzazione: da una parte -anche se in una porzione limitata -si capisce il sistema operativo del grande interprete e da un’altra la sua logica apocalittica.
La conclusione della lettera si divide in 5 periodi, in cui l’insieme risulta molto organico in quanto il piano dei contenuti è ben legato a quello dell’espressione: il santo sintetizza quasi tutto il pensiero in una volontà di scusarsi per la lunghezza della lettera, connessa con la misura del dolore, per essere stato chiamato e definito falsario.
In questa dimostrazione conclusiva evidenzia lo stato di commossa tristezza perché il suo pensiero è stato dilaniato (fatto a brani) in muliebri dispute: eppure lui ha cancellato l’accusa e non l’ha ricambiata, cristianamente.
Egli, infatti, è fiducioso nel superiore giudizio di Pammachio, che capisce le querimonie e i preziosi lamenti degli avversari.
Questo costituisce la pars media del suo pensiero conclusivo.
La chiusura è, da una parte, in relazione all’incipit e, da un’altra, alla pars media in quanto l’autore proclama che ha desiderio di scrivere commentari biblici e non filippiche: insomma egli dice di essere teso a mostrare la sua superiorità biblica rispetto agli avversari, ciceroniani e classici.
Girolamo, inoltre, si pone su un gradino più elevato, come di chi è vicino a morte e non ha più pensieri umani e velleità letterarie, mostrando di essere su di un’altra dimensione, quella del sacerdotium, rispetto agli avversari, ma questo è solo un artificio letterario: egli (a parole) è già in attesa della morte e del giudizio divino e perciò fa opera pietosa e non accusatoria.
Infatti la struttura del sistema conclusivo di Girolamo è costituita da segmenti ben collegati fra loro in modo da produrre un effetto patetico sul lettore e di attirare il consenso personale ed universale, congiunto a quello del giudice, scontato, data l’amicizia.
Da Clemente alessandrino ad Origene ad Eusebio e ai tre cappadoci, questo procedimento efficace, ma fittizio, risulta un comune sistema conclusivo in cui la vecchiaia, la morte e il giudizio divino liberano gli scriventi dalla loro umanità e li consacrano già all’eternità….
Fatta questa premessa, necessaria al fine di mostrare come Girolamo retoricamente proceda e come sia proiettato in senso spirituale ai fini di una edificazione morale e di una lectio di pietas, iniziamo la lettura della lettera.
Avvertiamo in aggiunta che tutta la lettera dice esattamente il contrario di quello che afferma Girolamo: lui vuole dimostrare che è ormai in Dio ed è scevro da affetti umani e libero da ripicche e da protagonismo, ma in effetti lui è ancora irascibile, tutto pervaso di rabbia e tutto preso dal proprio io.
La lettera si apre con un primo periodo, espresso in modo paratattico, con l’anafora di excessi per evidenziare che lui, epistolografo, ha superato la lunghezza di una lettera, ma non la misura del dolore, espresso antiteticamente col chiasmo mensuram epistulae, doloris modum e con l’allitterazione mensuram ….modum.
Il secondo è un periodo complesso, in cui egli parla di sé in prima persona (Vocor et dilanior ) in quanto definito falsario e fatto a brandelli tra spole e fusi di donnette, ma crea il ritratto di persona che si accontenta di cancellare aspergendo l’accusa (crimen abluere) senza ricambiarla (referre).
Il terzo ha valore centrale nella costruzione generale del paragrafo perché l’autore, sempre in prima persona, si rimette al giudizio di Pammachio, invitato a leggere la lettera in greco e in latino, a prendere coscienza immediatamente delle ciance degli accusatori e del valore dei rimbrotti.
Significativo il periodo complesso per la fiducia nel giudizio (arbitrio tuo) per la lettura e per la comprensione delle nenias et querellas, in cui spicca la metafora dell‘aggettivo pretiosas.
Il quarto, anch’ esso complesso, è costituito da una proposizione principale mihi sufficit/ mi basta, che precisa il punto di vista dell’autore, seguita da una infinitiva (amicum instruxisse carissimum iperbato)- in cui instruo, non ha solo valore di informare ma anche implica un fare una precisa costruzione logica e pertinente – e da un‘altra infinitiva (in cellulam latitantem diem tantum expectare iudicii) in cui viene marcata l’attesa in cella soltanto del giorno del giudizio (sempre con iperbato per dare rilievo sia a tantum che ad iudicii, genitivo di quantità).
E nel quinto conclude, mostrando, sempre in enunciato complesso, il suo desiderio (opto) di scribere commentarios potius scripturarum quam Demostenis et Tullii Philippicas (in forma chiastica), dopo una protasi di I tipo (si fieri potest) e dopo una concessiva (etsi adversariii saevierint/ anche se gli avversari infuriano incrudelendo su di lui).
La pecorella, a Betlemme, nella sua cella, desidera non scrivere difese contro i nemici, ma commentare la sacra parola: questo il suo reale pensiero, connesso con la volontà di attendere la morte.
E’ un discorso falso di un uomo falso, che con la parola si fascia e vive un suo sogno, quello della verginità della donna e del celibato dell’uomo, in attesa della fine del mondo, come già espresso in Apologia a Pammachio lettera 49 ( cfr. Benedetto XVI e la tradizione origeniana). Si tenga presente che Girolamo è colpevole dell morte di Blesilla!
Ho voluto leggere dalla fine questa lettera per mostrare come Girolamo parli e come scriva in modo da dare il giusto rilievo alle sue parole in un clima come quello del primo effettivo cristianesimo, unificato teodosianamente, e della coscienza di forzare i tempi per la venuta (ritorno) del Signore, in una cristianizzazione dell’arte pagana. I decreti di Teodosio autorizzano la violenza contro ogni forma pagana e contro gli ebrei: è una norma: chi vince s’impossessa delle opere d’arte, precedenti. La stessa cosa viene fatta in Siria e Palestina ed Iraq quando l’arte bizantina viene islamizzata. Al Walid (705-715) sottrae la cupola di una chiesa cristiana di Baalbek, di metallo dorato e la colloca nella moschea di al Aqsa a Gerusalemme.
Il Girolamo, betlemita, è convinto del ritorno del signore, della parousia: la divisione dell’impero in due sfere, dopo la morte di Teodosio, la pressione barbarica, la vittoria cristiana in tutta l’ecumene ellenistico, la dogmatizzazione evangelica ormai radicata dopo il concilio di Costantinopoli, ( Lui era lì, presente accanto a Gregorio, presso cui studiava greco) sono segni di un progressivo avvento del Signore.
Questo clima prepara e giustifica i tempi nuovi cristiani, che sono tempi di reazione antipagana e il grave integralismo religioso, imposto dall’élite monastica, specie in Oriente, dove sono più chiari i segni di un Ritorno del Signore.
Allora le persecuzioni antipagane, l’irrigidimento del credo nei confronti degli eretici, la ricerca di una sola fides diventano urgenze in un clima bigotto, di cui è emblema la corte di Costantinopoli, dove alla morte dell’imperatore Arcadio, nel corso della reggenza per la minore età di Teodosio II, sempre più si avverte il senso della fine con l’avvento di una mentalità basata sul celibato e sulla verginità, instaurata da Pulcheria e dal suo team, che dominerà anche nel corso del regno del fratello.
In Occidente, con Roma abbandonata, mentre Ravenna viene potenziata e resa capitale, si determina un nuovo corso storico, in cui autorità religiosa ed autorità politica in conflitto saranno gli aghi di una nuova politica, che minerà la compattezza istituzionale occidentale, dove il pontificato romano comincerà la sua reale ascesa, già con la potente figura di Damaso, nonostante la sua oscura immagine, specie in senso finanziario e bancario.
Infatti già è potenziata la struttura delle diokeseis con il papa dioichetes, la cui funzione principale è nell’ amministrazione dei beni comunitari secondo una formula già funzionante nel III secolo, allineata secondo i canoni della caritas giudaica, della tzedaqah alessandrina, che aveva ben fuso il funzionamento amministrativo con la struttura militaristica: Roma dipende ormai chiaramente dal sistema alessandrino, che viene potenziato proprio perché distante dal potere imperiale, seguendo il modello proprio del vescovo-papas di Alessandria.
Infatti la chiesa di Alessandria e il suo papa hanno una notevole autonomia: Atanasio, Pietro, Teofilo e Cirillo di Alessandria hanno lo stesso comportamento autocratico di Damaso tanto da risultare per la corte costantinopolitana sovrani indipendenti, nuovi faraoni: dominare finanziariamente e violentemente grazie ad uomini armati sembra essere un sistema collaudato, grazie al predominio economico e alla gestione dei parabolani, quasi tutti monaci di Scete.
Divenire papa è un grande affare per i cittadini che competono alla carica, come per un regno, ben consapevoli del doppio potere papale, esclusivo a livello locale sia a Roma (cfr. Ammiano Marcellino, Le storie, XXVII,3,11-14) che ad Alessandria.
Avere il consenso della corte di Ravenna in Occidente per Roma e quello di Costantinopoli in Oriente per Alessandria è importante, ma è più importante per i due papati avere già il controllo del potere finanziario e militare.
Le eresie da combattere sono in relazione al potere civile ed economico e risultano una opposizione finanziaria e politica più che religiosa e morale: insomma la morale copre la politica.
Ora la lettera di Girolamo sottende questa operazione e questo pensiero.
Nel I paragrafo l’autore si difende dall’accusa di Rufino di incompetenza o di falsità (ignorantiam vel mendacium) ed ha la possibilità di dimostrare la sua verità effettiva davanti ad un amico dotto, capace di giudicare – episodio di Paolo e di re Agrippa II-.
Nel II viene mostrato l’episodio da cui derivano le accuse.
Girolamo mostra che due anni prima della lettera ( scritta nel 395-396 o più tardi?) il vescovo Epifanio aveva scritto una missiva per Giovanni, vescovo di Gerusalemme (386-417) in cui lo rimproverava circa alcune opinioni in materia di Fede e lo invitava benevolmente alla penitenza.
Era questi un origeniano di grande valore, superiore per autorità a Girolamo, che viveva a Betlemme.
Lo scritto era anche piacevole e quindi andava a ruba in Palestina fra i monaci. Allora un suo confratello Eusebio di Cremona, non conoscendo il greco, prega Girolamo di tradurre la lettera in modo da poterla comprendere.
Girolamo chiama uno stenografo (accito notario), detta in fretta e furia (raptim et celeriter) ed annota a fianco quale senso abbiano i vari paragrafi e, pregato Eusebio di non mostrare la copia con facilità, dato l’uso privato del lavoro, fatto solo per lui.
Dopo 18 mesi, invece, la lettera passa dalla cassa del monastero di Eusebio a quella di un monastero a Gerusalemme in quanto uno pseudo monaco o in cambio di denaro o per mala fede, fattosi Giuda traditore (Iudas …proditor ), rubate le carte e i denari, dà occasione agli avversari di latrare contro di lui.
Infatti alcuni accusano Girolamo come falsario (Me falsarium) e dicono che non traduce parola per parola (me verbum non expressisse de verbo) e che ha tradotto carissimo invece di onorevole il termine aidesimotatos (reverendissimo).
Il secondo paragrafo, dunque, è basilare per la comprensione del dissidio tra Girolamo e i suoi nemici.
Dal terzo fino al sesto Girolamo si difende in vario modo.
Dapprima fa una investigazione circa coloro che chiamano malitiam prudentiam e si pone alcuni interrogativi (da dove hanno tratto la lettera? chi l’ha presa? come non si vergognano a parlare, dopo aver fatto un misfatto? Non si può neppure avere segreta una cosa?)
Segue la minaccia di denunciare i colpevoli perché la legge stabilisce una pena per il delatore, anche se giova al fisco (il profitto piace, l’intenzione dispiace/ lucrum vidilicet placet, voluntas displicet).
Passa poi a mostrare esempi recenti e poi quelli del passato.
L’imperatore Teodosio II (408-450) ha condannato l’ex console Esichio perché ha corrotto un segretario violando le carte del Patriarca giudeo Gamaliel, (390-415), che pur era a lui molto ostile.
Ricorda il maestro dei Falisci, ricorda Fabrizio che rinvia il medico a Pirro e poi medita sulla condizione dei monaci che, pur seguaci di Cristo e viventi in pace, non sanno essere giusti, senza trovarsi in mezzo a guerre: essi cercano il loro utile al pari di ladri, briganti e pirati, come d’altra parte, fecero Kaifas e Annas.
Passa poi nel 4, alla sfera privata, al sacrosanto diritto di avere una propria intimità e di poter fare azioni segrete e di essere padrone di ogni cosa, finché non c’è la pubblicazione e quindi torna a porsi domande sulla non legittimità di azioni, come quella di corrompere servi, di spiare, di penetrare sotto varie forme nell’ ambito altrui, come Zeus con Danae, specie se si accusa un altro di essere falsario, essendo (così facendo) di molto peggiori.
Riflette poi che proprio nell’ accusare il traduttore di fare errori o di omettere qualcosa, l’altro crede di non essere, per questo, eretico.
Ed aggiunge: non dico questo perché so che tu sei eretico … ma perché è cosa molto stupida che chi è accusato da uno, incolpi un altro e col corpo trafitto da ogni parte, cerchi sollievo, colpendo chi dorme.
Nel 5 dopo una precisa distinzione, a seguito della sua proclamazione di tradurre gli autori greci liberamente (non rendendo la parola con la parola ma il senso col senso non verbum e verbo, sed sensum … de sensu) tra le lettere greche afferma di aver seguito in questo l’esempio di Cicerone (traduttore di Protagora di Platone, Economico di Senofonte e le Orazioni di Eschine e Demostene, riportandone anche la prefazione di Academica 3,10. Dice anche di seguire Orazio nell’Ars poetica (133), Terenzio, Plauto e Cecilio.
Distingue, comunque, tra il modo con cui traduce lettere greche da quello in cui” legge” quelle delle Sacre Scritture, dove anche l’ordine delle parole è un mistero (ubi et verborum ordo mysterium est).
Insomma Girolamo afferma di non curarsi di rendere parola per parola come un fidus interpres ed aggiunge che quella che i suoi maligni denigratori chiamano esattezza di traduzione (veritatem interpretationis), i dotti chiamano kakozelian ed adduce come prova la premessa, che ha fatto per la traduzione al Kronikon di Eusebio, scritta all’epoca di Costantinopoli, quando era discepolo di Gregorio di Nazianzo (380-81): “E’ difficile che uno che segue le linee tracciate da altri non se ne allontani in qualche punto ed è raro che quanto è detto bene in una lingua conservi la stessa bellezza in una traduzione: un concetto è stato espresso ricorrendo ad un solo termine: non ne ho uno mio con cui renderlo e nel tentativo di esprimerne pienamente il senso, compio a fatica con un giro un breve tratto di strada. Ci sono inoltre le tortuosità degli iperbati, le differenze dei casi, la varietà delle figure e da ultimo, per così dire, le caratteristiche peculiari della lingua (vernaculum linguae genus), se traduco alla lettera ne esce un suono assurdo, se, per necessità cambio qualcosa nella costruzione e nel linguaggio sembrerà che io sia venuto meno al mio compito di traduttore … e se a qualcuno non pare che la grazia di una lingua risulti alterata da una traduzione renda alla lettera Omero in latino e dirò di più lo renda in prosa nella sua lingua originaria: vedrà che la costruzione risulta ridicola e che il più eloquente dei poeti riesce appena a parlare”.
Sempre sullo stesso tema Girolamo, al fine di dimostrare che lui giustamente traduce non le parole ma i concetti (Non verba sed sententias), riporta la prefazione forse di Evagrio di Antiochia, suo amico, che aveva tradotto intorno al 374 a Roma Vita Antonii di Atanasio : “La traduzione letterale di una lingua in un’altra nasconde il senso, come se delle erbe lussureggianti soffocassero il seminato. Il discorso, infatti, quando resta schiavo dei casi e delle figure, protraendosi in lunghi giri, spiega stentatamente ciò che poteva indicare in poche parole. Cercando dunque di evitare questo difetto ho tradotto, su tua richiesta, il Sant ‘Antonio in modo tale che niente manchi al senso anche se manca qualcosa delle parole. Altri vadano a caccia di sillabe e di lettere, tu cerca i concetti”.
Per ultimo cita Ilario di Poitiers (315-367), molte volte da lui lodato per l’eloquenza, traduttore del Commento a Giobbe di Origene e del Tractatus super salmos.
Questi non si era, secondo Girolamo, legato alla lettera né tanto meno si era inflitto la tortura di tradurre in modo pedante come fanno i rustici, ma ha preso il senso e lo ha trasferito nella sua lingua victoris iure (secondo il diritto del vincitore).
Sulla base dell’esempio di Ilario il confessore, Girolamo inizia ad esaminare, come gli scrittori profani ed ecclesiastici abbiano fatto nei testi sacri. Perciò dal 7 a 12 tratta dei sistemi di tradurre le sacre lettere e degli errori commessi o dei necessari cambi o delle omissioni da una parte o da un’altra, insomma della differenza di traduzione tra i vari traduttori della stessa lettera sacra-mysterium.
Egli parla così solo per scusarsi o meglio per avere indulgenza della sua non buona traduzione della lettera di Epifanio: lui stesso riconosce le incongruenze tra le fonti bibliche ebraiche e quella dei Settanta e tra queste e gli evangelisti: egli dice che possano accusare di falso i profani, perché empi, come Celso, Porfirio e Giuliano, ma non i sacerdoti e i monaci che, essendo della stessa fede, devono essere non critici con lui come non lo sono con gli altri, che hanno tradotto.
Originale valutazione propria dei “compagni”, tipica dei cristiani e di tutti gli integralisti: indulgenza per quelli della propria fede ed attacco mordace contro gli “infedeli”!
Nel 7 Girolamo afferma che i Settanta, gli evangelisti e gli apostoli si comportano nel tradurre allo stesso suo modo.
A tal proposito esamina dapprima Marco (5,41) che nella resurrezione della figlia di Giairo dice: Talitha cumi/alzati, fanciulla aggiungendo il suo significato io ti dico: fanciulla, Alzati.
Egli afferma che non si può accusare di falsario Marco perché aggiunge io ti dico in quanto lo ha fatto per rendere il discorso più enfatico ( emphatikoteron) proprio di chi, parlando, comanda.
Legge poi l’ episodio narrato da Matteo (27,9-10) di Giuda che getta i denari d’argento, con cui poi fu comprato dai sacerdoti il campo del vasaio.
Allora aggiunge l’evangelista, fu adempiuto quanto era scritto per mezzo del profeta Geremia il quale dice: e presero i trenta denari d’argento, il prezzo del venduto che mercanteggiarono dai figli di Israele e li diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il signore.
Girolamo dimostra che non esiste in Geremia alcun passo che testimoni ciò, ma esiste in Zaccaria, anche se detto in modo diverso e in un contesto del tutto differente. Egli riporta la Vulgata (E dirò loro: se vi pare, datemi il mio compenso, oppure dite di no: E pesarono il mio compenso: trenta denari d’argento. E il signore mi disse : Mettili nel crogiuolo e guarda se il metallo è provato, come io sono stato provato da loro: e presi i trenta denari d’argento e li misi nel crogiuolo della casa del mio Signore) e il testo ebraico (E dissi loro: se è bene ai vostri occhi, portatemi il mio compenso; se no lasciate stare. E pesarono il mio compenso : trenta denari d’argento. E il signore mi disse: gettala per lo statuario, la bella somma che sono stato valutato da essi: E presi i trenta denari d’argento e li gettai per lo statuario nella casa del signore). Dal confronto allora aggiunge senza entrare in merito alla probatio, tipica azione dei nummularii e degli argentarii contro la falsificazione del denario nel peso dell’argento. Girolamo afferma che anche l’evangelista può essere definito falsario perché sbaglia anche il nome: l’evangelista non si curò, comunque, di andare a caccia di parole e di sillabe, ma di rendere i concetti dogmatici (sententias dogmatum).
Analizza poi un altro passo di Zaccaria(11,12-13), seguito secondo l’originale ebraico da Giovanni (19,37) Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto. Rileva che c’è discordanza tra i Settanta e l’evangelista da una parte e la versione della vulgata da un’altra, anche se c’è accordo di unità dello spirito ( spiritus unitate).
Per Girolamo l’evangelista Matteo (26,31), avendo attribuito le parole del profeta a Dio, è colpevole di sacrilegio secondo quando scrive che il Signore predice agli apostoli la fuga e conferma questo con un passo di Zaccaria (13,7 sta scritto; colpisci il pastore e le pecore si disperderanno).
Infatti i settanta e il testo ebraico divergono da lui perché mostrano che non Dio ma il profeta prega Dio, suo padre: Colpisci il pastore e si disperderanno le pecore (Zac.13,7).
Analizzando un altro passo di Matteo che è considerato non veritiero e troppo libero nella resa del testo ebraico evidenzia come su consiglio dell’angelo, Giuseppe fugge in Egitto e viene esortato a rimanerci finché non muore Erode perché così possa adempirsi quanto detto dal signore per mezzo del profeta: Dall’Egitto ho chiamato mio figlio 12,15.
Per Girolamo i manoscritti della traduzione latina non hanno questo, ma questo è nel profeta Osea, dove è scritto secondo l’originale ebraico ( 11,1 Poiché israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio) e secondo i settanta ( Poiché Israele è un piccolo fanciullo io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato i suoi figli).
Girolamo si pone il problema se sono da colpire come falsari i traduttori oppure se sono da perdonare secondo la parola di Giacomo fratello nella carne di Cristo in quanto il passo riguarda specificamente il mistero di Cristo (ad Christi maxime pertinet sacramentum); cita proprio quel Giacomo, poco accetto alla gerarchia della Chiesa (perché poco disposta a riconoscere il rapporto di parentela con Cristo, nociva alla verginità della Madonna). Si cita la lettera di Giacomo che era stata sempre ripudiata e non inserita nei libri canonici, e che solo con Atanasio era stata alla fine accettata con riserva, data la particolare posizione del fratello nella carne di Gesù e considerati i problemi della sua controversia con Paolo e (quel che è più grave) la minaccia alla verginità di Maria (madre non solo del Cristo) (Cfr. www.angelofilipponi.com I due canoni).
Comunque, viene citato Giacomo (3,2) prendendo la parte meno significativa del lungo pensiero del Giusto, fratello del Messia.
Il pensiero di Giacomo, tratto dalla sua epistola (3,2) non spiega esattamente quanto vuole dire Girolamo (Tutti sbagliamo in molte cose e se uno non sbaglia nel parlare costui è un uomo perfetto, capace di tenere a freno tutto il corpo), impegnato nella disputa con uomini Logodaedali et fastidiosi aestimatores omnium tractatorum (artisti della parola e giudici fastidiosi di ogni trattato).
E contro questi lancia una sfida, traendo i termini sempre da Matteo (2,23), non fedele nella traduzione: venne ad abitare in una città che è chiamata Nazaret perché si adempisse ciò che è stato detto per mezzo del profeta : sarà chiamato nazareno chiedendo dove effettivamente si legge.
Egli allora afferma senza alcuna reticenza: sappiamo che si trova in Isaia ( 11,1 secondo la Vulgata ed uscirà un virgulto dalla radice di Iesse e un fiore spunterà dalla radice) tradotto dall’ebraico (E uscirà un virgulto dalla radice di Iesse e un nazareno crescerà dalla sua radice?). Egli, quindi, conclude circa l’ omissione del passo da parte dei Settanta: Se non è lecito nel tradurre cambiare una parola è sacrilegio avere nascosto o ignorato il mistero (si non licet verbum trasferre pro verbo, sacrilegium est vel celasse vel ignorasse mysterium).
Nell’ottavo Girolamo esamina ancora Matteo (1,22-3 tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta che dice: ecco una vergine avrà nel ventre e partorirà un figlio e di nome lo chiameranno Emanuele) e lo mette a confronto con i Settanta (Isaia 7,14 ecco una vergine riceverà nel suo ventre e partorirà un figlio e di nome lo chiamerete Emmanuele) la cui traduzione è diversa in due punti riceverà al posto di avrà e chiamerete al posto di chiameranno. E mettendo in relazione i due testi precedenti con quello della Veritas Hebraica (Ecco una vergine-non detto dall’autore- concepirà e partorirà un figlio e di nome lo chiamerà Emanuele)senza mostrare la differenza di termine tra almah- giovane donna e betullah-vergine- ,aggiunge che a chiamarlo così non sara Achaz, che era accusato di mancanza di fede, non saranno i giudei che avrebbero rinnegato il signore ma sarà .. la stessa che lo concepirà, la stessa vergine che lo partorirà. Girolamo qui è veramente un falso che, pur sapendo la verità, la camuffa perché già impegnato nella dimostrazione della verginità di Maria.
Insiste ad esaminare Matteo (2,5-6), suo bersaglio preferito, circa l’episodio dei Magi e di Erode che, radunati scribi e sacerdoti, indaga sul luogo di nascita del Messia, avendone la seguente risposta: A Bethleem di Giuda; così infatti è scritto nel profeta; e tu, Bethleem, terra di Giuda, non sei affatto il più piccolo dei capoluoghi di Giuda, da te infatti nascerà il capo che deve reggere il mio popolo. Confronta il passo con quella dei Settanta (Michea,5,2 E tu, Bethleem, casa di Efrata, sei modesta per contare tra le mille di Giuda; da te uscirà uno per essere principe in Israele) e vede divergenza e nelle parole e nella costruzione .
Fa poi notare che bisogna stupirsi se si confrontano ambedue con il testo ebraico (Michea,5,2 E tu, Bethleem di Efrat, sei piccolina tra le mille di Giuda: da te uscirà colui che deve essere dominatore in Israele ) Rileva poi che a Bethleem , considerata dall’evangelista terra di Giuda, si oppone di Efrata del testo ebraico e di casa di Efrata dei Settanta. mostrando invece la sostanziale opposizione tra tu non sei affatto il più piccolo tra i capoluoghi di Giuda del vangelo rispetto ai settanta sei modesta per contare tra le mille di Giuda e alla veritas Hebraica (sei piccolina tra le mille di Giuda) che nel senso concordano.
Spiega poi che l’evangelista dice che Bethleem non è piccolina mentre è scritto che è piccolina e modesta, ma tuttavia da te, per me piccolina e modesta, uscirà il capo di Israele in relazione a quanto detto da Paolo (I Corinti 1,27 Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere ciò che è forte… che deve reggere – o deve pascere- il mio popolo Israele)
Girolamo sembra far intendere che il passo di Matteo, tradotto, dipenda da quello di Paolo e non viceversa, dando possibilità di ridatare il vangelo matteano (cfr Giacomo e Paolo).
Completata la critica a Matteo e alla sua traduzione della Bibbia, mostrato che ha fatto ciò non per accusare gli evangelisti (opera questa degli empi Celso, Porfirio e Giuliano) ma solo per accusare di imperizia i critici ed ottenere la loro indulgenza (sed ut reprehensores meos arguam imperitiae et impetrem ab eis veniam) che concedono alle Sacre scritture.
Passa ad esaminare Marco discepolo di Pietro e l’inizio del suo Vangelo ( Inizio del vangelo di Gesù Cristo. Come è scritto nel profeta Isaia: ecco io vi mando il mio angelo davanti a te: egli preparerà la tua strada. Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del signore raddrizzate i suoi sentieri.
Girolamo spiega che questo passo non è del solo Isaia ma è una sincresi di due profeti (Malachia ed Isaia) e precisa che Ecco io mando il mio angelo davantio a te : egli preparerà la tua strada è di Malachia (3,1) mentre voce di uno che grida nel deserto ecc. è di Isaia (40,3).
Si pone il problema di come Marco abbia potuto fare questo (2,25-26) ma solo per chiedere ai suoi detrattori (chiamati imperita praesumptio) di risolvere questo piccolo quesito (hanc quaestiunculam). Solo allora egli chiederà scusa per l’errore. Mostra poi Marco che parla del Salvatore, che dice ai farisei non avete mai letto ciò che ha fatto David quando si trovò in difficoltà ed ebbe fame, lui e i suoi compagni, come entrò nella casa di Dio sotto il pontefice Abiathar e mangiò i pani dell’offerta, di cui soltanto ai sacerdoti era permesso cibarsi? Dalla lettura di Samuele del testo ebraico (corrispondente al I Re 21,1 della Vulgata e dei Settanta) dimostra che non c’è scritto Abiathar ma Achimelech il sacerdote, che poi fu ucciso per ordine di Saul.
Passa poi a Paolo (I Corinti, 2,8-9 Se infatti ne avessero avuto conoscenza non avrebbero mai crocifisso il signore della gloria. Ma come è scritto: ciò che occhio non vide, né orecchio udì, né entrò mai in cuore di uomo, questo dio ha preparato per coloro che lo amano).
Qui egli mostra che alcuni (forse Origene) vogliono mostrare che Paolo dipenda da apocrifi, dalle loro follie (deliramenta) e specificamente da Apocalisse di Elia (che è un testo ebraico del III secolo av.C. molto in voga con interpolazioni nel III d.C. in cui si tratta della Rivelazione di Michele circa il futuro e l’Anticristo, del viaggio di Elia in paradiso e del Messia di nome Winon, che vittorioso contro Gigit, instaura il regno messianico), mentre è chiaramente legato al testo di Isaia ebraico, (64,4 Non l’hanno mai udito né sentito con le loro orecchie, tranne te, o Dio, occhio non ha visto ciò che ha preparato per coloro che ti attendono) che non è stato ben reso dai Settanta (Non abbiamo mai udito ed i nostri occhi non hanno mai visto Dio tranne te, e le tue opere sono vere e farai misericordia a coloro che ti attendono).
Girolamo invece afferma di comprendere bene da dove prende Paolo e dice; Intelligimus unde sumpsit testimonium anche se l’apostolo non ha reso parola per parola ma parafrasticamente (parafrastikoos).
Questa operazione parafrastica la ripete anche in Lettera ai Romani (9,33) quando cita un passo di Isaia (8,14 non incontrerete un sasso di inciampo ed una pietra di scandalo) discostandosi dalla Vulgata, ma rimanendo attaccato al testo ebraico.
Infatti nei Settanta il senso è opposto Non incontrerete un sasso di inciampo né pietra che vi faccia cadere: Pietro (2,7) concorda e con Paolo e col testo Ebraico: ma per coloro che non credono sasso di inciampo e pietra di scandalo.
Da qui la conclusione di Girolamo nel 9: da tutti questi esempi è evidente che gli apostoli e gli evangelisti, nel tradurre le antiche scritture hanno ricercato il senso non le parole e che non si sono curati molto della costruzione e dei termini, visto che i concetti erano chiari.
Nel 10 Girolamo passa a parlare di Luca, discepolo degli apostoli ed evangelista. Questi scrive di Stefano, primo martire, che dice ai giudei Con settantacinque anime Giacobbe scese in Egitto e lì morirono lui e i nostri padri e furono trasportati in Sichem e furono posti nel sepolcro, che Abramo aveva comprato e pagato in denaro dai figli di Emmor, figlio di Sichem.
Dopo aver mostrato che questo passo è in Genesi dove si parla di Abramo che comprò da Efron l’eteo, figlio di Saar, nelle vicinanze di Ebron, per quattrocento doppie dracme d’argento una grotta doppia ed il campo che la circondava e che lì seppellì Sara sua moglie, rileva (Genesi 33,18-20) che Giacobbe, tornando dalla Mesopotamia con le sue mogli e i suoi figli pose la tenda davanti a Sichem, città dei sichemiti, che è nella terra di Canaan e che lì abitò dopo aver comprato la parte di campagna dove aveva le sue tende, da Emmor, padre di Sichem per cento agnelli e che lì eresse un altare ed invocò il Dio di Israele.
Dimostra quindi che Abramo non comprò da Emmor padre di Sichem, ma da Efron figlio di Saar e che non fu sepolto a Sichem ma ad Ebron, nome distorto in Arboc, ed aggiunge che i dodici patriarchi non furono sepolti in Arboc ma in Sichem e che quel campo fu comprato non da Abramo ma da Giacobbe.
Dopo tali indicazioni non tira le conclusioni, ma invita i detrattori a fare ricerca e a comprendere (quaerant et intelligant) che nelle Scritture non bisogna prendere in considerazione le parole ma il senso.
Aggiunge poi che il Salmo 21 comincia con le stesse parole dette dal Signore sulla croce: Heli Heli lama zabtani(21,2). che vengono tradotte Dio, Dio mio perché mi hai abbandonato ?
Precisa che i Settanta hanno aggiunto in mezzo, guardami (respice me 21,2) e chiede ai detrattori che certamente essi lo spiegheranno, dicendo che il senso non ne risente per l’aggiunta di due parole (nihil in sensu damni esse, si duo verba sunt addita).
Dunque, Girolamo conclude questa volta: Audiant et a me non periclitari ecclesiarum statum, si celeritate dictantis aliqua verba demiserim (Ascoltino che anch’io non ho messo a repentaglio lo stato delle chiese se, dettando in fretta, ho tralasciato qualche parola).
Nell’11 Girolamo, dopo una premessa specifica, sembra puntare il suo esame sui Settanta ma in effetti attacca la traduzione di Aquila, che nel II secolo, in epoca adrianea, aveva fatto la traduzione della Bibbia.
Infatti già nella premessa anticipa il suo pensiero mostrando come i Settanta siano stati liberi nella traduzione ed abbiano omesso a loro arbitrio molte cose, ma i passi negli esemplari sono contrassegnati da obeli e da asterischi; coi primi i grammatici greci indicano un passo spurio o superfluo, mentre con l’asterisco assicurano il lettore della genuinità di un passo incerto.
Egli, comunque, rileva che gli ebrei ridono alla lettura di alcuni passi esempio: Beato chi ha discendenza in Sion e famiglia in Gerusalemme (Isaia 31,9 )o Hanno creduto che queste cose fossero stabili e non fugaci (Amos 6,5).
Queste sono giudicate re vera sensus rhetoricus et declamatio tulliana (frasi davvero retoriche e declamazione ciceroniana)!
Girolamo ha, comunque, stima della Traduzione dei Settanta che era in voga nelle chiese orientali, in cui non c’erano tali aggiunte e tante altre cose simili: egli rileva contraddizioni ed aggiunte o omissioni rispetto al testo ebraico ed afferma che gli occorrerebbero infiniti libri per la dimostrazione di tali aggiunte nel caso che lo volesse fare.
Egli però dice che ci sono gli asterischi, che mettono in guardia e soprattutto la sua traduzione ed è, perciò, sufficiente che un lettore diligente li confronti con la versione della tradizione: essa ebbe prevalenza anche al tempo degli apostoli che la usarono nei passi che non si discostavano dal testo ebraico.
E quindi veniva tradotta ogni cosa in quanto Aquila, essendo un proselito giudaico, rendeva in greco specificamente il Vecchio testamento condannato da Origene, da Eusebio, da Epifanio ed ora da Girolamo per la sua traduzione letterale verbum e verbo senza trascurare neppure l’articolo e il prearticolo, facendo opera troppo pedissequa.
Egli tentò di tradurre non solo le parole ma anche le etimologie e perciò egli non è accettato dalle Chiese. Infatti dice: “chi potrebbe in luogo di frumento vino ed olio leggere e comprendere parole come cheuma, oporismos, stilpnotes che noi possiamo esprimere con versamento, raccolta di frutti e splendore o dato che gli ebrei hanno non solo gli articoli ma anche i prearticoli potrebbe tradurre come lui, kakozeloos (con cattivo gusto) anche le sillabe e le lettere e dire col cielo e con la terra cosa che la lingua latina e greca non possono ammettere” in quanto esse rendono senza con /sun col solo accusativo.
La sua conclusione è: quante sono le espressioni che in greco risultano felici, ma, una volta tradotte alla lettera, in latino non suonano bene e, al contrario, quelle che piacciono a noi, se vengono tradotte secondo l’ordine delle parole, non piaceranno a loro!
Nel 12 si rivolge all’amico, il più cristiano di tutti i nobili, il più nobile di tutti i cristiani: a lui sottopone le critiche a lui fatte da Rufino e dal vescovo di Gerusalemme, mostrando quali siano le falsificazioni, facendo vedere l’incipit della lettera greca e della sua traduzione e riportando le critiche stesse degli avversari.
Il testo edei hmas , agaphte, mh th oihsei ton klhron pheresthai,- la traduzione: sarebbe opportuno, carissimo, che non facessimo cattivo uso dell’onore che ci viene dalla condizione nostra di chierici montando in superbia- viene sottoposto a critica: ” Ecco, quante falsità in un’unica piccola riga! Innanzitutto agapeetos è caro non carissimo; poi oihsis significa opinione non superbia- non ha detto infatti oihmati ma oihsei: il primo termine suona gonfiezza il secondo giudizio – e tutto quel che segue non facessimo uso cattivo dell’onore che ci viene dalla nostra condizione di chierici, montando in superbia è tuo”.
Segue la sua ironica indignatio espressa in vario modo: con sarcasmo definisce Rufino un pilastro delle lettere un Aristarco (famoso grammatico alessandrino) abile a trinciare giudizi su tutti gli scrittori; con ironica allusione alle punizioni sostenute nel tirocinio scolastico ripete una frase di Giovenale ( (1,15 sottratto spesso la mano alla bacchetta); o si finge un pessimo timoniere che si incaglia all’uscita del porto riprendendo un passo di Quintiliano ( IV,1,6 pessimus certe gubernator qui navem dum portu egreditur impegit).
Poi con malcelata parodia invita Rufino a correggerlo e a tradurre parola per parola riconoscendo che è umano l’errare e che l’errore è tipico di chi è saggio: chiunque tu sia, o censore, ti scongiuro, correggimi tu, o maestro, e traduci parola per parola.
Aggiunge: avresti dovuto dire: sarebbe stato opportuno, mio caro non essere trascinati dall’opinione dei chierici.
Con un poliptoto (haec hic) mostra che questa è eloquenza plautina, che questa è eleganza attica degna di essere paragonata all’eloquio delle Muse.
Lui, invece, può dire, riprendendo un proverbio popolare (ci rimette olio e spese chi manda il bue in palestra) che ci ha rimesso solo le spese per fare esercizio inutile.
E’ una massima di grande efficacia!
E dunque… ci si può fidare della traduzione di Girolamo, del suo modo di ragionare “cristiano”, del suo integralismo e di quello di uomini della sua epoca, così chiaramente antipagano ed antiebraico?